Si sente dire
spesso “abbiamo rubato il futuro ai giovani”. Probabilmente è vero, ma
non si tratta di occupazione e pensione! Mi chiedo se noi adulti,
abbarbicati alla nostra voglia di adolescenza, non depriviamo i giovani
delle memorie trasmesse nell’affetto e nella quotidianità, che
costituiscono la base indispensabile per la progettazione del futuro;
uno scippo, questo, estremamente più grave!
Gli adulti hanno abdicato al loro ruolo: il mito della perenne
giovinezza, il rifiuto del decadimento fisico, l’insoddisfazione per
ciò che si è conquistato, l’ossessione dell’avere e così via, hanno
spezzato il rapporto tra le generazioni.
In questa ottica l’inserimento ope legis della cultura siciliana
nell’azione formativa mi preoccupa. Si tratta dell’inserimento di un
ennesima “educazione”, in aggiunta a quelle proposte negli ultimi
vent’anni? Ma l’educazione non può che essere atto unitario, non è
frammentabile in mille rivoli, pena il suo fallimento, di cui abbiamo
infinite prove.
Certo oggi la scuola, dinanzi a troppi e troppo veloci cambiamenti, che
agiscono in modo determinante sui rapporti umani e sociali, deve uscire
dagli schemi consolidati di una cultura condivisa, quella del passato,
per individuare nuovi percorsi, che garantiscano ai giovani
l’acquisizione di strumenti utili per la decodificazione del mondo,
insieme sempre più piccolo e sempre più vasto.
La scuola, per definizione, è il luogo in cui gli adulti fanno crescere
i giovani, non per un rapporto emotivo - affettivo, ma per un fatto
istituzionale. Ma quale rapporto può stabilire con persone che non sono
attrezzate a parlare col diverso da sé, che sono ghettizzate in un
mondo di pari? Quale percorso attraverso la storia (anche su questo è
incentrata la scuola) possono seguire i ragazzi che non hanno più un
rapporto con ciò che era, ma vedono solo ciò che è? Dove sono i nonni
che raccontano se stessi e il loro mondo? A teatro, in crociera o…
all’ospizio. I genitori, occupati e preoccupati del loro presente,
impegnati, nella migliore delle ipotesi, ad accompagnare dappertutto i
loro figli (inglese, attività ginnica, discoteca e pizzeria), quale
tempo dedicano a costruire una struttura normativa chiara e coerente?
Quali gli spazi di riflessione, che consentano di trasformare la
tempesta di informazioni in acquisizioni reali? Tutto viene consumato
nello spazio di un mattino.
E allora?
La scuola dovrebbe fare azione di supplenza: i docenti dovrebbero
diventare adulti riconosciuti e aiutare i giovani a vivere
positivamente il rapporto con il diverso da sé, a fermarsi a pensare, a
riorganizzare il proprio sapere. E invece, nel migliore dei casi, il
docente cerca di usare i loro strumenti, di uniformarsi. Internet è
strumento prezioso, ma, mentre dieci anni fa aveva senso utilizzarlo a
scuola, oggi forse sarebbe opportuno spegnerlo per potenziare i momenti
di riflessione e di riorganizzazione nei nativi tecnologici.
E qui si inserisce anche la conoscenza della cultura siciliana, che
entra, con naturalezza e non per legge, nella ricostruzione del passato
di ciascuno di noi, per diventare strumento per la conoscenza del
diverso, del lontano nel tempo e nello spazio.
Quanti di noi, andando in un paese lontano, non ne hanno scoperto la
cultura più a tavola che in un museo? Ovvero, vivendo altrove, hanno
“letto” le proprie abitudini e i propri gesti con maggiore
consapevolezza? E allora chi fa scuola deve inventare, in senso
etimologico, tutte le opportunità, e sono tante, che consentano ai
giovani di comprendersi e comprendere; la cultura non si costruisce per
sommatoria!
Temo, invece, che, dopo aver prodotto la legge (forse la regione
siciliana ha già risolto tutti gli altri problemi!), qualcuno si
spingerà a individuare l’ambito in cui inserire lo studio della cultura
siciliana ovvero, dio ci scampi, a chiedere al collegio dei docenti di
nominare un referente! Ancora una volta, se questo accadrà, la scuola
affogherà nel localismo provinciale, mancherà l’obbiettivo e si
rifugerà nello “scolastichese” più bieco e nei rituali burocratici.
Bianca Boemi
biboemi@tin.it