Un
operatore di call center mi dice che qualche anno fa viveva al centro
di Roma, divideva l’affitto con un amico e aveva tempo per suonare e
andare in tournée. Si considerava un musicista e utilizzava il call
center come sponda. Adesso sta in periferia con tre studenti, lavora
full time per sopravvivere, non ha più tempo per suonare e comunque
anche la richiesta di concerti è diventata così striminzita che non ci
camperebbe. Mi dice “ho quasi cinquant’anni, non ho una famiglia e va a
finire che torno a vivere con mia madre”. Allora dov’è la precarietà?
Non è solo un problema di stage non pagati, di assunzioni a tempo
determinato, di lavoro nero e licenziamenti facili. Mille e cinquecento
euro al mese basterebbero se una famiglia ne pagasse duecento
d’affitto. Basterebbero se una donna e un uomo avessero la certezza di
lavorare fino al giorno della pensione. Basterebbero se il figlio di un
operaio studiasse in una classe con meno di venti bambini, ricevesse
una vera formazione che comprendesse le lingue straniere e la musica,
la storia contemporanea e il teatro… Basterebbero se quella famiglia
avesse attorno una comunità che la sostiene, un servizio sanitario che
la cura quando sta
male.
E invece l’operaio che pensava di essere assunto a tempo
indeterminato vede in televisione un padrone col maglioncino che gli
sfila i diritti da sotto i piedi, il sindaco (sedicente di sinistra)
che va a giocarci a scopetta e prega il proprio partito di affiancarsi
alla battaglia padronale. Porta il figlio in una scuola dove i suoi
compagni sono così tanti che la maestra ci mette un mese per imparare i
nomi, una scuola che funziona solo per l’impegno degli insegnanti che
non hanno ancora mollato, che non sono ancora scoppiati per
l’umiliazione continua alla quale sono esposti.
Un lavoratore è precario non solo per la precarietà del suo lavoro, ma
soprattutto perché sono precari la scuola, la casa, l’assistenza
sanitaria, i trasporti, l’informazione, la cultura, il cibo che mangia
e l’acqua che beve, l’energia che consuma e i vestiti che indossa.
Invece io dico che la scuola è solo pubblica. Dico che la scuola
privata è una questione privata, un’azienda che deve prendere due lire
solo in quel paesino di montagna dove non è ancora stata costruita
quella statale. Dico che accettare oggi una riduzione dei diritti in
fabbrica significa che domani quei diritti si ridurranno ancora di più.
Dico che se un lavoratore accetta di lavorare per uno stipendio
ridicolo non fa solo una scelta personale, ma sta costringendo tutti
gli altri ad essere sottopagati, così come un lavoratore che sciopera e
ottiene il riconoscimento di un diritto, lo fa anche per quello che
entra. Dico che seicento euro d’affitto per un monolocale seminterrato
in periferia (c’era il cartello nella piazza della mia borgata fino a
poche settimane fa) è un furto e quando la casa non si trova: la si
occupa.
Dico che se acquisto un paio di scarpe sottoprezzo sto sfruttando un
operaio e se compro a mio figlio un pallone cucito da un bambino della
sua età dall’altra parte del mondo sono peggio di un pedofilo. Dico che
se prendo l’acqua da bere al supermercato e uso quella potabile che
esce dal mio rubinetto per lo sciacquone del cesso sono un pazzo
pericoloso. Dico che non sono un uomo moderno se accetto la
devastazione di una valle per farci passare un treno veloce che impiega
un’ora di meno per portarmi in Francia: sono un criminale.
Penso a una donna del trentino che va al supermercato a comprare un
chilo di mele cilene. Se quelle mele costano meno di quelle coltivate
sotto casa sua è evidente che in Cile c’è un contadino sfruttato e uno
del trentino che resta disoccupato, un aereo che inquina inutilmente
l’oceano e una piccola frutteria che chiude.
Il lavoro era precario vent’anni fa. Oggi è la nostra visione del mondo
ad essere precaria.
Io non cerco voti per le prossime elezioni, né tessere per la prossima
campagna di tesseramento. Non ho bisogno di carne da macello per la
prossima guerra umanitaria o vittime del destino per il prossimo
terremoto. Non scendo in piazza per un lavoro a tempo indeterminato o
per qualche centesimo che il ministero della cultura succhia dai
serbatoi della benzina. Non voglio mettere all’ordine del giorno del
prossimo consiglio dei ministri o del prossimo talk show, del prossimo
monologo teatrale o della prossima canzonetta il solito discorso del
giovane sottopagato o disoccupato.
Io dico che questo sistema violento mi fa paura e so che per
liberarcene dobbiamo pacificamente far paura al sistema.(di Ascanio
Celestini da il manifesto)
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