Ai disfattisti
accaniti contro la riforma dell’università di Mariastella Gelmini
dev’essere sfuggito. E come a loro, dev’essere sfuggito anche a chi si
lamenta che il federalismo fiscale rischia di essere un guazzabuglio
difficile da capire per gli stessi amministratori locali. Ebbene,
mentre la Cgil denunciava che le università italiane si vedranno
ridurre quest’anno i fondi statali di 839 milioni e i poveri
ricercatori restavano quasi all’asciutto, proprio nella riforma Gelmini
è spuntato un finanziamento nuovo di zecca: due milioni l’anno per
cinque anni. Totale, dieci milioni. Da destinare a uno scopo
decisamente particolare: spiegare ai dirigenti degli enti locali i
segreti del nostro futuro federalista. Ci credereste?
Quei soldi, c’è scritto nell’articolo 28, servono al ministro per
«concedere contributi per il finanziamento di iniziative di studio,
ricerca e formazione sviluppate da università » in collaborazione «con
le regioni e gli enti locali». Tutto ciò in vista «delle nuove
responsabilità connesse all’applicazione del federalismo fiscale».
Atenei, beninteso, non soltanto pubblici: potranno avere i quattrini
pure quelli privati, nonché «fondazioni tra università ed enti locali
anche appositamente costituite». E qui viene il bello. Perché dopo aver
stabilito questo principio, la legge dice che non ci potranno essere
più di due beneficiari, uno dei quali «avente sede nelle aree
dell’obiettivo uno». Cioè nelle regioni meridionali ancora considerate
sottosviluppate dall’Unione europea. Insomma, una norma fatta apposta
per distribuire un po’ di soldi a una università del Nord e a uno del
Sud. Le loro identità? La riforma Gelmini dice che a individuarle ci
penserà il ministero. Quanto al modo che verrà seguito, è del tutto
misterioso. L’articolo che istituisce il fondo prevede che «con decreto
del ministero, da emanarsi entro 120 giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge », cioè prima del 29 maggio prossimo, «sono
stabiliti i criteri e le modalità di attuazione delle presenti
disposizioni». Aggiungendo però che sempre con il medesimo decreto
«sono altresì individuati i soggetti destinatari». Perciò, se abbiamo
capito bene, il 29 maggio sapremo quali saranno i due soggetti pubblici
o privati scelti da Mariastella Gelmini, e perché. Senza una gara, né
un concorso pubblico. Fatto piuttosto singolare, visto che al Fondo per
la formazione e l’aggiornamento della dirigenza» possono accedere anche
istituzioni private. A meno che, circostanza assai probabile, non si
sappia già a chi devono andare i soldi.
Perché poi le università prescelte devono essere proprio due, di cui
una al Sud? Forse che per un amministratore di Agrigento è più facile
raggiungere, poniamo, Bari, anziché Roma? E per un sindaco friulano è
più agevole recarsi in una città del Nord, come magari Torino, invece
che nella capitale? Dove peraltro lo Stato già possiede proprie
strutture create appositamente (e appositamente finanziate) per formare
gli amministratori? Non esiste forse una meravigliosa scuola superiore
di pubblica amministrazione, che peraltro ha sedi anche a Caserta,
Acireale, Reggio Calabria e Bologna? E non disponiamo perfino di una
magnifica scuola superiore di economia e finanza, la ex Ezio Vanoni, in
teoria la struttura più idonea per dare lezioni di federalismo fiscale?
Perché chi deve istruire gli amministratori locali su quella riforma,
se non chi l’ha fatta? La verità è che questa storia emana un odore
molto simile a quello della vecchia vicenda della Scuola superiore
della magistratura, che Roberto Castelli aveva dislocato, oltre che a
Bergamo e Latina, pure a Catanzaro: sede che il successore del ministro
leghista, Clemente Mastella aveva poi dirottato nella sua Benevento.
Odore, dunque, decisamente politico. Anche bipartisan, come vedremo.
Imperscrutabile, infine, è il legame fra il ministero dell’Università e
il federalismo fiscale. A meno che la riforma Gelmini non sia stata
soltanto un pretesto. Lo ha sospettato, senza peli sulla lingua,
Pierfelice Zazzera. Quando il 23 novembre del 2010 l’emendamento
istitutivo di questo fondo per la formazione, recapitato all’improvviso
in aula dalla commissione Cultura della Camera presieduta dall’azzurra
Valentina Aprea, è stato messo ai voti, il deputato dipietrista ha
fatto mettere a verbale: «In un momento in cui non si trova la
copertura dei soldi previsti per i ricercatori, si trovano comunque due
milioni per fare corsi sul federalismo fiscale. Mi sa tanto di
lottizzazione politica dei finanziamenti o di qualche marchetta ».
Sfogo inutile. L’articolo che fa spendere dieci milioni per questa
curiosa iniziativa è passato con una maggioranza schiacciante grazie
anche ai voti del Partito democratico, che pure ha bombardato la
riforma Gelmini. È successo pochi giorni prima della clamorosa
bocciatura rifilata invece all’emendamento presentato da Bruno Tabacci
e Marco Calgaro che puntava a dirottare appena 20 milioni di euro dai
lauti rimborsi elettorali destinati alle casse dei partiti alle buste
paga dei ricercatori universitari. Anche in questo caso, con un aiutino
dal centrosinistra.
(di Sergio Rizzo da Il Corriere)
redazione@aetnanet.org