Una sera
sorprendo me stesso – una persona mite, una persona che ha studiato – a
tirare una ciabatta contro il televisore, mentre su La7 un deputato di
destra e un deputato di sinistra parlano di scuola. Ma non la tiro
mentre parla il deputato di destra. La tiro quando il deputato di
sinistra interrompe una signora chiaramente non-abbiente e non-colta
che si sta lamentando perché nella scuola media pubblica frequentata
dal figlio, in una cittadina qualsiasi della cintura milanese, gli
immigrati rallentano le lezioni perché non parlano italiano, o perché
non studiano, o perché fanno casino. E dopo averla interrotta, il
deputato di sinistra le grida “Razzista! Questo è razzismo! Lei è
razzista!”. Parte la giusta indignazione della donna: “No, io non sono
razzista! Dov’è che devo mandarlo mio figlio, eh? Me lo dice?”. Parte
la giusta risata del deputato di destra: “Ma guarda che così finiscono
per votarvi soltanto nei salotti, eh!”. Parte la ciabatta. Io ho
cominciato ad andare a scuola nella seconda metà degli anni Settanta,
dieci anni dopo la pubblicazione della Lettera a una professoressa di
don Milani (1967). Allora era quello il libro-chiave sul tema ‘Scuola e
Uguaglianza’. Non che la mia scuola fosse una contro-scuola, e non che
qualcuno mi abbia mai parlato, in quegli anni, di don Milani. Ma
l’atmosfera, in giro, era quella (meglio di tutti la rende l’inizio di
un pezzo degli Offlaga Disco Pax: “Ho fatto l’esame di seconda
elementare nel 1975. / Il socialismo era come l’universo: in
espansione. / La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre. / Le
risposi che i giacobini avevano ragione e che / Terrore o no, la
Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta. / La maestra non
ritenne di farmi altre domande”). La nuova scuola democratica doveva
smetterla di essere un ospedale che cura i sani e manda via i malati;
doveva integrare, non segregare; doveva essere una scuola di uguali,
indipendentemente dalla cultura e dal reddito delle famiglie; e dunque,
tra l’altro, non doveva bocciare. S’intende (o meglio, non s’intende,
perché questa precisazione non è stata ben intesa, dopo): negli anni
dell’obbligo. Perché tra chi continuava oltre l’obbligo era normale che
ci fossero i promossi e i bocciati. Oggi vedo che un po’ tutti, sia a
destra sia a sinistra (ma più a destra, si capisce), incolpano la
Lettera a una professoressa di contenere, in nuce, tutti i disastri
para-educativi che sono venuti dopo, ma la verità è che il lassismo di
una parte della scuola e dell’università degli ultimi decenni c’entra
ben poco con quello che diceva don Milani; e che quello che diceva don
Milani è spesso diverso dalla vulgata che si sente ripetere in giro
(per esempio: a don Milani non piaceva la lingua inutilmente difficile
della burocrazia; e neppure, per la verità, la lingua giustamente
difficile della Tradizione; ma ai suoi studenti cercava d’insegnare
anche un po’ di latino, e studiava l’ebraico). Erano solo buoni
sentimenti, si dice. Già, ma questa continua ironia sui buoni
sentimenti (se pure ha una parte di ragione) è molto allarmante.
Il libro-chiave sul tema ‘Scuola e Uguaglianza’ di questi anni è,
invece, Il ruggito della madre tigre di Amy Chua. Amy Chua è americana
ma i suoi genitori erano cinesi, e secondo il metodo cinese l’hanno
educata. Dato che questo metodo ha avuto – sostiene Amy – ottimi
effetti su di lei, le è parso giusto adoperarlo a sua volta
nell’educazione delle due figlie (co-educate da un marito ebreo che
però s’indovina costretto, nel corso del Processo Educativo, nella
posizione un po’ defilata del due di picche). Il Metodo Chua viene così
riassunto nella prima pagina del libro: “Alle mie figlie Sophia e
Louisa non è mai stato permesso di: (1) andare a dormire dalle amiche;
(2) andare a giocare dalle amiche; (3) partecipare a una recita
scolastica; (4) guardare la televisione o giocare con i videogiochi;
(5) prendere una voto inferiore a 10; (6) non essere la migliore in
ogni materia”.
Anche se è duro da credere, il resto è peggio: duecentoquaranta pagine
di esercitazioni al pianoforte e al violino, di lezioni private, di
compiti facoltativi svolti mentre i compagni di scuola limonano alle
feste, di trionfi scolastici, di violenze fisiche (“Ora stai fuori
dalla porta finché non ti deciderai a esercitarti al piano” – e fuori
nevica) e psicologiche (“Ti brucio i peluche”). Amy Chua non è
nemmeno sfiorata dall’idea che la scuola possa non essere una
competizione continua, una battaglia tra le sue figlie e il Resto del
Mondo nella quale il Resto del Mondo non ha chances. Accade che la
piccola Sophia arrivi seconda «al test di velocità nelle
moltiplicazioni», dietro al compagno coreano Yoon-seok. Brava! direbbe
una mamma occidentale. La reazione di Amy Chua è un po’ diversa: «Ogni
sera della settimana successiva le assegnai venti test di prova,
cronometrandola ogni volta. Da allora a scuola arrivò sempre prima.
Povero Yoon-seok. A un certo punto tornò in Corea con la famiglia, ma
non credo sia stato per il test» (ogni tanto – per esempio quando
applica questi stessi princìpi educativi al samoiedo Coco, che ha la
sventura di finire in casa sua – ci si domanda se Amy Chua non stia
scherzando. Se è così, è una dei grandi umoristi del nostro tempo. Ma
non è così).
Mezzo secolo dopo don Milani, che cosa pensa dunque Amy Chua
dell’uguaglianza a scuola? Più o meno quello che ne pensava Nietzsche
(esiste anche un’interessante Sinistra Nicciana, e volentieri le dedico
questa citazione): “Educazione superiore e numero enorme – sono cose
che si contraddicono sin dal principio. Ogni educazione superiore non
appartiene che all’eccezione; si deve essere privilegiati per aver
diritto a un così alto privilegio. Tutte le cose grandi, tutte le cose
belle non potranno mai essere un bene comune: pulchrum est paucorum
hominum. Che cosa determina la decadenza della cultura tedesca? Il
fatto che l’educazione superiore non è più un privilegio – il
democraticismo della ‘cultura generale’, della cultura diventata
comune” (Crepuscolo degli idoli, Milano, Rizzoli 1998, p. 95).
Decisamente, mezzo secolo non è trascorso invano. E, come tante altre
idee di Nietzsche, anche questa è, oggi, sentimento diffuso, cognizione
diffusa tra le masse che Nietzsche aborriva.
Ciò detto, e passando dai Libri alla Vita, e alla vita odierna: a chi
può stare a cuore l’uguaglianza, la parità, dentro la scuola?
Certamente non alle famiglie degli studenti più abbienti (ed è chiaro
che si è sempre più abbienti di qualcun altro, e di underdogs da
lasciare indietro – tra immigrati, zingari e bambini o ragazzi
semplicemente un po’ lenti – ce ne saranno sempre di più in futuro).
Uno può essere così longanime da non volere, per sé, vantaggi rispetto
agli altri, da voler partire da un piano di parità in ufficio o su un
campo da tennis, ma quando si tratta dei figli le cose vanno
diversamente, e ci vuole una volontà di ferro, e una fede democratica
davvero fuori del comune, per non far valere il proprio censo o le
proprie conoscenze allo scopo di dare ai propri figli l’istruzione “che
non ho avuto io”. Quello che le famiglie vogliono è che nella prossima
divisione tra vittime e carnefici i loro figli non stiano dalla parte
delle vittime. A dire la verità non vogliono neppure che stiano dalla
parte dei carnefici: l’autentico, il consapevole cinismo è merce rara.
Vogliono che possano permettersi di guardare le cose dall’alto; e,
molto concretamente, vogliono evitare che i loro figli finiscano in
scuole fatiscenti, con insegnanti sottopagati e demotivati, in mezzo
agli immigrati, agli zingari, ai disabili. Segue elenco delle opzioni:
la Scuola Americana, la Scuola Francese, la Scuola Tedesca, la Scuola
Internazionale, la Scuola Steineriana, i Gesuiti, la Svizzera, gli
Stati Uniti…
Ma l’uguaglianza non piace neppure a molti ragazzi, che non avendo né
cultura né esperienza di vita sono spesso più spietati dei loro
genitori. Mi spiega un’amica che lavora in una Scuola di Avviamento al
Lavoro, dove le classi sono composte per metà di albanesi, romeni,
maghrebini: “Se questi ragazzi non sono nati in Italia l’integrazione è
possibile, perché ‘stanno al loro posto’, ‘non alzano la cresta’. Se
invece sono nati qui vorrebbero, giustamente, essere come i loro
compagni italiani, e invece non lo sono per questioni di reddito, di
identità, di padronanza della lingua. Così si creano i gruppi, le
fazioni contrapposte: albanesi contro italiani, romeni contro italiani.
E io passo le ore a rispondere a domande come ‘E perché i miei devono
pagare la scuola a questi, che non sono neanche italiani?’”.
Infine, è ingenuo credere che i tutori dell’uguaglianza, che i
difensori dell’uguaglianza possano essere ancora – mentre si è fatta
ormai quasi inudibile la voce di don Milani – gli insegnanti, perché
chiunque insegni in una scuola che non sia il Liceo Ginnasio D’Azeglio
o il Liceo Ginnasio Parini o il Liceo Ginnasio Mamiani è,
legittimamente, un po’ provato, e dello spirito egualitario constata
soprattutto gli effetti nefasti, i malintesi: la crisi dell’autorità, i
genitori impiccioni, gli studenti che si tagliano le vene se prendono
quattro, le bocciature che generano querele da parte dei genitori (onde
la fobia del ‘registro in ordine’, dell’ispezione, eccetera). E perché
allo sciocco idealismo di massa di un tempo mi pare si sia diffuso un
pessimismo di massa, un cinismo di massa che è, alla fine, altrettanto
sciocco e ancora più pericoloso.
Resta lo Stato, questa astrazione. O quell’altra astrazione ancora più
astratta, la Società. A molti viene l’orticaria anche solo a sentir
parlare di ‘Scuola e Uguaglianza’: perché non è ovvio, non lo sappiamo
tutti che gli esseri umani non sono uguali? Si tratta di solito di
persone così privilegiate e così stupide da non riuscire neppure ad
accorgersi dei propri privilegi. Ad Amy Chua, in tutto il suo
agghiacciante libro, non viene mai in mente che il suo modello
educativo ‘funziona’ (se di funzionamento si può parlare) non perché
riesce a calare il rigore dell’educazione cinese nella Terra delle
Opportunità che è l’America, ma perché Amy Chua – Ivy Leaguer sposata
con un Ivy Leaguer – dispone del capitale economico e culturale per
fare delle sue figlie le perfette, predestinate matricole di Harvard
(nonché, sperabilmente, delle nevrotiche borderline dopo i trent’anni):
le lezioni di violino costano.
Lo Stato ha il dovere di intervenire, di correggere queste
diseguaglianze. Ma dato che farsi capire da persone privilegiate e
distratte come Amy Chua è difficile, una strategia alternativa potrebbe
essere quella di accompagnare i cinici che credono seriamente di
‘avercela fatta da soli’ nelle periferie di Londra o di Chicago (o di
Napoli, se è per questo), là dove l’istruzione primaria è diventata il
mezzo più efficace per ratificare le distinzioni di classe prima ancora
che la vita cominci. E insomma, se non per buon cuore e per senso di
giustizia, i privilegiati dovrebbero cercare di condividere i loro
privilegi spinti dall’interesse personale, dall’egoismo. Il fatto che
lo Stato non riesca a garantire a tutti l’accesso all’istruzione
significa, immediatamente, degrado, povertà, violenza, e un conflitto
sociale che finisce per riguardare anche Amy Chua e i suoi pari.
Ciò considerato – e tornando al lancio della pantofola –, che cosa
dovrebbe pensare, che cosa dovrebbe fare una persona di sinistra
sensibile al problema dell’uguaglianza delle opportunità? Forse si
potrebbe cominciare dicendo ai cittadini che i problemi dell’istruzione
sono immani e che hanno poco a che fare con la buona o cattiva volontà
di governi chiaramente inadeguati come il governo Berlusconi. E si
potrebbe provare a rinunciare alla lista dei tabù. La paura della madre
non-abbiente e non-colta della cintura milanese, paura che il proprio
figlio ‘resti indietro’, è una paura ragionevole, e non è razzismo.
Proprio perché hanno questa paura, del resto, tutti gli abbienti e i
colti, anche di sinistra, evitano accuratamente di mandare i loro figli
nelle scuole professionali della cintura milanese. A me pare evidente
che migliaia, forse milioni di voti li abbiamo perduti per ipocrisie di
questo tipo. Se un ragazzino che viene dal Maghreb o dall’Ucraina non
parla e non capisce l’italiano, non è detto che la scelta migliore, per
lui e per i suoi compagni, sia quella di catapultarlo ‘tra i suoi nuovi
amici italiani’. A volte sarà questa la strada giusta, a volte no.
Perciò, ipotesi come quella delle classi-ponte possono, perlomeno,
essere discusse, specie laddove mancano i fondi per gli insegnanti di
sostegno (la replica “i fondi ci devono essere” non fa progredire la
discussione di un solo passo). La sinistra ha competenze e cultura
politica tali da poter dare risposte sensate alle sensate angosce delle
persone comuni: e tali anche da poter dimostrare inadeguate e
controproducenti le risposte della Lega.
E insieme ai tabù potremmo anche provare a smetterla con la retorica.
Gli esseri umani non sono tutti fratelli. Alcuni di loro diventano
fratelli alla fine di un lungo processo di civilizzazione che passa
anche attraverso la scuola. Per questo la scuola oggi è così
importante: perché tra i suoi vari compiti ha anche quello, capitale e
massacrante, dell’integrazione degli immigrati e dei figli degli
immigrati. Purtroppo è un tema meno sexy della normativa sul digitale
terrestre o sul trattamento delle staminali. Ed è anche un problema
meno visibile. Ma il modo in cui lo affronteremo deciderà più di ogni
altra cosa della qualità della vita italiana nei prossimi decenni. Che
fare in concreto? (1) Formare degli insegnanti eccellenti; (2) Pagarli
decentemente. La prima cosa – anche se molti possono pensare il
contrario – è più importante della seconda, e viene prima.
(di Claudio Giunta da Pd)
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