Le opere letterarie,
afferma Bachtin, “spezzano le frontiere del loro tempo e vivono nei
secoli, cioè nel grande tempo, e spesso (le grandi opere sempre) di una
vita più intensa e piena che nell’età loro contemporanea” (M. Bachtin,
Risposta ad una domanda del” Novyj mir”, in AA.VV.,La cultura nella
tradizione russa del XIX e XX secolo, a cura di D. S. Avalle, Einaudi,
TO1980).
E’ il caso della Commedia di Dante, compendio del sapere medievale, ma
anche opera che si pone come invito alla riflessione per l’uomo di
tutti i tempi, opera che a noi lettori “extralocali”del secolo XXI, al
nostro mondo d’oggi caratterizzato dalla frammentarietà,
dall’insufficienza, appiattito tutto sul presente e incapace di
distinguere il contingente dal Necessario, il finito dall’Infinito, il
temporale dall’Eterno, inaridito e disorientato dalla civiltà dei
consumi, e dal relativismo etico, “secolarizzato” al punto da ritenere
del tutto superflua ogni indagine metafisica che si fa carico della
ricerca di Dio, può dare ancora risposte valide.
Quello di Dante è un libro di testimonianza dell’uomo che si realizza
come totalità, quando riesce a superare la sua ambivalenza morale e
s’impegna senza riserve, con passione e ragione, a collaborare alla
realizzazione della città terrena, polarizzando intorno al binomio
della vigilanza e della sobrietà il carattere escatologico dell’etica
neotestamentaria. Che è, nella sostanza, l’etica che guida Dante nel
suo itinerarium ad hominem , anzi in homine, prima che ad Deum; etica
dialogica allocutiva e didascalica insieme; parola severa e
profetica che richiama al senso della rettitudine, del dovere e della
responsabilità personali : Ch’io solva il mio dovere anzi ch’i’mova (
Purg X v .92); che invita a resistere alle tentazioni, a rafforzare la
volontà sull’istinto, a condannare ogni forma di corruzione, e a
sospettare dei cattivi maestri che danno cattivi esempi.
Procediamo per “assaggi”
1) Necessità di una guida
“Galeotto fu il libro e chi lo
scrisse”.
Paolo e Francesca ovvero: “I peccatori carnali, / che la ragion
sommettono al talento”
[…]
Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancillotto come amor lo strinse;
soli eravamo e senza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il desiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
(Inf.V,vv.127-136)
Il Livre de Lancelot e di “come amor lo strinse” è infido se la sua
lettura può far perdere, senza alcun sospetto, il lume della ragione a
Paolo e Francesca, e scatenare nei loro cuori la rovinosa bufera della
passione, del desiderio insaziabile della bella persona e trasformare
in un attimo il diletto in tragedia.
“Solo un punto”, un attimo di distrazione e la latitanza della ragione
lascia il campo allo scatenarsi infernale della bufera dei sensi. Dal
bacio “letto” al bacio “vissuto”: e il periplo dell’universo erotico
dei “due cognati” termina in naufragio: “quel giorno più non vi
leggemmo avante”.
“Però ti prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui riduci
ogni buono operare e il suo contraro”. (Purg. XVIII, vv.13-15)
La Lussuria è la sconfitta della ragione che si sottomette al talento e
che fa “libito” “licito in sua legge”; come tale, essa è un
peccato non tanto (o non solo) di ordine religioso ma morale.
Ma oggi i giovani probabilmente non sono più in grado di condannare
Paolo e Francesca per il loro doloroso affetto. Fino a che punto è
sbagliato non cedere alle passioni se per passione si intende il
coraggio di affrontare il rischio pur di realizzare i propri desideri?
Adesso i giovani non hanno gli strumenti per non cadere e non farsi
trascinare dal vortice irruento dei sentimenti.
Lo stesso atteggiamento di Dante è ambivalente nei confronti della
coppia. Se da un lato evidentemente li condanna all’Inferno, dall’altro
non può non comprenderli.
La «pietà» di Dante-come scrive il Caretti- “nasce non soltanto
come conseguenza dell’orrore suscitato dal racconto della morte
violenta, ma anche, e soprattutto, dal confronto tra la suggestione
delle felici ore dell’amore, tra l’attrattiva di quegli attimi così
dolci e dimentichi, e la necessità presente e viva della pena eterna,
dell’inesorabile legge che da ogni parte preme e non concede respiro e
strazia nel profondo, sino al grido e alla bestemmia” (L. Caretti, da
“Dante nella critica”, Tommaso Di Salvo, La Nuova Italia, Firenze 1965)
“e caddi come corpo morto cade” (Inf. V, v.142)
Qual è il giudizio di Dante? “A me sembra che proprio da questo
rapporto [rapporto tra amore e pietà], in Dante ancora irrisolto (una
penosa dissociazione!), tra il persistente ricordo delle lusinghe
terrene del facile arrendersi dell’uomo ad esse, e la raggiunta
consapevolezza della natura peccaminosa di quelle inclinazioni e quindi
della inevitabilità del loro castigo, nasca quel complesso e
irresistibile sentimento di universale pietà (non per Francesca e Paolo
soltanto, dunque, ma per tutti i peccatori d’amore; e per se stesso,
ancora, e per la difficile e precaria condizione umana) che domina il
canto da cima a fondo.” (L. Caretti, op. cit.)
Paolo e Francesca sono stati condannati perché si sono amati? Da quel
Dio che è amore e misericordia? E sono stati condannati perché il loro
è amore carnale? È per questo che Dante non riesce a biasimarli
completamente? Se fosse stato un altro amore, ma sempre tra Paolo e
Francesca, un amore platonico per esempio, ma sempre fuori dal
matrimonio, lo avrebbe ugualmente condannato?
Forse si. E allora perché sceglie proprio l’amore fisico? Per parlare a
noi?
“Un amore, dunque, tanto più spontaneo quanto riflessivo; insito, sì,
nella nostra fragile natura, nelle nostre istintive inclinazioni, ma
non per questo legittimo o, tantomeno, sublimabile; strettamente
connesso alla nostra condizione di esseri liberi e responsabili (verso
il bene e verso il male).” (L. Caretti, op. cit.)
Non potrebbe essere che noi ci sentiamo troppo liberi? E sentendoci
troppo liberi siamo poco responsabili?
Nel sentire collettivo, parecchi dei vizi capitali non sono più
considerati manifestazione del male e di un’inclinazione dell’uomo a
perdersi per sempre, né sono vissuti come frutto della subordinazione
dell’istinto alla ragione. In alcuni di essi si riconoscono forme di
malessere esistenziale : l’accidia (tepidezza nel seguire il bene) è
diventata depressione; gli eccessi di gola (ricerca smoderata di cibo)
forme di relazione patologica nei confronti del cibo, come nel caso
della bulimia o della anoressia; l’ira (incapacità di
autocontrollo) viene considerata, nei suoi eccessi, una forma di
disagio psichico. La lussuria (vizio legato alla sessualità sganciata
dai suoi fini strettamente procreativi) non è più affatto considerata
dalla morale comune come un peccato,quanto piuttosto come una libera
disposizione alla sessualità.
“Nel pensiero scolastico, e in particolare, in san Tommaso d’Aquino, il
peccato ha un’origine razionale: poiché ogni creatura cerca
naturalmente quello che crede il proprio bene, il vizio coincide in
un’errata identificazione di quel bene. In questo modo, il peccato può
essere corretto dalla ragione, e per questo viene giustamente
punito “ (D.C. a cura di Donnarumma - Savettieri pag.104)
Proviamo a “secolarizzare” il messaggio di Dante. Esso ci richiama
al dovere della vigilanza: “Non ciascun segno è buono”.
L’uomo, che da ogni altro essere vivente si distingue proprio in quanto
fornito d’intelletto e volontà, non può farsi schiavo delle passioni,
degli istinti al punto tale da perdere la propria identità; ha il
dovere morale di vigilare, di stare in guardia dai libri “galeotti” e
dai loro insegnamenti, di dominare istinti e passioni che allontanino
dal perseguimento del vero bene, dai doveri della vita quotidiana . Il
“laico” Dante (M. Barbi) può stare ancora tra noi a ricordarci che
bisogna: 1) controllare l’etica dei sentimenti; 2) vigilare e non
fidarsi dei “ciechi che si fanno duci”(Purg. XVIII,v.18); 3) sospettare
delle mode che esaltano il linguaggio del desiderio, della sessualità
di tipo narcisistico e dell’avventura fine a se stessa; 4) diffidare di
una letteratura e di una comunicazione di massa che tendono
all’omologazione dell’intimo e che alimentano ogni giorno
nell’immaginario collettivo il culto della “bella persona”, del
corpo come strumento di piacere, del “Tabernacolo” dove si adorano gli
idoli “falsi e bugiardi” destinati a spegnersi lasciando il gusto amaro
della sconfitta e dell’inganno. Vigilare e sospettare che “non ciascun
segno è buono”, e ricordare che bisogna usare le “agute luci de lo
intelletto” se non si vuole scambiare la realtà con la sua
immaginazione,la vita vera con la finzione televisiva o
cinematografica o letteraria.
Guardare alla finzione letteraria e cinematografica significa rifarsi a
storie inventate. Così come guardare a personaggi televisivi, che sono
semplicemente “caratteri fittizi”, è rifugiarsi in vite già vissute.
Sono modelli sbagliati, in quanto forniscono, nella maggior parte dei
casi, una visione distorta della realtà. Ma se sono sbagliati, perché
noi giovani li prendiamo come modelli da imitare, su cui plasmare la
nostra vita? E soprattutto, perché, se sono così fuorvianti, i giovani
scelgono di omologarsi ad essi e in essi trovare rifugio? E’ il mondo
esterno che non soddisfa. E’ la realtà che ci circonda che ci porta a
sostituire una vita che concretamente potremmo vivere, e forse non
vogliamo, con una effimera imitazione di essa.
E’ necessario distinguere la vita dal suo pallido riflesso, fornitoci
dai media:
Or ti puote apparer quant’è nascosa
la veritate a la gente ch’avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera.” (Purg. XVIII, vv.34-39)
Certa informazione di massa, come certa letteratura amena d’amore e
d’avventura,, perfettamente adeguata, oggi più che mai, all’ideologia
del consumo, della fruibilità a tutti i costi, può essere fonte di
disorientamento morale, principale complice dello scacco della
riflessione e della coscienza critica.
È “la cultura dell’immagine dello shock, dell’esibizione, dell’eccesso,
che si affida tutta alla performatività nel presente, all’effetto
immediato, ad un riciclaggio senza fine che tende ad allontanare gli
individui e i gruppi sociali da ogni coscienza del loro essere nel
mondo.” (G.Ferroni, La storia letteraria nel tempo del postmoderno, in
“Allegoria”, n.13, 1993, pag.85).
“L’anima di ciascuno non fa che riprodurre la rappresentazione del
mondo che i media forniscono in ugual modo a tutti, per cui non solo
l’anima diventa coestensiva al mondo, senza più alcuna separazione tra
interiorità ed esteriorità, ma il contenuto della vita psichica di
ciascuno finisce con coincidere con la comune rappresentazione del
mondo. Non più l’anima e la sua avventura nel mondo, ma l’anima che,
senza più alcuna distanza, coincide immediatamente con il mondo, o
perlomeno con ciò che i media le destinano come «mondo».” (U.
Galimberti, Psiche e Techne – L’uomo nell’età della tecnica, G.
Feltrinelli Editore, Milano, marzo 1999)
“I giovani, soffrono atrocemente l’assenza di un Modello: essi non
sanno a chi assomigliare, cioè, appunto, che Modello realizzare […] un
Modello che dia certezza nei valori eterni dell’esistenza […]non c’è. I
loro occhi sono senza luce, o pieni di una luce esaltata, oppure ancora
di una luce puramente fisica, dissennata, come quella di certi animali
che girano e rigirano come impazziti perché conservano ancora l’avidità
pur avendone perse le ragioni. Questo pallore della pelle e questa
disperazione o apatia sono chiari sintomi di una malattia che ha il
generico nome di Nevrosi.” Così Pasolini . (Petrolio,
Appunto 71g, pag.362. Ed. Oscar Mondadori)
“Ed ogni sera sopra lo schermo vedevo eroi della mia età
E io di certo ero diverso ma ci credevo in una vita come al cinema
Ma qui non è così, non c’è il lieto fine e poi il buono perde.
[…]
La vita non è un film
Ho il dubbio che la mia generazione muova una rivoluzione immaginaria
doveva essere un tramonto
e il bene in trionfo alla fine della storia.
Ma qui non è così
L’immagine è un po’ scura e il domani fa un po’ più paura.”
(Articolo 31, “La vita non è un film”)
.
Come uscire da questo annichilimento d’obnubilamento di carattere etico
e morale?
Come ridare una” prospettiva” ai giovani di oggi?
Anche la scuola, purtroppo, che dovrebbe essere il primo luogo a cui
guardare come modello (professori ecc.) è portata a giudicare i
suoi studenti per il solo profitto e dimentica, spesso, quelle
dimensioni che costellano la crescita giovanile: la creatività, le
emozioni, i desideri, i piaceri, i dolori, risolvendo l’identità dei
giovani “nell’efficacia della loro prestazione”. “Espulsa dalla scuola
l’educazione emotiva, l’emozione vaga senza contenuti a cui applicarsi,
ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre
accompagnano ciò che non può esprimersi, e tentazioni d’abbandono in
quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell’alcool e della
droga sono solo esempi neppure troppo estremi.” (U. Galimberti,
L’ospite inquietante – Il nichilismo e i giovani, G. Feltrinelli
Editore, Milano, ottobre 2007)
Quindi ancora una volta si tratta di un vuoto che va colmato, di una
guida che non c’è, di un “disorientamento”, di una richiesta di senso
che va soddisfatta e alla quale la scuola è chiamata a rispondere.
Io mi rivolsi […]
per vedere in Beatrice il mio dovere (Par.XVIII,v.52-53)
Occorre una guida la cui ragione sia “ assai chiara”(
Inf.,XI,v.67) e la cui volontà forte e decisa sia mossa dall’amore di
fare il bene: “Benigna volontade in che si liqua/ sempre l’amor che
drittamente spira,” ( Par. XV,vv.1-2) Certo, si suppone che fra
discepolo e maestro, tra guida e guidato, ci sia un terreno di
reciproca fiducia e di stima tale da fare di due una sola persona ( “
la sua mano a la mia pose” (Inf. III ,v.10); ci sia un rapporto come
tra padre e figlio: “O dolce padre[…] (Purg. XXIII, v. 13).
Ma i figli, oggi, accettano i consigli dei padri? I
discepoli quelli dei maestri? Il divario generazionale basta a
garantire l’autorevolezza di chi ha più esperienza e sapere? La
risposta può essere positiva solo se i consigli dei padri-
maestri hanno l’autorità di indicare la strada, di offrire
ai giovani esempi tali da regolarne il comportamento e le scelte
valoriali di vita .Solo se i maestri non siano dei cattivi maestri.
Solo se i punti di forza reali su cui esercitare la
funzione educativa siano chiaramente identificabili nella guida:
equilibrio e sicurezza nel giudizio, capacità critica di dialogo,
disponibilità della parola, onestà intellettuale e morale.
2) La questione morale:
Diligite iustitiam (Par.XVIII,v.91
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco .( Purg.VI,vv.130-131).
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogni vertute,[…]
e di malizia gravido e coverto (Purg.XVI,vv.58-60).
Però, se il mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si chieggia ( ibidem ,vv.82-83)
[…]
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?(ibidem,v.97)
“…avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore,onde operar perdési,(Purg.XIX,vv.121-122)
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiero in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello! (Purg.VI,vv.76-78)
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia ,invidia e avarizia sono
le tre faville ch’hanno i cuori accesi (Inf.VI,73-75)
Dove la società è dominata sempre più dai Capaneo presuntuosi e
arroganti, dai Vanni Fucci ladri blasfemi e violenti e bestie: “Vita
bestial mi piacque e non umana / sì come a mul ch’io fui […]” (Inf.
XXIV, vv.124-125); dove trionfa un esasperato individualismo per cui
ciascuno si fa gli affari suoi nel più completo disimpegno nei
confronti dell’interesse generale;dove ciascuno si cura di star
bene in proprio più che di fare del bene per vivere tutti un po’
meglio; dove la politica è sganciata dall’etica, e “un Marcel diventa /
ogni villan che parteggiando viene” (Purg. VI, vv.125-126); dove
nessuno rispetta la legge e manca la certezza del diritto; dove la
priorità dello scopo di lucro fa perdere di vista la priorità dei
valori veri: il rispetto e la dignità dell’uomo in quanto persona; dove
l’avere e l’apparire contano più dell’essere, e manca il senso del
pudore e della sobrietà, non può allignare nessun segno di giustizia né
di amore solidale.
Con la corruzione dei costumi, si è avuta una ritrazione dell’etica al
campo della coscienza, una limitazione di essa alla sfera
dell’individualità che ha fatto sì che l’uomo si chiudesse nella sua
dimensione interiore, concependo la politica come “un’istituzione
utilitaristica che serve solo a salvaguardare questa libertà” (U.
Galimberti, Psiche e Techne – L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli Editore, Milano, marzo 1999)
L’avidità del denaro è all’origine delle logiche di sfruttamento su cui
si regge buona parte dell’economia mondiale, e di numerose aberrazioni
del comportamento degli individui all’interno degli organismi sociali.
Qual è lo scopo della nostra società? “Il relativismo etico ha
incrinato l’oggettività del bene, ha dissolto la fissità dei valori che
oggi al pari di ogni merce sono passibili di transazione, di scambio.
In questo quadro è venuto meno anche il valore della politica o meglio
la politica come valore” (S. Natoli, Stare al mondo – Escursioni nel
tempo presente, Feltrinelli Editore, Milano 2002). La nostra classe
politica sembra assetata di potere e di protagonismo; molti trafficano
per ottenere prebende e poltrone , “sobbarcandosi” agli impegni
richiesti dalla cosa pubblica, solo allo scopo di perseguire i propri
interessi .
“Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
Per non venir sanza consiglio a l’arco;
[…]
Molti rifiutano lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «io mi sobbarco!». (Purg. VI, vv. 130-131;
133-135).
“un Marcel diventa / ogni villan che parteggiando viene”
“O insensata cura de’ mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!” (Par.XI,vv. 1-3)
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contagiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non facea, nascendo,ancor paura
la figlia al padre, che il tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famigli vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che in camera si puote.
[…]
(Par.XV,vv.97-108)
È il rammarico di Dante, ma, ancora oggi, anche il
nostro!
3) Il dovere dell’intellettuale
[…]
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico. (Par .XVII ,vv.118-119)
L’esercizio della conoscenza è il primo dovere di un intellettuale. Il
suo compito non è semplicemente quello di esprimere opinioni in materia
di morale o ideologia, ma è qualcosa che finisce per scontrarsi con il
potere, le sue bugie e le sue forme di coercizione. La parola
dell’intellettuale trae la sua forza dall’analisi lucida della realtà:
proprio perché ha il coraggio della verità, essa risulta scomoda e
“indigesta”. L’ipocrisia si connota come un peccato morale
Virgilio invita il suo discepolo ad abbandonare ogni dubbio e paura a
respingere dal suo animo ogni esitazione che equivale a pusillanimità.
Il viaggio impegna il poeta non solo sul piano del coraggio che è
necessario in presenza di decisioni da prendere, ma anche sul piano
intellettuale. D’altra parte tutta la vita implica in ogni momento
risolutezza e discriminazione. Però, in effetti, è ciò che manca nella
società di oggi in cui lo scandalo è divenuto ormai routine e la
rassegnazione e la passività sembrano dominare su ogni fronte.
Prima, l’ardito compito di contestazione e denuncia era affidato
all’intellettuale. Adesso non c’è più nessuno che abbia il coraggio di
esporsi.
“Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini
ch rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello
che camminava diritto in un paese di zoppi.” (Leopardi, Operette
morali, Dialogo di Tristano e un amico, 1832)
Non c’è più il coraggio di affrontare la realtà, perché l’alleanza
potere - cultura fa sì che si navighi nell’ignoranza: è più facile
governare una massa che non abbia la capacità di giudicare
consapevolmente e criticamente ciò che avviene intorno a lei. Proprio
questo binomio potere – cultura (in cui è il potere a prevalere e
controllare l’altra) fa sì che l’unico atteggiamento predominante sia
la “viltade” che corrompe e inibisce l’uomo; ma non Dante.
Questo è il magistero di Dante che tutti possono recepire dalle
fermissime parole di Cacciaguida: far sentire la propria “parola
brusca” ad ogni “coscienza fusca / o della propria o dell’altrui
vergogna”; dire sempre la verità e lasciar “pure grattar dov’è la
rogna”; percuotere con il proprio “grido” anche “le più alte cime”,
perché la verità, anche se “molesta nel primo gusto” finisce col
lasciare un “vital nutrimento”. (Par, XVII, vv.112-135, passim)
Non è difficile vedere tutta la sua esperienza umana e artistica, al di
là dai particolari limiti storici e ideologici entro i quali si è
svolta, come un percorso verso la verità, come il tentativo di uscire
dalla frammentarietà dalla insufficienza, in una parola dalla
finitudine della esistenza umana, per attingere nella sua interezza il
senso della dignità, che si esplica fondamentalmente nella mediazione
tra passione e ragione. (G. Genco, N. S. n.4 1995)
Numerosi sono stati in passato gli intellettuali che, come Dante, hanno
saputo ricoprire il suolo di guida morale non solo per i loro
contemporanei ma ancora oggi. Dalle loro pagine traspare la convinzione
delle loro idee ed emerge il coraggio e l’impegno che fondano le basi
su una cultura enciclopedica. La cultura al giorno d’oggi è stata
parcellizzata, il sapere è stato frazionato in vista di un rendiconto
personale.
Certo, l’uomo moderno non può dare più ascolto all’ideologia
provvidenzialistica del poeta medievale né alle sue convinzioni
ideologiche sul problema della salvezza. Egli è preso dalla euforia di
ben altra ideologia, tutta prammatica e materialistica, alimentata dai
miti di uno scientismo sempre più incurante delle implicazioni
morali delle sue scoperte, e di un produttivismo che miri
unicamente al soddisfacimento dell’utile e del “particolare”.
Quindi non esiste l’intellettuale, nell’originaria accezione del
termine. E oggi chi è l’intellettuale? Dove cercarlo? Tra coloro i
quali scrivono quei libri che oggi troviamo sui nostri comodini, o
spesso riempiono le pagine delle riviste; o piuttosto si dovrebbe
definire intellettuale colui che, non esponendosi apertamente, ha
coscienza del suo tempo?
Nuccio Palumbo
antoninopal@katamail.com