Il ministro Mariastella
Gelmini ha stilato un calendario nazionale con il quale vorrebbe
imporre alla metà di maggio delle prove di valutazione a quiz in tutte
le scuole italiane. Per la prima volta queste prove vengono introdotte
anche nella scuola superiore e dall’anno prossimo faranno media per la
maturità.
Dietro questo meccanismo, insieme ridicolo e destrutturante, c’è una
strategia precisa. La superficialità e il nozionismo di origine
anglosassone, l’inadeguatezza dei test ai programmi e alla metodologia
italiana, l’unificazione dei risultati con quelli delle scuole private
(che, da sole, fanno perdere all’Italia venti posti nelle comparazioni
con l’estero), tutto ciò serve a dimostrare il presunto «sfascio» della
scuola pubblica. La propaganda di qualche editorialista spiana poi la
strada all’introduzione di un sistema de-meritocratico per un corpo
docente impiegatizzato secondo lo stile Renato
Brunetta.
Agli insegnanti sottratto l’elemento cardine della libertà
d’insegnamento: quella valutazione che per essere valida può scaturire
solo dal risultato dell’interazione didattica. La si vuole basare
invece su basi asfittiche e centralistiche. I paradossi si sommano ai
paradossi: a latere di un incongruo federalismo scolastico, che si
vorrebbe utilizzare per imporre l’uso del dialetto «lumbard» e
costruire avamposti della «scuola nazionale padana» vaticinata dalla
Lega Nord, i test non si limitano a considerare zero l’autonomia degli
istituti, ma sono addirittura uguali da Canicattì a Bolzano!
Del resto, il governo vorrebbe commissariare la scuola persino nella
scelta dei libri di testo (selezionati magari dall’ex conduttrice
televisiva Gabriella Carlucci, oggi «onorevole»). Queste prove sono
fondamentali per «disciplinare» la scuola e traghettarla verso un
sistema salariale differenziato. Secondo la burocrazia ministeriale (e
sindacal-concertativa) il 75 per cento dei docenti non è «meritevole»,
e il 25 sarebbe composto da «fannulloni». I «non meritevoli» dovrebbero
venire retribuiti ancor meno dell’attuale miserabile stipendio (il più
basso in Europa). Tale è il senso dell’accordo sottoscritto da Cisl,
Uil, Confsal (Snals) e Ugl il 4 febbraio scorso, che copia
pedissequamente l’apposita bozza di decreto del presidente del
consiglio redatta due giorni prima (ancora «sospesa»).
L’idea è quella di utilizzare le prove per fornire una parvenza di
«oggettività» a un’omologazione imposta dall’alto, affiancando i test a
forme di valutazione del tutto pretestuose, autoritarie e discrezionali
operate dagli ispettori del ministro. Ma studiosi del calibro di
Giorgio Israel (che ha collaborato sia con Giuseppe Fioroni sia con
Gelmini nel Comitato tecnico-scientifico per il sistema nazionale di
valutazione) ne dichiarano apertamente l’inapplicabilità. «Per quel che
riguarda i compiti dell’Invalsi», scrive Israel, «ritengo che esso
debba restare rigorosamente fuori da una valutazione dei docenti».
Il metodo stesso di rilevazione, copiato dagli standard formativi
dismessi da Stati Uniti e Canada, perché responsabili di
un’omologazione verso il basso delle competenze degli alunni, è
giudicato improprio: «Il processo di valutazione deve essere inteso
come un processo culturale e non come un processo manageriale… esso è
totalmente inadeguato in un sistema i cui contenuti sono culturali, non
misurabili, non passibili di una definizione oggettiva affidabile alla
gestione di “esperti’ esterni”» (Israel).
Questo è il lascito del pensiero unico: la vulgata di un’ottica
privatistica intesa come panacea per tutti i mali. Quella che impose
una «carta dei servizi» con lo studente definito «cliente». Il divide
et impera di un’ottica aziendalista che al contempo mira a togliere ai
genitori la presidenza dei Consigli di istituto, per trasformarli
sostanzialmente in Consigli d’amministrazione. Quella che vorrebbe
imporre agli studenti del sistema pubblico una scuola generalmente
minimalista ove s’insegni l’obbedienza ai subvalori dominanti, senza
pensiero critico, con il segmento degli istituti tecnici e
professionali a far da ghetto per il mero apprendistato.
Pura demagogia, sostanziata anche da una prevalenza sindacale a
carattere pan-operaista (Cgil) o vetero-impiegatizia (Cisl e Uil) e da
malintese revanche «controculturali». Basti pensare all’uso improprio
del pensiero di don Milani. Se si ricorda sempre la (intramontabile)
Lettera a una professoressa, si cancella il suo messaggio opposto alla
«scuola supermarket». «Il maestro», diceva il priore di Barbiana, «deve
essere l’opposto di un bottegaio che si limita ad assecondare i gusti
del cliente».
Per Israel, tutto ciò è il residuo «di un’idea banalmente sbagliata e
cioè che la scuola sia un’azienda fornitrice di beni e servizi e che
studenti e famiglie siano l’utenza». In linea con la grande confusione
dei ruoli che abbiamo vissuto negli ultimi tre decenni, nei quali s’è
persino ipotizzata la valutazioni dei docenti da parte di studenti e
famiglie: “una scorciatoia illusoria che può rendere il sistema di
valutazione semplice quanto inefficace e fonte di veri e propri errori”.
Il carrozzone Invalsi (l’ex Cede di Benedetto Vertecchi che scrisse i
quiz per il concorsone di Luigi Berlinguer), passato nelle mani dei
«vati» del centro-destra, gode di cospicui finanziamenti, una parte dei
quali erogati anche in funzione della somministrazione e della
correzione delle schede. Un carico aggiuntivo che si cerca d’imporre ai
docenti senza che ve ne sia traccia nel contratto nazionale e quando
persino gli inventori delle prove (peraltro le più facilmente copiabili
in assoluto) sostengono da anni che per l’obiettività delle stesse non
solo non si dovrebbe coinvolgere il team di classe, ma neppure alcun
insegnante dell’istituto nel quale si devono svolgere.
Il metodo Invalsi nasce dall’assoluta sfiducia (di destra e di
sinistra) del «Palazzo» e di certa «Accademia» nelle capacità
valutative degli insegnanti italiani. Ma si contrappone con arroganza
perfino al sistema di rilevazione adottato da decenni dall’Ocse,
mirato, non al nozionismo, ma alla verifica delle competenze, e che
colloca la scuola primaria italiana, da più di tre decenni, fra il
primo e il quinto posto nel mondo. Farebbero tutti meglio a rileggersi
l’articolo 33 della Costituzione sulla libertà d’insegnamento, nonché
le attribuzioni dei Collegi docenti, unici ad aver titolo a decidere in
materia di didattica e valutazione. In realtà le tante delibere
approvate nelle scuole contro le prove Invalsi dovrebbero venire
considerate cogenti dal ministro e dai dirigenti scolastici.
La battaglia è sentita anche dagli studenti e dalle famiglie, con il
netto rifiuto della vergognosa scheda sugli alunni che (mentre spinge a
giudizi sommari e discriminatori su attitudini e personalità) attua
persino una rilevazione di censo, istituendo così una sorta di
inaccettabile «campionatura» ben gradita al padronato più retrivo per
poter scegliere in futuro i più «proni» su quel che resta del mercato
del lavoro (precario). Null’altro che la riedizione sotto mentite
spoglie del tristemente famoso portfolio di morattiana memoria (insieme
al tutor, a suo tempo già rispedito al mittente dai Collegi dei
docenti). Un documento che avrebbe dovuto seguire l’individuo per tutta
la vita, segnalandone ovviamente le eventuali, «pericolose» propensioni
critiche.
Oggi siamo alle valutazioni a quiz in stile televisivo che registrano
prevalentemente attitudini meramente esecutive e mono
professionalistiche. I test Invalsi sono il completamento della scuola
minimalista prodotta dalla controriforma Gelmini. Valutazioni che ben
si addicono, per esempio, a un liceo scientifico senza il latino, il
quale, a proposito di destra e sinistra, starà facendo rigirare nella
tomba persino Giovanni Gentile.
La Secondaria superiore, per la prima volta alle prese con le prove
Invalsi, le sta rifiutando in massa. Infatti, in assenza del previsto
decreto attuativo, l’Invalsi non può in alcun modo ritenersi
obbligatorio. Per ciò che attiene agli altri ordini e gradi di scuola,
a scanso di equivoci, l’Unicobas ha proclamato due scioperi. Il 12
maggio (data «clou» per la somministrazione dei test alle medie) uno
sciopero dell’ultima ora: tanto basta perché le prove non vengano
completate.
La protesta culmina venerdì 13 maggio (giorno della Primaria) con lo
sciopero per l’intera giornata. Una protesta di tutto il mondo della
scuola (docenti e Ata, di ruolo e non, dell’istruzione pubblica di ogni
ordine e grado insieme a studenti e genitori) con una grande
manifestazione nazionale a Roma, dalla mattina sotto il Ministero
dell’istruzione in viale Trastevere.
Stefano d’Errico, segretario nazionale dell’Unicobas Scuola
(da IlFattoQuotidiano)