Nelle seconde
classi degli istituti superiori italiani si sono svolte ieri, per la
prima volta, i discussi test standard di verifica degli apprendimenti
in lingua e matematica, predisposti dall'Invalsi, l'Istituto nazionale
per la valutazione del sistema di istruzione, cui hanno partecipato circa mezzo milione
di studenti: se da una parte il ministero dell'Istruzione ha
comunicato che "su un campione di
2.300 classi, solo 3 non hanno svolto il test Invalsi" e che "quindi la
percentuale di classi che non hanno eseguito il test è pari allo
0,13%", dall'altra le prove continuano ad essere oggetto di
contestazione, soprattutto da parte dei sindacati di base. Cobas
e Unicobas sostengono che le verifiche, volute dal ministero
dell'Istruzione per allineare il sistema di valutazione italiano a
quello internazionale, comportano una mole di lavoro per i docenti cui
non corrisponderà alcun compenso. Inoltre, sempre i sindacati di base,
intravedono nell'esito delle prove una sorta di prologo alla
valutazione dell'operato dei docenti che porterà premi solo ai più
meritevoli.
Secondo Piero Bernocchi, leader dei Cobas, i testi "saranno utilizzati
per classificare le scuole, i docenti, gli studenti, e per
differenziare le buste paga degli insegnanti" e che sono di questo
parere, quindi contrari alla loro attuazione, almeno "il 10-15% degli
insegnanti".
Sempre i Cobas hanno avviato una campagna "di indignazione" contro
quella che considerano "la truffa dei quiz Invalsi": secondo il
sindacato di base le protesta avrebbero "fatto sbandare vistosamente il
carrozzone Invalsi, il Miur e i tanti presidi-dirigenti che si
considerano oramai i proprietari delle scuole. Gli stessi 'valutatori'
Invalsi - prosegue la nota sindacale - hanno ammesso quale è - parole
loro - 'il vero intento del Miur: quello di avere uno strumento al
servizio dell'odiosa campagna contro i lavoratori della scuola
pubblica, un 'testificio' per fare la classifica dei docenti buoni e
cattivi, per delegittimare e smantellare la scuola pubblica':
esattamente quello contro cui stiamo lottando".
Nei prossimi giorni le prove si svolgeranno anche nella scuola
primaria, nelle seconde e quinte classi, e nella scuola media, dove
saranno coinvolte però solo le prime classi. In corrispondenza delle
prove, l'Unicobas ha previsto due giorni di sciopero: giovedì 12 maggio
i docenti saranno chiamati ad astenersi dalle lezioni nell'ultima ora
di servizio; il giorno dopo, il 13 maggio, è stato proclamato lo
sciopero per l'intera giornata ed una manifestazione nazionale, con
inizio alle 9,30, davanti al ministero dell'Istruzione. (TMNews)
Le prove Invalsi? Non è un test di 4
ore a rovinare il lavoro di ogni giorno
Di Elena Ugolini da
http://www.ilsussidiario.net
Nel corso di questa settimana circa 2.250.000 studenti sono impegnati
nelle prove di italiano e matematica Invalsi. Sono gli alunni che
frequentano la II e V primaria, la I secondaria di primo grado e la II
superiore. Penso sia giusto usare il termine “prove” per indicare ciò
che è contenuto nei fascicoli su cui sono chiamati a lavorare i nostri
figli: si tratta di esercizi, problemi, domande sul testo costruite a
partire da quadri di riferimento concettuali ben precisi. Non
sostituiscono quelle che i docenti costruiscono ogni giorno per
verificare ciò che i propri studenti hanno imparato, la loro capacità
di argomentare, giudicare, esprimersi, trovare strade nuove per
risolvere problemi. Le prove Invalsi non potranno mai prendere il posto
di questo lavoro quotidiano che gli insegnanti svolgono e che gli
studenti sono chiamati a fare. Hanno una funzione limitata, ben
precisa, non esaustiva.
Perché allora farle? Sono prove che hanno lo scopo di offrire alcuni
elementi confrontabili su tutto il territorio nazionale per più di
550.000 studenti per ciascuno dei livelli coinvolti. Sarebbe possibile
avere elementi comparabili sulla padronanza della nostra lingua facendo
svolgere la “stessa” interrogazione orale a “tutti” i ragazzi,
“contemporaneamente”? Possiamo ammettere, almeno come ipotesi di
lavoro, che avere questi dati relativamente a tutto il territorio
nazionale possa avere una qualche utilità?
Un ragazzo di seconda superiore che con il proprio docente di italiano
ha avuto la fortuna di leggere e studiare Shakespeare - lo dicevamo
ieri in una trasmissione radiofonica con Paola Mastrocola - non avrà
sicuramente avuto alcun problema a svolgere la prova Invalsi. Non sono
necessari addestramenti particolari. Occorre “semplicemente” abituare i
ragazzi al rigore, all’attenzione ad ogni singola parola, a non trarre
conclusioni senza chiedersi il perché. È quello che chiede di fare ogni
giorno chi insegna, chi aiuta a capire, a conoscere in profondità, a
non rimanere in superficie. Niente a che vedere con quei libretti pieni
di esercizi banali e ripetitivi usciti in concomitanza delle prove
Invalsi, redatti, magari, dagli stessi autori di sussidiari e libri di
testo che per anni hanno fatto scuola.
È opportuno dare il giusto valore a queste prove, che possono avere una
precisa utilità, ma che non possono nemmeno diventare la causa di tutti
i problemi della scuola italiana. Per farle svolgere gli insegnanti
hanno dovuto rinunciare a circa 4 ore di scuola sulle 1000 previste
nell’arco di un intero anno scolastico. Quattro ore a fronte di 18 mesi
di lavoro svolto da docenti ed esperti per mettere a punto i fascicoli,
e del tempo dedicato dai ricercatori Invalsi per dare al Paese i
risultati di un campione rappresentativo controllato da osservatori
esterni. I dati restituiti invece alle singole scuole che non hanno
avuto la supervisione esterna, nel caso in cui non sia stata fatta bene
la somministrazione, saranno carta straccia, a danno esclusivo di chi
male le ha svolte.
La buona notizia di ieri è che su 2.300 scuole del campione per la
seconda superiore, solo in una ci sono state difficoltà. Lo scorso anno
tutte le scuole primarie e secondarie di primo grado avevano
partecipato di buon grado alla rilevazione, senza caricarla di
significati che non ha e che non potrà mai avere. È fin troppo evidente
che misurare i risultati dei nostri studenti solo con test
esterni standardizzati sarebbe un crimine, perché significherebbe
depauperare una tradizione culturale, educativa e didattica che non ha
niente a che fare con l’addestramento: non bisogna confondere il
significato di questa operazione con i suoi sottoprodotti.
Ma tra questo estremo e l’assurdo di rinunciare a qualunque
comparazione esterna degli apprendimenti degli studenti c’è la strada
del sano realismo. Prima delle rilevazioni Invalsi un quadro
contraddittorio della scuola italiana veniva offerto da una parte dagli
esiti delle grandi indagini internazionali, che denunciavano
l’esistenza di un profondo divario tra nord e sud e di una iniqua
varianza di risultati tra scuole; e dall’altra dai risultati di un
esame di Stato alla fine del secondo ciclo in cui il Paese compariva
come un grande insieme indistinto, senza alcuna significativa
differenza tra scuole. In realtà, chi sa che cosa c’è “dietro” un 80,
un 90, un 100 come esito finale?
Se la tradizione dell’esame di maturità, con la presenza del colloquio
orale alla presenza di una commissione esterna, è a mio parere
insostituibile; se non può esservi dubbio sull’esistenza di Indicazioni
nazionali che mettono in evidenza il valore in sé della conoscenza come
risposta ad una domanda di senso, tuttavia poter disporre di dati
esterni comparabili sugli apprendimenti è di cruciale importanza. A
meno di accettare la situazione attuale, in cui le università
preferiscono proporre loro stesse prove selettive in ingresso, non
potendo dare alcun valore al punteggio conseguito nell’esame di Stato.
Pensiamoci.