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Didattica: Insegnanti di Lettere e… Cartoline: né Monaci nè Guerrieri, ma Ministri della parola scritta. Continua il dibattito aperto da F.Tosto

Redazione
Aetnanet  è anche un forum culturale, un’agorà senza fobia, una tavola rotonda sconfinata come il Web e la Rete, un’opportunità per dibattiti è liberi e aperti. Ho letto (il 30 aprile u.s.) con grande attenzione gli interventi sull’insegnamento della Letteratura  firmati dai professori Tosto e Palumbo. Mi scuso di voler intervenire, perché ritengo di essere un outsider, in quanto laureato in Filosofia ma (per necessità) prestato da più di 20 anni alle Lettere nell’istruzione superiore. Alla domanda dei “rappresentati” dei libri di testo - Cosa insegna, prof ? - , prima rispondevo in modo socratico: “Nulla o quasi niente, perché imparo insegnando!”. Ultimamente, avendo messo radici nel Liceo artistico o forse per via del colore dei pochi capelli veterani, il mio biglietto di presentazione è: “Insegno emozioni e sentimenti, puntando all’interesse per la cultura letteraria e quotidianamente continuo ad imparare insegnando. Non assegno compiti per casa; semino agostiniane “inquietudini ”. Non ho letto il saggio di Davide Rondoni “Contro la letteratura. Poeti e scrittori. Una strage quotidiana a scuola” (ed. il Saggiatore), che ha dato l’incipit alla quaestio disputata. Di Rondoni avevo letto, sul Sole24Ore dello scorso settembre, la “Lettera aperta agli insegnanti di Lettere”. E’ stato un modo nuovo come fare conoscere l’arrivo del suo saggio. Cerco di tenermi aggiornato con poco. Per esempio da 35 anni, ogni sabato, compro La Stampa per il “Tuttolibri”;  non mi perdo mai il siciliano “Stilos”; da quasi 30 acquisto il “Domenicale” del giornale della Confindustria.
Tra i lavoratori della conoscenza sono un semplice manovale  che ha avuto tra le mani molti “manuali”. Quando alla fine degli anni 80  Giuseppe Petronio venne al Convitto Cutelli per presentare la nuova edizione del suo  celebre manuale L’attività letteraria in Italia, Palumbo 1964, c’ero anch’io. Quell’uomo aveva rinnovato profondamente lo studio della letteratura italiana a beneficio di generazioni di studenti liceali ed universitari. L’amico Mario Martorana mi presentò al maestro ed io ebbi la possibilità di chiedergli perché avesse liquidato, con poche righe, il periodo del ventennio. Mi disse, in sintesi, che non è possibile attività culturale vera quando si vive senza libertà. Trovai il marxista Petronio adottato nel cattolico e glorioso “Leonardo da Vinci” dei fratelli delle scuole cristiane. Al mio interrogativo, Fratel Tito mi rispose che era un ottimo manuale e che il colore politico era ininfluente per la verità, la cultura e il sapere. Ritengo che l’obiettivo cardine  dell’insegnamento linguistico-letterario  è LA CENTRALITA’ del TESTO di OGNI SCRITTORE e LA SUA PRIORITA’  RISPETTO alle PAGINE DEI CRITICI e degli INCASELLATORI . L’uso dei testi manualistici non deve precedere l’incontro con l’autore, ma seguirlo. Finito l’ultimo rigo, solo allora è bene guardare le introduzioni, le note, le critiche, le recensioni e i maunali scolastici. A scuola noi annoiamo gli alunni “inculcando” il sapere, parliamo e spieghiamo, e mai una volta che lasciamo gli alunni a leggere, rileggere, meditare e ruminare (come la “ruminatio” dei monaci medievali) sui testi dei classici. E mentre, per obbligo di programma scolastico, i ragazzi leggono gli autori che noi amiamo, facciamoci suggerire le letture che essi preferiscono. Trovo strano che i giovani si stupiscano che anch’io conosca scrittori contemporanei da loro preferiti e ascolti i “loro” cantautori. Ma che pensano gli alunni di noi docenti? Forse ancora quello che cantava Venditti nel 1973? “Il professore,  che ti legge sempre la stessa storia, sullo stesso libro, nello stesso modo con le stesse parole, da quarant'anni di onesta professione.  Ma le domande non hanno mai avuto una risposta chiara. E la Divina Commedia sempre piu' commedia al punto che ancora oggi io non so se Dante era un uomo libero un fallito o un servo di partito…” I nostri alunni, sua sponte, leggono moltissimo. Di tutto. Gli insegnanti che lasciano il segno sono quelli che stimano i propri alunni e non li considerano dei “diversi”, che dialogano sapendo ascoltare. Leggere è considerato slow mentre tutto è diventato fast. Anche questo mio intervento rischia di esser  slow. E allora lo trasformo in fast anzi in rock per un rap:
“Non voglio solo leggere, voglio anche scrivere//Odio le correnti specie quelle letterarie// Amo gli scrittori, ma solo se minori // Leggo per gustare, senza obbligazione//  senza sapere di contesti, di sequenze e focalizzazione// di diegesi né di esegesi// di prolessi e analessi// Amo i libri come le metafore// senza codici assiologici e valori semici// Nulla so di extratesti e  intertesti// di isometrie e  anisometrie// Grazie a chi mi ha regalato le parole// che mi ha dato la chiave// per aprir la mia testa// oltre i libri di testo// Pirchì: Acca, nisciunu è ffesso!”
Giovanni Sicali
giovannisicali@gmail.com

settembre 6, 2010
Ecco la Lettera aperta agli insegnanti di Lettere che Davide Rondoni ha indirizzato ieri dalle colonne del Sole 24ore:
 INSEGNANTI, MONACI E GUERRIERI di Davide Rondoni
Davide Rondoni, Insegnamento della Letteratura, Lettera aperta agli insegnanti di Lettere, Sfascio della scuola pubblica.

Più che una lettera, questa è una supplica. O qualcosa dove l’invettiva, la supplica e il silenzio si rincorrono in una strano, definitivo investimento. Vi dico: siete dei monaci. E dei guerrieri. Non tradite pure voi, in questo generale tradimento di chierici e di giornalisti, di “esperti” di comunicazione e di editori o agenzie di eventi culturali… Siete monaci e guerrieri a custodia e a incremento di un bene prezioso, che nessuno quasi più comprende. O di cui molti parlano ma già così incartapecoriti e in naftalina di retorica o di buone intenzioni…La chiamano: letteratura. Ma non è altro che vita continuamente ridestata della lingua, della prima e umile e ricca relazione di cui la natura ci ha dotato. E’, attraverso la lingua, vita che si ridesta alla vita, cioè alla coscienza. Siete monaci e guerrieri della vita della lingua, che è come dire vita del pensiero –o della ragione, se vogliamo ridirlo. Perché cosa è la letteratura? Pila di libri che intasa le librerie? Classifica in fondo al Corriere? O allegato de La Repubblica? O biblioteca delle biblioteche? O ultima delle mode? Un elenco di classici opposto a un altro? No, la letteratura o come la volete chiamare quella galleria di voci, è un’esperienza. Siete, che lo vogliate o no, sul fronte di una guerra che ha in palio la sparizione del fenomeno chiamato poesia, cioè una guerra sulla radice stessa della esperienza linguistica nel suo aspetto di corrispondenza tentata con il mondo, di risposta al segreto che delle cose colpisce e invita. Non la sparizione, no. Perché non sparirà mai, essendo tra i fenomeni umani primari. Come la fame, come il sesso, e il lutto. Ma la sua riduzione per fraintendimento. La sua anestesia. La collocazione tra i noiosi intrattenimenti, ovvero tra i paradossi inutili ai più. Invece, la vita ci chiama, fin da piccoli, a non usare solo i nomi dell’anagrafe. Non bastano le parole dell’anagrafe stabilita dalle leggi o quella spesso più tetra e misera imposta (e con che formidabili strumenti) dall’uso. All’amata, ai figli inventiamo soprannomi per provare a dire quel che di loro, in tenerezza e timore, ci parla. Dante diceva che a volte si usano le parole per dire quello che non si sa. La lingua aperta e tesa al segreto del mondo è l’inizio e per così dire il concerto della letteratura. Al cuore, alla ragione non bastano le parole spente che ci mettono in bocca. Se il cuore e la ragione sono ancora vivi. Se ascoltano il mondo. Se ne ricevono il colpo di presenza. Siete monaci, e guerrieri. Mal pagati. Messi a lavorare talvolta in condizioni spaventose. Tra editori e, spesso, dirigenti che non capiscono niente di tutto questo. In ambiti dove tutto sembra concorrere a mortificare la vita, e dunque anche la lingua. Tra burocrazia, pruriti che sembrano pestilenze, e sciabordìo morto dell’abitudine. Tentati di far come tutti, parandosi dietro a questioni sindacali o familiari. Parandosi dietro alla difficoltà. Ma il monaco e il guerriero abitano la difficoltà. Non fanno solo un mestiere. Ne fanno centomila per l’esito della buona battaglia. Se avete difficoltà economiche andate a rubare, fate gli unici espropri che avrebbe senso fare. O fate cooperative, leghe di insegnanti di lettere, mutue, fate la questua. Dovrebbero pagarvi a miliardi, altro che i grandi manager… Ma tanto l’unica vostra dignità professionale è data dall’aver fatto tremare o sgranare gli occhi a qualcuno leggendo la pagina di un capolavoro come se si stesse scrivendo ora lì con voi, collaborando a scriverla la vostra vita intera. Non è questione di soldi. E non importa se coraggiosi o coltissimi, o se tremanti o spavaldi. Il fatto è che siete lì, ora, in questa specie di trincea, in questo combattimento corpo a corpo. E’ nelle vostre mani –nelle vostre più che in altre- la responsabilità di non far morire il dolce suono e il movimento della nostra lingua italiana. Lingua di poesia innanzitutto, come avviene in Francesco, in Jacopone, poi in Dante, in Petrarca, su fino a Leopardi, al leone Ungaretti e ai tanti, tantissimi che hanno nelle loro diverse misure e respiri tentato rilievo e giustizia alle parole. Trattandole per quel che sono: strumenti con cui inseguire il vero e indicarlo, come un Giovanni Battista clamante nel deserto, o come il sobbalzo nel ventre di Elisabetta. Viviamo in un’epoca di parole spente. In un’inflazione di parole che vengono addosso a generazioni che non è vero che leggon poco; leggono un sacco –dagli sms agli spot, ai giornali dati gratis nei metro- ma tutte cose in cui le parole sono morte. Lettura in cui non c’è vita. Dove non si chiede niente a chi legge, solo i suoi soldi, o l’opinione, o il voto. Lasciate perdere i programmi, le scadenze, i disegni analitico-storici…Fateli per quel minimo indispensabile. Che è vicino allo zero. Il disegno storico della letteratura a che serve a un ragazzo, se non si impara il gusto e lo scandalo della letteratura? Alzatevi in piedi, piuttosto, leggete. Fate teatro di questa vita della lingua quando in essa giunge il colpo della vita. Questo raddoppiamento della vita. Fate come avete visto fare davanti a voi da chi ha letto grandi pagine di letteratura investendole di se stesso, della propria domanda di felicità e scoprendo il segreto del mondo. Fate così, come i monaci in piedi, e i guerrieri. Perché da ovunque il nulla occhieggia. E cala sui viottoli o sulle autostrade della vostra possibile pigrizia, della vostra inappellabile buona coscienza, del vostro malinteso senso del dovere. Il destino mi ha assegnato una piccola parte nello scrivere versi, libri, miei e d’altri. E ora questo libercolo di letture condivise. A voi la parte di indicare e condividere la parola accesa della letteratura. Non lasciate si spenga, in occhi abbagliati di noia dalle scritte di rèclame. Il mio monastero è il vostro, e medesimo il campo minato. Scusate, anzi non scusate, il disturbo.

Bella eh? E potrei dirvi che condivido parola per parola, anche se trovo troppo enfatico e perfino irritante il tono. Retorica neo-dannunziana al servizio di un nobile scopo: ri-motivare l’insegnante bistrattato da un governo che però (c’è sempre un però) il poeta Rondoni sicuramente appoggia, visto che il medesimo ha recentemente scritto la prefazione alle poesie di Sandro Bondi, attuale ministro della cultura, introducendo al mondo delle patrie lettere perle come questa (dedicata da Bondi alla mamma del premier):
A Rosa Bossi in Berlusconi
Mani dello spirito
Anima trasfusa.
Abbraccio d’amore
Madre di Dio
Sarà per questo che il poeta Rondoni glissa su stipendi e concrete condizioni di lavoro e invita i docenti all’ascesi monacale?
Ma Rondoni è poeta e sodale di poeti. Non si può pretendere anche da lui (che non fa l’insegnante) la purezza adamantina e ascetica del monaco e del guerriero. Quella la lascia a noi, insieme alla pochezza dei nostri umili manuali scolastici, mentre lui frequenta i salotti buoni della politica culturale, com’è giusto che sia per un adepto di Comunione e Fatturazione. A loro lo sfascio della scuola pubblica non importa più di tanto: ad essa i ciellini come Rondoni preferiscono le scuole di Comunità, dove l’interprete autorizzato del verbo Giussaniano o del poeta piegato a Giussaniano pensiero crea la giusta atmosfera, a partire da una credibilità che non ha bisogno di conquistarsi perchè è data pregiudizialmente dalla “comune appartenenza”.
E’ vero, è un argomento “ad personam”, come mi ha appena rimproverato il mio amico Giulio Mozzi sul suo blog, e si dovrebbe analizzare il contenuto di un discorso piuttosto che respingerlo a priori per una pregiudiziale nei confronti dell’autore.
E allora parliamone di questo atteggiamento dello scrittore nei confronti della letteratura insegnata a scuola, anche a prescindere da Rondoni. In effetti credo che anche quando non lo dicono esplicitamente, questa sia la posizione di molti scrittori (forse sarebbe anche la mia, se non facessi anche l’insegnante oltre a scrivere). L’idea è di essere i legittimi depositari e propugnatori del verbo letterario, non per una sorta di patente acquisita ma perchè la pratica quotidiana della scrittura e della lettura più o meno professionale è percepita come l’unica e vera iniziazione alla medesima. Questo chiede lo scrittore all’insegnante: sii un vate, un sacerdote della parola, non nasconderti dietro un ruolo impiegatizio, non svilirti in rivendicazioni sindacali.
Ma, caro Rondoni, insegnare non significa solo trasmettere la comprensione e la ricchezza umana che ho ricavato dalla lettura dei Promessi Sposi, ma farlo a questi alunni, questi qui, che a casa non leggono (perchè i loro genitori non leggono), che soffrono nel togliersi dall’orecchio l’Y pod, che si esprimono con gli emoticons ecc. Il tutto in questa scuola qui, che in mezza Italia è fatta di edifici fatiscenti, che la Gelmini sta massacrando mettendo trenta alunni per classe, dove non ci sono soldi per corsi di recupero e tra poco nemmeno per le fotocopie.
Ecco perchè un signore che un giorno scrive una lettera come questa e il giorno dopo prende a braccetto l’attuale ministro della pubblica istruzione, ai miei occhi è uno che passeggia sulle rovine con il gelato (di gusto molto letterario) in mano e, ciellinismo a parte, dovrebbe continuare a scrivere sulle riviste alla moda e lasciar perdere la scuola. E’ vita di trincea, non è roba per lui.
Del resto non è certo la paraculaggine di un Rondoni o la protervia di una Gelmini ad essere responsabile dello sfascio della scuola pubblica. Come ho scritto parecchie volte, lo sfascio della scuola pubblica nasce da sinistra e termina a destra. Inizia dalla confusione tra autoritarismo e competenza autorevole, buttando la seconda col primo (’68), prosegue con l’utilizzo della funzione docente come refugium peccatorum di un precariato intellettuale creato dalla decadenza delle università e prezioso serbatoio di voti (68-77), si consolida con una pedagogia curricolare da allevamento importata da paesi anglosassoni, sposata dai soloni sinistresi che governavano le Università e imposta alle scuole di ogni ordine e grado, nella più totale indifferenza di una revisione dei programmi e della formazione dei docenti (77-98) e termina con la presa d’atto del caos didattico, dei costi insostenibili e della pochezza culturale della scuola pubblica da parte del berlusconismo, che ragiona più o meno così: sbobba a basso prezzo per tutti e zone di eccellenza per chi può pagarle (come la sanità, insomma)
Perchè me la prendo con la Gelmini, allora? Perchè il destino della bestia è determinato per buona parte dall’allevatore, ma il colpo di grazia lo dà il macellaio.









Postato il Giovedì, 05 maggio 2011 ore 10:15:00 CEST di Giovanni Sicali
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