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Umanistiche: Lettera di una maestra che va in pensione

Redazione
“… e un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto … “ basta “sfogliare” Fabrizio de Andrè per trovare le parole per dirlo.
Per 40 anni ho fatto la maestra. Un mestiere sottopagato, che ha sempre meno riconoscimento sociale ma che rimane il mestiere più bello del mondo. Ora è tempo di andare in pensione.
Se ripercorro, come in un film, la storia di questi lunghi anni non mi vengono certo in mente le circolari, il POF, le griglie di valutazione, l’Invalsi, i registri ( quelli li ho sempre compilati , e malvolentieri, appena prima della scadenza).
Rivedo invece le facce – quelle sì le ricordo bene – le facce, gli occhi, le voci, le storie dei tanti e tanti bambini – ora diventati più che adulti - con cui ho condiviso emozioni, scoperte, la fatica e la ricerca di un percorso per imparare e per diventare grandi. Una maestra i suoi scolari se li ricorda per la vita.                  
  E vedo le facce delle tante maestre, diventate care amiche, insieme a me impegnate nella difficile ed affascinante impresa di costruire una scuola “ di tutti e di ciascuno” come diceva Don Milani, una scuola di “scienza e di tenerezza”…

Tanti, ma tanti i ricordi. Avevo 19 anni quando ho cominciato, in Friuli, mia terra d’origine. Era il 1971: il posto di lavoro garantito era la normalità in quegli anni. Un altro secolo, un altro millennio.

La scuola era la scuola dell’obbedienza, della maestra unica- tuttologa, chiusa nella sua classe, degli armadi chiusi a chiave che le supplenti non avevano il diritto di aprire, dei grembiulini neri d’ordinanza…

Era la scuola selettiva, la scuola dei voti, dei ripetenti, quelli alti alti confinati negli ultimi banchi, quelli che neanche alle elementari ce la facevano a stare al passo.

La mia era la generazione cresciuta con “ la rivolta tra le dita” , con la voglia e l’impegno di cambiare la scuola e di cambiare il mondo.

Vivevamo, come ha scritto recentemente Goffredo Fofi su Repubblica, “una stagione irripetibile della pedagogia italiana quando educazione voleva dire conquista della democrazia, crescita di uomini nuovi e responsabili nei confronti della comunità, della collettività, del creato “.

Tanti i nostri Maestri ispiratori, quelli che davano idee e sostanza ai nostri progetti: Don Milani con la sua “Lettera a una professoressa” e l’attenzione agli ultimi, Mario Lodi, campione di didattica e di umanità, Guido Petter partigiano resistente che ci aveva guidato con le sue “Conversazioni psicologiche”, Gianni Rodari e la sua “Grammatica della fantasia” quando “La fantasia al potere” era uno degli slogan che più ci rappresentava, Gianni Cordone - mitico e mai dimenticato direttore didattico - che a Vigevano, sul finire degli anni Settanta, aveva già realizzato tutte quelle innovazioni che poi sarebbero diventate legge.

Leggevamo e discutevamo molto, con grande passione ed entusiasmo, senza guardare l’orologio e senza segnare le “ ore eccedenti” da recuperare. C’era una scuola nuova da costruire insieme.

Sono stati gli anni del diritto all’istruzione e alla cultura per tutti, degli handicappati che cominciavano ad essere inseriti nelle classi ( senza insegnanti di sostegno ma, in qualche modo, ce la cavavamo). Gli anni della furia iconoclasta ( dopo ce ne saremmo pentiti ) contro certi baluardi della vecchia scuola: le poesie da imparare a memoria, la grammatica … Gli anni delle aule e degli armadi che si aprivano. Gli anni del Tempo Pieno ( e poi del Modulo), delle maestre che si specializzavano in una materia e che lavoravano in team. Le cose da fare quotidianamente in classe si decidevano insieme. La programmazione era il risultato di studi approfonditi su contenuti e metodi, di confronti, di discussioni anche molto accese.

Una grande rivoluzione, sancita dalla legge dopo anni di sperimentazione, che ha cambiato in modo irreversibile il nostro modo di essere e di fare scuola, che ha lasciato in noi tutte un imprintig speciale.

Erano tempi in cui la cultura e la scuola contavano, erano importanti. Tempi in cui i genitori ci davano fiducia, credevano nel cambiamento e partecipavano a quella ventata di democrazia che sono stati gli Organi Collegiali.

Sono passati gli anni, i decenni. Tanto è cambiato nella società e, di riflesso, inesorabilmente, anche nella scuola. Scuola e cultura non godono più del prestigio di un tempo, non sono più ai primi posti della scala dei valori della società, degli studenti e delle famiglie.

Il grande movimento di idee, di conoscenze, di valori – non sostenuto da politiche adeguate - si è appannato. Ha perso in entusiasmo ed in passione, in lucidità e progettualità. Da troppi anni manca un pensiero collettivo sulla scuola. Mancano idee, valori etici di riferimento, riforme condivise. Mancano Maestri ispiratori. Manca una riflessione generale su temi fondanti del nostro “essere” e “fare” scuola: su “ sapere e saper fare “, su competenze e contenuti , su abilità e conoscenze , su “ imparare “ ed “imparare ad imparare “, su merito-selezione-integrazione, su rigore e qualità degli apprendimenti da coniugare con la scuola di massa.

Da anni la scuola ha mutuato un linguaggio aziendale. Bambini e famiglie sono diventati “clienti”. I direttori didattici sono stati trasformati - loro malgrado – in Dirigenti, con la didattica “evaporata” dal loro ruolo. E poi il tentativo di tornare alla maestra unica di morattiana memoria, il tutor, il Pecup, le Unità di Apprendimento , il monoennio, il Portfolio ( ne ho conservati alcuni esemplari: leggere per credere …) Quando, anni fa, ho sentito in un Collegio Docenti di Pavia (non il mio) parlare di “customers satisfaction” ho misurato la deriva verso cui stava precipitando la scuola.

Per arrivare all’oggi, al Ministro dell’Istruzione Gelmini che “riforma” la scuola a suon di tagli, senza nemmeno ascoltare le tante voci di critica e di dissenso che si sono levate da insegnanti, Sindacati, genitori.

Una scuola appiattita sul presente – mi piange il cuore doverlo dire -. Una scuola che non vola alto, che non ha progettualità sul futuro.

L’oggi è fatto di una generazione di insegnanti precari, classi sempre più numerose e più complesse da gestire, bambini che fanno sempre più fatica a rispettare regole, accettare insuccessi, assumersi responsabilità. E ancora: le compresenze finite, l’inglese imparato d’ufficio dalle maestre con 50 ore di corso, gli Organi Collegiali diventati ritualità da rispettare per legge, la fiducia incrinata dei genitori, il ritorno ai voti, l’enfasi assoluta data ai test quasi che a scuola verificare sia più importante che insegnare ed educare…

Anche il “clima umano” è cambiato: più stress, più stanchezza, più malessere, meno felicità in circolazione oggi nelle scuole.

Poi entri a scuola al mattino. Ritrovi tante facce amiche. I bambini ti aspettano, ti raccontano le loro storie, ti si affidano . Riesci ancora a farli appassionare.

“ … e un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”.

Buona scuola a chi rimane,

Daniela Bonanni
 (spedita da L. Tassella)

Daniela Bonanni









Postato il Lunedì, 27 giugno 2011 ore 06:43:07 CEST di Pasquale Almirante
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