Un
bel giorno Arrigo Boito, non ancora il musicista famoso ma un
giovanotto trapiantato a Milano dalla natia Padova, entrò in un'aula di
anatomia, si sedette sui banchi e guardò e ascoltò ciò che faceva e
diceva il professore intento a sezionare un cadavere. Ne trasse un
ricordo indimenticabile che lo rafforzò nel suo amore per i deboli e
gli umili, nel disgusto per l'umanità impietosa e per la scienza
trionfante del suo tempo, trionfante e presuntuosa. E siccome era un
artista, fece la cronaca di quello spettacolo in una canzonetta,
Lezione di anatomia, caratteristica del suo tempo e piena di motivi che
ancora oggi la rendono suggestiva:
La sala è lugubre; / dal negro tetto / discende l'alba, / sul freddo
letto / con luce scialba. | Chi dorme? Un'etica / defunta ieri /
all'ospedale... / Ed era giovane! / ed era bionda! / ed era bella!... /
Mentre urla il medico / la sua lezione / io penso ai teneri / casi
passati / su quella testa, / ai sogni estatici / invan sognati / da
quella mesta. / E ora il clinico, / che il cor le svelle, / grida ed
esorta: «Ecco le valvole, / ecco le celle, / ecco l'aorta. / Scienza,
vattene, | coi tuoi conforti! / Ridammi i mondi |del sogno
l'anima!
Un altro bel giorno parte e va a visitare il Museo Egizio di Torino. Ne
torna con un'altra poesia in tasca, un inno alla povera mummia nata al
sole e ai profumi del deserto e ora messa in vetrina nell'aria gelida
del Nord solo per appagare gli stupori della folla e la curiosità e
l'erudizione dell'archeologo che scruta i segni tracciati sulle bende
di quel corpo che pur chiudeva un'anima.
Né molto diversi i pensieri davanti al busto monco e senza testa di una
Venere, che ebbe anch'esso una storia da quando il suo marmo fu
staccato dalle pendici di un'isola greca ove gustava le dolci stagioni
e le luci del mar Mediterraneo, fino a questo secolo che raglia fatto
di gente prosaica, di arti bolse e, somma sventura, di restauratori.
Compreso il macabro, compreso l'ira, questa poesia era propria a Milano
in quegli anni - la seconda metà dell'Ottocento. Il capoluogo lombardo,
ancora fresco della gloria delle Cinque Giornate e nel guado di
trasformazioni profonde, era teatro delle prime contestazioni
politiche, economiche e sociali. Un'allegra e tristissima brigata di
artisti del quartiere di Brera inalberava l'insegna della
Scapigliatura, l'equivalente della bohème d'oltralpe. Movimento non
solo strettamente lombardo, tuttavia si sviluppò significativamente
proprio nelle regioni industrializzate Piemonte e Lombardia; un po'
confuso come spesso in questi casi ma con un'intensa e convinta ricerca
innovativa non soltanto in letteratura. Cletto Arrighi, che fu uno di
loro, in un suo scritto del 1862 in cui fra l'altro conia anche il nome
del movimento, La Scapigliatura e il 6 febbraio, riassumeva il
programma esistenziale di quanti, d'ogni ceto, d'ogni professione (ci
sono anche pittori come Tranquillo Cremona, Luigi Conconi, Domenico
Ranzoni), d'ogni condizione (ci sono anche nobili come Carlo Pisani
Dossi e deputati di lungo corso come Giovanni Faldella), si
riconoscevano nell'anima del gruppo. Ossia un modo in ogni caso e in
ogni forma eccentrico e "disordinato", geniale nel vivere e
nell'operare, impaziente del chiuso dell'Italietta Sintomi e prodotti
anch'essi dei disagi e degli inciampi che incontra la nuova nazione;
sintomi e prodotti delle lacerazioni che provocano i molti squilibri,
la revisione di valori costituiti e fondamentali nelle antiche
monarchie, la ricerca dei nuovi assetti per le istituzioni, per la
politica e per la produzione economica, per i nuovi modi di vivere non
più campestri e per i vari tessuti anche fisici degli agglomerati
urbani in espansione. Nel centro cittadino corsi, viali, palazzi
aristocratici; in periferia caseggiati ove «in alto, sui lunghi
ballatoi, ci stavano degli operai, dei facchini, dei manovali della
ferrovia; al pianterreno, degli ortolani, dei contadini, dei lavandai;
e fra queste due plebi diverse, un po' di borghesia stenta, qualche
impiegato dell'ufficio daziario, un conduttore, qualche macchinista»
(Roberto Sacchetti, 1879). In un capitolo di Cento anni (1857, poi
1869), il patriarca di tutti questi giovanotti Giuseppe Rovani scriveva
che se la superficie della società milanese, a metà del secolo, poteva
apparire accesa e viva, era non per florida salute ma per una «febbre
critica». I brividi della modernità.
Biograficamente cittadini di questa "topaia" tortuosa e opprimente, gli
Scapigliati sognano magari la campagna grande nella sua purezza, ma è
soprattutto questa metropoli che sollecita le riflessioni del movimento
e costituisce l'area in cui penetrano la loro estetica e la loro
sociologia. Questi letterari sono anche un fatto di costume e
caratterizzano anche in questo Milano a quell'epoca. Ma in verità non
soltanto allora, se una Milano della lingera è sopravvissuta anche
all'epoca industriale («lingera voce dialettale di area lombarda =
gentaglia - carnevale - sfaccendato - vagabondo - squattrinato -
scapestrato»). Ancora nel suo ultimo romanzo Milano è una selva oscura
Laura Pariani può parlare di lingera per il suo eroe e per il suo mondo
sommerso. Ancora i primi decenni del secondo dopoguerra, in cui il
romanzo è ambientato, scorrono nel chiaroscuro - ma più l'ombra - dei
Navigli e di piazza del Duomo, degli atrî delle stazioni e delle aule
del Palazzo di giustizia, dell'alta moda e del dialetto, quest'altro
elemento portante del tessuto e della letteratura lombarda.
Fortemente legati fra loro, gli Scapigliati praticano le osterie, i
caffè (l'Ortaglia ma anche il Savini), i teatri (Carcano, Dal Verme);
l'università è quella di Pavia. Ancora l'Arrighi in una sua novella
Suicidio li rappresenta così nei loro cenacoli (e sembra davvero una
tela di Cremona): «Quella camera, dominata da una statuetta di
Masaniello che chiama il popolo alla riscossa, divenne convegno di tre
o quattro amici, tutti artisti come lui, grazie a Dio. Essi pensavano
tutti come una persona sola, parlavano un mistico linguaggio tutto
pieno di poesia, di allusioni e di frizzi, e si rispondevano in rime
accompagnate da certi scoppi di risa, dei quali nessuno, tranne essi,
avrebbe capito la ragione. In quelle ore di feconda follia spesso i
turaccioli dello spumante francese volavano alla soffitta».
«Canterò le giornate erranti e pazze, | i teatri, i viottoli, le
piazze, |i giocondi compar» canta a sua volta Arrigo Boito. Compari (i
Praga, i Tarchetti) sempre in urto col loro tempo e con la città
benpensante e arretrata: «Noi siamo i figli dei padri ammalati,... |
svolazziam muti, attoniti, affamati... | Casto poeta che l'Italia adora
(Alessandro Manzoni)... , | tu puoi morir, degli anticristi è l'ora»
(Emilio Praga). Boito nei suoi anni giovanili contestò persino Verdi,
per poi divenirne alla fine devoto librettista.
Socialismo e liberismo affilano dal canto loro le armi. I giornali e le
riviste che sorgono e fioriscono a Milano proprio in quei decenni - i
decenni, anche, della Galleria, del Monumentale e presto del liberty, -
sono le palestre e le voci dissone di questa vitalità, così come le
case editrici, da Sonzogno a Treves. Il quotidiano Il Secolo esordisce
nel 1865, il Corriere della sera nel 1876. E ce n'è per tutti i gusti.
Il 1865 è anche l'anno in cui spunta Il Sole. Giornale
Economico-Finanziario-Commerciale, liberista e progressista («Noi
crediamo nelle macchine... e nella libera coltivazione del tabacco») ma
anche letterario per le sue appendici di racconti e addirittura di
romanzi e per le rubriche di Felice Cameroni, maestro nei titoli, negli
epigrammi e nella tecnica del giornalismo con la sua formula della
"breviloquenza". E poi la Perseveranza, conservatrice, del manzoniano e
rosminiano Ruggiero Bonghi, cui si contrappongono il Gazzettino rosa,
libertario di Felice Cavallotti e il socialista La Plebe, ove scrivono
Filippo Turati e l'operaio Leone Cappello. Né mancano di sorgere allora
i primi periodici femminili: Eleganza, Margherita.
Altrettanto è militante il romanzo. Romanzo antilirico e sociale, anzi
"socialista" come La folla, 1901, di Paolo Valera, poi rievocatore
implacabile delle "giornate" del maggio del 1898, le giornate della
"rivolta del pane". Tutta una letteratura a forti tinte, spinta spesso
e volentieri fino al macabro, fino al ventre della città. Ancora nella
citata novella del Suicidio (questo tema non solo letterario, ma
pratica non rara in famiglia), sono descritti così i temi delle
litografie di un giovane pittore tormentato dall'"umor nero" e
protagonista del racconto: «Qua una povera fanciulla scalza, morente di
fame e di freddo, che invoca un tozzo di pane per l'amor di Dio da un
banchiere che corre alla Borsa e la ributta con un'ignobile parola. Là
una bara che esce a mattino dalla portaccia di un povero morto di
miseria e di stenti, la quale s'incontra in due domini coperti di trine
e di diamanti che mettono il piede calzato di raso sul predellino di
una carrozza dorata e vanno a riposare dal veglione nella notte». Che
sono vere anche se volute istantanee della città ottocentesca.
Come prostrati da questi spettacoli che affioravano, che vedevano o
cercavano all'intorno nella metropoli che cambia e che descrivono quasi
morbosamente; provati dalle loro stesse rêveries, dalla malinconia che
pur essa contrastava con le utopie di cui si dicevano portatori; dalla
fragilità spesso dei temperamenti, gli Scapigliati si perdono e
disperdono con l'avanzare del nuovo secolo; qualche raro esemplare
sopravvive per un po' in provincia. Se ne trova qualcuno in provincia
ancora negli anni successivi alla prima guerra mondiale, col cappello a
larghe tese e la cravatta lavallière, la sigaretta e il bicchiere;
autori come l'Ernesto Ragazzoni di Orta, di inni Ad una vecchia
bottiglia o di Nostalgie del becco a gas.
Per il resto, col nuovo secolo irrompe la bagarre di poeti molto più
"incendiari", la pattuglia radicale di Marinetti & Co, che
s'insediano essi pure a Milano con la rivista Poesia (1905) e con le
loro chiassose serate al Lirico. Da allora saranno i padroni del
palcoscenico, sconvolgendo ogni cosa. Altro che prati e pievi e viuzze
ai chiari di luna. Il nuovo secolo sarà quello dei macchinari e della
velocità a 700 all'ora, e le città quelle degli arsenali e dei
cantieri, delle stazioni e delle officine, delle locomotive, degli
automobili ruggenti (sic, al maschile) e degli aeroplani che planano
nell'aria; se occorre, della guerra.
Come se non fosse più l'arte a contestare il progresso, ma il progresso
a contestare l'arte. O come se un nuovo mondo cercasse una sua nuova
forma d'arte. E l'avrebbe trovata. (da IlSole24Ore)