Uno dei
nodi più caldi del dibattito sull’istruzione in Italia ruota attorno al
ruolo della scuola «privata» e il suo rapporto con l’istruzione
pubblica e i finanziamenti da parte dello Stato. Tra le questioni più
dibattute c’è quella del senso del dettato costituzionale, di quel
famoso articolo 33 della Carta che reca un inciso relativo
all’istruzione nelle scuole paritarie: «Enti e privati hanno il diritto
di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo
Stato». Molti hanno infatti sostenuto che questo articolo neghi la
possibilità allo Stato di erogare qualsiasi tipo di finanziamento a
questi istituti. In realtà se si esamina non solo il testo
costituzionale ma anche il testo dei lavori preparatori dei padri
costituenti ci si rende subito conto che questa interpretazione
restrittiva è quantomeno «antistorica» (un’ottima lettura a riguardo è
«La buona scuola pubblica per tutti. Statale e Paritaria» edito da
Giuseppe Laterza). (da http://www.ilgiornale.it/)
L’onorevole Epicarmo Corbino, appartenente al gruppo misto, infatti
propose quell’inciso, che riuscì a far introdurre, precisando che: «La
norma avrebbe dovuto solo escludere che lo Stato potesse ritenersi
obbligato a finanziare le scuole non statali per il semplice fatto
della loro esistenza, non dovendosi però escludere la facoltà per lo
stato di effettuare questi interventi nei casi e nei modi ritenuti più
opportuni». Qualcuno obietterà che se l’inciso è da intendersi in
questo modo quel «senza oneri» è un pleonasmo. All’epoca lo giudicò
così anche Giovanni Gronchi (Dc). Ma l’onorevole Corbino e l’onorevole
Codignola difesero la formulazione che venne approvata e, appunto, nel
difenderla la spiegarono. Quindi si può pensare quello che si vuole del
finanziamento alle scuole paritarie. Ma per negarne la validità è
meglio lasciar stare la Costituzione italiana.
Fin dall’800 lo Stato confonde
istruzione con omologazione (da http://www.ilgiornale.it/)
Quando il Regno d’Italia creato dall’espansionismo dei Savoia e
dall’idealismo un po’ sconclusionato di Garibaldi vide la luce, la nota
espressione di Massimo D’Azeglio sugli italiani «da farsi» ebbe il
merito di fotografare alcuni elementi della situazione venutasi a
creare. A dispetto di una storia articolata e di interessi divergenti,
l’Italia del 1861 calava istituzioni unitarie su città e regioni del
tutto disomogenee. La realtà cedeva il posto all’ideologia, dato che
il progetto nazionale, «fare gli italiani», era impregnato di un
costruttivismo sociale - un delirio da pianificatori - che avrebbe
ristretto le libertà e causato enormi danni. La scuola pubblica
obbligatoria appartiene a questa logica: non tanto e in primo luogo,
come spesso si sente dire, sulla base di motivazioni umanitarie, ma
invece al fine di realizzare una società che fosse coerente con gli
schemi culturali e gli obiettivi politico- militari dell’élite al
potere. L’Italia di metà Ottocento era cattolica e vernacolare: per
nulla disposta, dunque, a «morire per la patria». La religione civile
e patriottarda aveva allora bisogno di maestri che fossero
manipolatori delle coscienze: non già educatori scelti dalle famiglie,
ma imbonitori d’apparato, nutriti di quella religione secolarizzata
che coincide con la celebrazione della Patria. Al riguardo ci sono tre
libri che meglio di tanti altri aiutan o a cogliere il significato che
la scuola statale, in Italia e altrove, è venuta ad assumere: Cuore
del socialista-nazionale Edmondo De Amicis, un indigeribile libro per
ragazzi carico di suggestioni che- ovviamente - piaceranno
tantissimo agli alfieri della cultura fascista; Niente di nuovo sul
fronte occidentale del pacifista Erich Maria Remarque, che mostra come
l’inutile strage delle trincee sia stata preparata dal lavaggio del
cervello operato dai professori tedeschi innamorati del Secondo
Reich; e, infine, I misfatti dell’istruzione pubblica di Denis de
Rougemont, un delizioso libretto sullo squallore di scuole gestite
come uffici postali, dove si evidenzia che la massificazione
democratica h a bisogno di una cultura mediocre e istituzioni
totalizzanti. La situazione ora è diversa, ma non del tutto. Anche se
la classe docente del nostro tempo è più propensa a celebrare il
terzomondismo che il primato degli Italiani, e anche se indulge a u n
pacifismo sciocco piuttosto al militarismo di primo Novecento, è pur
vero che oggi come allora l’esercito malpagato degli insegnanti
pubblici continua a lavorare per il Re di Prussia: fuor di metafora,
sono cambiati gli slogan ed è mutata la retorica, ma i docenti
statizzati seguitano a sposare le posizioni più conformiste e, nei
fatti, più vantaggiose per il blocco sociale dello status quo . Se
nelle scuole pubbliche a troppi studenti sono propinati banalità
ecologiste e solidarismo d’accatto, per avere un’istruzione di altro
tipo questo ambito va restituito alle famiglie, agli studenti, ai
professori stessi. Le scuole devono essere tolte allo Stato e ridate
alla società, affinché competano liberamente: scegliendo i propri
insegnanti, delineando i propri programmi, definendo i propri
progetti educativi. Perché un uomo è davvero molto più che un semplice
cittadino.