Sabato di molte
città, 9 aprile. Il nostro tempo è adesso. E tempo non ce n’è
più. La nazione infranta, piegata da profonde disuguaglianze sociali,
nella condizione dei suoi giovani ritrova uno specchio e si vede in
tutta la figura, sul crinale tra rilancio e declino. Giovani di larghe
vedute e competenze, risorse reali e attuali per intraprendere vie
“nuove” (avanzate, sostenibili) allo sviluppo, che invece vivono le
pene della ricerca di un lavoro o che alla fine “disertano”, verso
marginalità sociali e civili, oppure fuggono dall’Italia immobile.
L’istantanea di una generazione è nei dati che misurano i pesanti
effetti della crisi sull’occupazione: un calo tutto concentrato sulle
fasce d’età giovanili, e aggravato da un sistema di protezione sociale
inadeguato e incompleto, squilibrato tra soggetti colpiti e tutele.
Precari, certo – di una precarietà che assume valenza esistenziale e
caratterizza l’epoca (insomma, il tempo amaro) che viviamo – ma non
solo: giovani sofisticatamente sfruttati; giovani a cui la crisi ha
inesorabilmente sbarrato le porte d’accesso aunlavoro all’altezza di
sé, delle proprie ambizioni e di quelle del Paese – se solo questo
Paese ambisse ancora a qualcosa… L’opinione pubblica è povera persino
di strumenti conoscitivi per cogliere questa stato delle cose, e
insegue decimi di percentuali ad ogni bollettino Istat sul tasso di
disoccupazione giovanile, per poi sprecare commenti e ammonire
(rinfacciando al governo più gravi responsabilità o, dal governo, per
cavarsi dall’impaccio di cuori rubati, corpi venduti): “un giovane su
tre è disoccupato”, “questi sono i giovani di cui dobbiamo parlare”!
Dato allarmante, che però riguarda una fascia ridotta (15-24 anni, in
larga parte a scuola o all’università) e ne nasconde altri più
drammatici e eloquenti: come il tasso di occupazione. Per la Svimez,
nel 2010, meno di un giovane su tre, tra i 15 e i 34 anni (fascia che
comprende l’intera fase di ingresso sul mercato del lavoro anche dei
giovani laureati e altamente qualificati), al Sud, ha un’occupazione. E
nel caso delle donne, meno di una su quattro. Una generazione che
rischia di essere “perduta” in patria. Come “perduti”, per la patria,
sono tanti eccellenti “fuorusciti”. Patria che non arriva a Lampedusa.
Ecco perché non è più tempo di ascoltare giaculatorie e frasi – come
“il futuro è vostro”, “poveri ragazzi, vivrete peggio di noi”,
“andatevene, questo Paese non vi merita” – di un inaccettabile
paternalismo (che si perverte sempre nell’Italia familista e nepotista)
e gravemente irresponsabili se pronunciate da una classe dirigente che,
nella condizione dei giovani (e quindi dell’Italia tutta), dovrebbe
misurare tutto il suo fallimento.“ Abbiamo fallito”, riconoscono pure
alcuni, con gran sospiro e molto vezzo. Ma sbagliano i tempi: il
fallimento non è l’essere stati non all’altezza delle aspirazioni di
gioventù (qui si fallisce, per definizione), ma è l’incapacità di
incidere sul presente, di preparare un avvenire, pur detenendo le leve
del “comando”. Il nostro tempoè adesso, e bisognerà pur dire: “a cose
nuove, uomini nuovi”. Da questo gran ripasso del Risorgimento, abbiamo
imparato che “erano tutti ragazzi”… Ora, nel difficile risveglio dal
sonno e dalla sbornia berlusconiani, le generazioni penalizzate –
quelli che avevano diciott’anni quando è “sceso in campo” e quelli che
hanno diciott’anni adesso – non possono più giocare alla truffa del
domani. Troppo lunga la stagione in cui tempo s’è fermato, rimandando
il futuro sempre un po’ più in là. Esarà bene vedersi in faccia,
domani, nelle molte piazze italiane. Per vedere su chi si può contare,
più che per contarci. Se saremotrecento, parremo tremila. Esserci per i
ragazzi che in questi anni si ribellavano a Palermo e Locri (o a
Castelvolturno)o che soccombevano a Rosarno; per quelli che dieci anni
fa erano a Genova e un altro mondo gli pare ora impossibile; per quelli
che sono andati via e che vorrebbero tornare; per gli ingegneri a mille
euro e gli umanisti a rimborso spese; per quelli che nel migliore dei
casi faranno il mestiere del padre (o il cui padre operaio il mestiere
non ce l’ha più); per quelli che hanno sfilato coi libri perché
tagliano su classi e biblioteche; per quelli che hanno protestato dalle
gru e dai monumenti; per quelli che sono saliti sui tetti o che dai
tetti sono caduti giù; per la vita diNormanZarcone e per le vite degli
altri; per quelli che potrebbero trovarsi a piazza Tahir e per quelli
che hanno gli occhi che piangono il Canale di Sicilia; per il ragazzo a
cui a current under sea, picked his bones in whispers…
(da l'Unità di Giuseppe Provenzano)
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