«Non so
come fare. Ho meno ore, non riesco a sentirli più. Ormai per il voto
orale devo fare dei compiti scritti. L’anno scorso ne avevo 22,
quest’anno 28. L’anno scorso avevo quattro ore di latino, quest’anno
tre. Ma sono preoccupato: ogni volta che li chiamo sono sorpresi, non
riescono ad esprimersi. È colpa mia? Non lo so, i miei colleghi mi
raccontano le stesse cose».
Uno sfogo, uno dei tanti. Della riforma Gelmini nelle superiori si è
parlato in teoria. I conti con la realtà si cominciano a fare, ora,
nelle scuole: sono devastanti.
La generazione del monosillabo delle parole mozze, delle sigle per
darsi affetto, così come si vanno forgiando invasi da facebook, a
scuola trasferisce per intero l’incertezza lessicale. E non c’è tempo
per rimediare. Il pittoresco Lorenzo creato da Corrado Guzzanti - che
non riusciva nemmeno ad arrivarci al monosillabo, ma un rumore contorto
usciva dalla sua voce per comunicare- è stato ampiamente superato,
anche se la figura resta profetica visto che la parodia vide la luce
ben prima dell’esplosione dei social forum. Nei licei la riduzione oraria è solo nelle
prime classi. Negli altri istituti superiori è a regime in tutte e
cinque le
classi.
Fece storia e svelò un problema fino ad allora rimosso, la
dislessia, il libro «Mio figlio non sa leggere» di Ugo Pirro. I figli
oggi faticano a parlare. La riforma è l’ultimo colpo agli adolescenti
«senza parole». Stretti tra programmi e scadenze i professori non ce la
fanno. E vai con scritti all’americana, con risposte a scelta multipla.
Storia, scienze, matematica, inglese.
L’interrogazione alla lavagna è l’eccezione, il sacro terrore, l’evento
rimosso da professori e studenti. Non c’è tempo. Quando poi gli
insegnanti di lingue non scoprono che le parole non dette, sono parole
sconosciute in italiano, figuriamoci in inglese o francese. Così
avviene non di rado che si entra nella terra di nessuno quando si usano
termini come rada, penuria, rurale, concernere, circoscrivere. Di
recente denuclearizzare... Ogni prof ha la sua esperienza da
raccontare. Ogni famiglia, anche. Chi percepisce il danno di qualità di
un’istruzione così ridotta cerca di tamponare con le ripetizioni
private.
Non finisce qui, però. L’esperienza del preside reggente (un preside
che si occupa di due scuole spesso diverse, un tecnico o un
professionale, uno scientifico e un industriale) sta dequalificando la
scuola. Il problema era noto, ma il governo non lo ha affrontato.
Gelmini fa sapere che il concorso per nuovi presidi si farà. Ma
dall’indizione al suo compimento passeranno almeno due anni. Nel
frattempo le scuole perdono credibilità. Un capo d’istituto diviso in
due è come un comandante che tura le falle mentre la nave affonda. Così
alcune scuole hanno visto drastiche contrazioni di iscrizioni.
I genitori osservano e decidono: se in un liceo si esce prima, si entra
dopo perché i supplenti non possono essere chiamati a sostituire i prof
mancanti le famiglie vanno via da quella scuola. Si capovolge la causa
con l’effetto.
Il ministero ha lasciato le scuole senza soldi per questo come per
molte altre cose: chi ha potuto ha alzato il contributo volontario. Chi
può, perché in moltissimi contesti già marginali socialmente le
famiglie il contributo (non obbligatorio per nessuno in linea di
principio) non lo possono pagare. Così la scuola pubblica va a rotoli,
lentamente ma inesorabilmente. E il danno che supera tutti gli altri è
la perdita di senso. Il messaggio complessivo con le opportunità di
emergere ridotte all’osso cancella l’«utilità» del farsi un’istruzione,
come si diceva una volta. Nelle case non si parla più di futuro. E
allora anche i ragazzi si chiedono sempre più spesso, studiare a che
serve?
(di Fabio Luppino da l'Unità.it)
redazione@aetnanet.org