In parlamento
si torna a discutere della legge Gelmini. Giovedi scorso la commissione
cultura ha esaminato il primo decreto attuativo relativo alle procedure
di abilitazione dei professori universitari.
Arriva con grande ritardo e non è immediatamente attuativo, perché
rinvia a successivi provvedimenti proprio le questioni più importanti:
criteri di valutazione e settori concorsuali. Un decreto chiama
l’altro, ma non sono ciliegie. È una sequela burocratica con l’unico
scopo di fare melina e tenere bloccati più a lungo possibile i concorsi
– sono passati ormai tre anni – per consentire al sistema di assorbire
i tagli di Tremonti.
In commissione il Pd ha votato contro la proposta
governativa e ha chiesto la presentazione di un nuovo testo contenente
tutti gli elementi necessari per un’immediata attuazione delle
procedure di valutazione.
Ben altro impegno ha mostrato la ministra sul fondo per il merito,
imponendo una repentina modifica dopo solo tre mesi della legge 240 per
creare un altro carrozzone pubblico, una fondazione con relativi
presidente e consiglio di amministrazione incaricata della gestione.
Per adesso siamo ancora alla fuffa di dichiarazioni di principio, ma
già si intravede dove vogliono andare a parare.
I soldi sono pochi per il diritto allo studio, circa 100 milioni, cioè
quasi la metà di quanto versano gli stessi studenti con la tassa
regionale e pari al 5-6 per cento del finanziamento pubblico stanziato
in Francia e Germania, rispettivamente 1,6-1,9 miliardi di euro.
Eppure, la ministra intende stornare una quota di questi finanziamenti
verso la Fondazione per il merito – che opera a prescindere dal reddito
– per estendere i sussidi anche ai figli di papà. Se il figlio di una
famiglia ricca va bene negli studi non ha certo bisogno di essere
aiutato con qualche centinaia di euro dallo stato, ma semmai a lui e a
tutti i meritevoli, a prescindere dal reddito, andrebbero offerte
opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di
specializzazione, e in presenza di motivazioni anche attività di
ricerca.
Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe
invece concentrato solo sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere
i costi degli studi. Almeno così dice la nostra Costituzione. Il
sussidio ai figli di papà ha trovato largo consenso nel dibattito,
nonostante siano più forti in Italia le differenze sociali nella
formazione dei giovani, i quali si trovano esposti ad almeno tre
trappole che impediscono il pieno sviluppo delle capacità. C’è
innanzitutto una trappola cognitiva poiché la quota di laureati figli
di non diplomati è al di sotto degli standard europei.
Ormai solo ai figli di avvocati, di imprenditori ecc. sono assicurate
le stesse opportunità dei genitori. C’è una trappola territoriale
evidenziata, ad esempio, dal fatto che gli studenti idonei senza borsa
sono concentrati quasi esclusivamente nelle regioni del Sud. Infine,
c’è una trappola sociale e va crescendo sotto i morsi della crisi.
Sono i figli delle famiglie più povere e del ceto medio in difficoltà a
rinunciare agli studi universitari perché non ce la fanno a sostenere i
costi o perché si vanno convincendo che la laurea non garantisce più
un’occupazione adeguata.
E forse la tendenza è stata aiutata anche dal silenzioso aumento della
tasse universitarie del 30 per cento negli ultimi tre anni, praticato
dagli atenei senza rispettare l’attuale limite di legge. Comunque,
l’effetto immediato della legge 240 consiste nella paralisi
dell’università.
La stretta burocratica e i tagli finanziari convergono nel produrre un
sistema universitario più piccolo, più rigido e più sottomesso. E di
conseguenza gli atenei diventano sempre difficili da governare.
A tale esito ha contribuito la crisi della leadership accademica, che
è, a mio avviso, la ragione fondamentale della crisi dell’università
italiana. Si sono infatti inariditi i processi di formazione della
classe dirigente e non emergono più all’interno dell’accademia quelle
personalità capaci di convincere la comunità scientifica senza
ricorrere alle norme, ma in virtù della propria autorevolezza e del
prestigio culturale o morale. I dirigenti accademici ricorrono
all’intervento esterno per porre fine alle discussioni accademiche con
il sigillo della legge. Ma in questo modo contribuiscono a indebolire
il prestigio dell’istituzione che dirigono.
Paradossalmente l’unico tentativo di restituirela credibilità
all’università italiana è venuto dagli studenti, dai giovani
ricercatori e in generale dai professori meno impegnati nelle
burocrazie accademiche. Sono andati sui tetti, come a dire la volontà
di riportare in alto il rango dell’istituzione universitaria.
E allora in autunno dovrà continuare a farsi sentire questa voce.
Bisogna riprendere la mobilitazione per fermare i guasti prodotti dal
governo e per cominciare a tracciare una via nuova di autentica
riforma. E in questo impegno dovranno tornare a darsi la mano la
mobilitazione negli atenei e l’opposizione nel parlamento, come avvenne
lo scorso dicembre.
(da http://www.europaquotidiano.it di Walter Tocci )
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