Adesso
diranno che in piazza c’era la parte migliore del Paese. Invece nei cortei, dietro gli striscioni
con lo slogan “Il nostro tempo è adesso, il futuro non aspetta”, c’era
semplicemente un pezzo d’Italia. Quello più precario.
I numeri non sono quelli delle grandi piazze operaie: a Roma circa 30
mila persone, a Milano un migliaio, diverse centinaia a Bologna e così
via, in decine di città, anche nelle più piccole. Ma i precari sanno di
essere figli di un dio minore, anzi, come si è scritta una ragazza su
un braccio “figli di un dio stagista”. Gli unici pullman che si vedono
in piazza della Repubblica, da dove parte il corteo di Roma, sono
quelli dei turisti. Non c’è l’infrastruttura organizzativa dei partiti,
neppure quella dei sindacati, anche se nel comitato promotore della
manifestazione e tra gli organizzatori ci sono alcuni ragazzi della
Cgil
giovani.
Viene avvistato il segretario generale, Susanna Camusso, “ma se sale
sul palco la fischiano”, dice qualcuno. Le uniche bandiere di partito
che si vedono sono quelle dei professionisti dei cortei,
micro-formazioni della sinistra radicale. Perché il movimento dei
precari, ammesso che sia un movimento, non si fida. Si è sfiorata la
scissione già alla vigilia: i milanesi del gruppo di San Precario
accusavano il comitato de “Il nostro tempo è adesso” di essere
manipolato dal Pd e dalla Cgil e quindi volevano boicottare i cortei.
“Magari il Pd e la Cgil potessero influenzare qualcosa” è il commento
più frequente che si registra tra i partecipanti. Poi San Precario ha
cambiato idea, era a Roma con il suo camion, la musica, i volantini
degli “stati generali della precarietà” che ci saranno il prossimo
weekend. Avrebbero voluto anche un intervento dal palco. Scissione
evitata.
“La cosa che colpisce è che questi non sono giovani, l’età media sarà
vicina ai 35 anni”, dice una precaria Rai guardando il serpente umano
che si snoda nel centro di Roma. I ragazzi sono già brizzolati, molte
donne sono mamme. “Ho una bambina di 11 mesi, sto incrociando le dita
sperando che accettino la mia domanda per un progetto a Hong Kong, così
crescerà trilingue, inglese, italiana e cinese”, spiega una ragazza che
oramai si è rassegnata, “ho vissuto in Vietnam, l’Italia ormai è molto
simile, con la differenza che il Vietnam è in crescita e l’Italia
declina”.
A tentare una lettura sociologica del corteo si può dire che ieri in
piazza c’era l’élite precaria, quelli con laurea e master, con lavori
che una generazione fa avrebbero assicurato benessere e prestigio e che
ora si fanno gratis, magari dovendo fare un secondo lavoro per
permettersi di non guadagnare nulla con il primo. Non si vedono i
precari dei call center immortalati da Paolo Virzì quando il dramma
sembrava quello della Generazione mille euro (oggi la soglia è scesa
parecchio). Ma ci sono i ricercatori dell’Ispra (l’istituto di ricerca
e protezione ambientale del ministero dell’Ambiente) che sono di nuovo
sull’orlo della disoccupazione, oppure i vincitori di concorsi pubblici
che non riescono a insediarsi nel posto che spetta loro.
Uno dei gruppi più numerosi è quello dei ricercatori dell’Istat,
l’Istituto nazionale di statistica. Gabriella, 33 anni, una laurea, un
dottorato in statistica, un lungo periodo di ricerca quasi gratis in
università, spiega perché è una precaria di lusso: “Noi vincitori del
concorso abbiamo tutti un contratto di due anni, in busta paga
prendiamo 1.800 euro netti, ma siamo qui perché vogliamo che tutti
abbiano gli stessi diritti e perché anche per noi la stabilità resta un
miraggio”. Ma c’è ovviamente anche chi se la passa peggio. Le
lavoratrici delle cooperative che assistono gli studenti disabili
ostentano le fotocopie giganti delle loro buste paga: 530 euro al mese,
quando va bene 800. A rendere più difficili le definizioni e a smontare
gli stereotipi ci sono poi i lavoratori delle Assicurazioni Generali,
“produttori”, si definiscono, cioè promotori assicurativi. “Siamo
assunti a tempo indeterminato”, dice Gianluca, che poi spiega perché
sfila con i precari. “Abbiamo un fisso da 500 euro, poi le provvigioni
ma soltanto per i nuovi clienti”. Risultato: “Lo scorso anno ho
presentato un Cud da 8.900 euro, non si vive così, siamo tutti
costretti ad abitare ancora con i genitori. Soltanto da gennaio a oggi,
qui a Roma, si sono dimessi in dieci, uno a settimana”.
Le storie, insomma, sono così diverse da rendere difficile una sintesi
e una rivendicazione davvero comune. Le ragazze del gruppo femminista
romano Diversamente Occupate fanno questo ragionamento: i precari di
oggi sono il contrario delle masse operaie degli anni Settanta, oggi è
molto più difficile unirsi per contare di più, perché le vicende
individuali sono troppo eterogenee, eppure la generazione precaria si
sta imponendo proprio con le tattiche vecchio stile, con le
manifestazioni di piazza. E anche il prossimo passo si inserisce nel
solco della tradizione: uno sciopero, “precario” ovviamente. Come
possano scioperare lavoratori che non ne hanno il diritto e che
rischiano il licenziamento o la rottura istantanea della collaborazione
(se autonomi) è ancora poco chiaro. Forse diventerà un evento tutto
virtuale, magari un messaggio in bottiglia su Facebook o un tweet. Di
sicuro la protesta non si è esaurita ieri. La politica sembra che se ne
stia accorgendo. Rosy Bindi, presidente del Pd, davanti al Colosseo,
rievoca i suoi sette anni da ricercatrice universitaria precaria. “Il
primo stipendio era 130 mila lire, poi sono arrivata a 700 mila, ma chi
lavorava in banca guadagnava il doppio”. Poi, guardando il corteo,
aggiunge: “non si può lasciar solo un mondo così”. La aspettano al
varco.(di Stefano Feltri da Il Fatto Quotidiano)