La manovra
economica non testimonia solo della riluttanza con cui il governo ha
ammesso la crisi, né solo della cessione di sovranità, verso istanze
esterne, che questo ritardo ha determinato. L´articolazione della
manovra, che colpisce soprattutto il reddito fisso, contiene in sé
anche un significato simbolico e politico. Ben chiaro a Berlusconi e ai
giornali di destra, che piangono sul ceto medio tartassato anche da una
imposta aggiuntiva per chi guadagna oltre i 90.000 euro l´anno (il
reddito fisso di livello basso a loro non
interessa).
Si tratta in realtà di lacrime
fuori posto, propagandistiche e vittimistiche, che distolgono
l´attenzione dai veri soggetti colpiti (appunto, l´intero lavoro
dipendente in quanto tale). Infatti, non tutto il ceto medio è
tartassato: quel tetto è superato da ben poche persone fisiche, per
nove decimi dipendenti pubblici e dirigenti aziendali. Il mondo delle
professioni - molto vicino alla destra - è assente. Anche alla
luce del dettagliato articolo di Maurizio Ricci di ieri, ciò significa,
concretamente, che il nostro sistema fiscale non funziona e che è
inattendibile, perché la reale composizione dei ceti più abbienti è
assai diversa, e vede - com´è logico - un grande concorso di lavoro
autonomo; è dunque sbagliato e iniquo utilizzare questo fisco come
strumento per misurare la capacità contributiva dei cittadini (da
questo punto di vista la contro-manovra del Pd è più saggia, perché si
serve come indicatore la proprietà delle case e i capitali rientrati,
su cui si hanno notizie meno incerte).
Sotto il profilo simbolico, dunque, quella manovra non significa un
attacco al ceto medio in generale, ma qualcosa d´altro. Significa -
fosse o no nelle dirette intenzioni del governo - che la crisi epocale
dello Stato che stiamo attraversando comprende anche la sempre minor
tutela e il sempre minore potere politico e prestigio sociale dei ceti
dirigenti che allo Stato fanno capo (professori, magistrati, alti
esponenti della burocrazia, ma non i vertici, di diretta nomina
politica), di quei ceti cioè che coniugano sistematicamente sapere ed
efficacia pratica, cultura e competenza, impersonalità e imparzialità
dell´agire pubblico (secondo le indimenticabili annotazioni di Max
Weber).
Anche senza pensare che si tratti di un atto di guerra ideologica, di
odio di classe, come pure è stato comprensibilmente detto, e anche
ammettendo che si tratti solo del cinico calcolo di chi cerca soldi
dove è più facile trovarli (cioè nelle categorie che non possono
evadere), o in ceti elettoralmente non vicini a questa destra, pare
difficile non farsi cogliere dal dubbio che il significato simbolico di
questa situazione è che agli occhi dei politici di maggioranza la
burocrazia abbia perduto valore, perché hanno cominciato a dubitare
dell´utilità della sua funzione - strutturare la società secondo
procedure scientifiche dietro input politico.
Non c´è bisogno di ricordare le tesi estreme, presenti anche nel
governo, secondo cui la società tendenzialmente si governa da sé, e lo
Stato fa parte dei problemi e non della soluzione. E´ sufficiente
comprendere che i dirigenti pubblici hanno storicamente di solito avuto
un orientamento filo-governativo. Ma si trattava di governi che
credevano nel ruolo pubblico e politico del sapere pratico (o che
almeno ne intuivano l´utilità) e che rispettavano la legittimità
intrinseca della burocrazia (e in generale dei dipendenti pubblici),
ovvero il merito certificato da un concorso, come vuole la
Costituzione. Il che consentiva al burocrate di essere leale ma di
identificarsi nello Stato, non nei governi; di essere neutrale, non
direttamente politico; di servire la cosa pubblica, non una parte. Ma
per la cultura politica di questo governo, fondata sull´emozione
ideologica, sull´identificazione nel Capo, sul populismo, è
evidentemente estranea la funzione di chi si identifica nello Stato,
nel proprio ufficio, nel proprio sapere.
Gli elementi punitivi dei ceti medi statali, presenti nella manovra,
nascono dunque da circostanze di fatto, dall´estraneità dei dipendenti
pubblici allo scambio fra libertà di comportamenti (anche fiscali) e
consenso politico su cui si è fondato il ciclo berlusconiano. Ma
nascono anche da ragioni più radicali, perché nel dipendente statale
c´è un´indipendenza - in linea di principio - che non lo fa aderire
facilmente alla politica come viene concepita e praticata oggi. Una
politica che anche nell´emergenza prosegue la grande lotta contro lo
Stato che caratterizza questa fase storica, al punto che si può dire
che lo Stato (nella sua configurazione allargata, tipica del
dopoguerra) è l´ultima creatura politica del Novecento (dopo il
fascismo a metà secolo, e il comunismo a fine secolo) a uscire di
scena, tendenzialmente travolto dalle nuove forme dell´economia
globalizzata e finanziarizzata.
Non si tratta di un´analisi accademica ma di una questione politica
immediata: una società che non si prende cura della riserva di sapere,
di capacità pratica e di indipendenza che lo Stato rendeva possibile è
invertebrata, proprio in quanto priva di quei ceti medi di cultura e di
competenza in cui prendeva forma e figura efficace l´azione ordinativa
dello Stato, in cui era contenuta una possibilità di continuità e di
sviluppo della funzione pubblica. L´esistenza non di poche isole più o
meno d´eccellenza, ma una rete diffusa di saperi autorevoli e
prestigiosi perché imparziali, efficaci, fondati sul merito, dotati di
forte ethos d´ufficio, è una questione che interpella non tanto questa
o quella parte politica, ma tutto il Paese. Se vuole ancora
preoccuparsi del proprio futuro, oltre l´emergenza. (da la
Repubblica di Carlo Galli)
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