Sono 4885 i ricercatori
precari che lavorano nell'università di Bologna. È questo il risultato
del censimento condotto dalla rete bolognese dei ricercatori precari
sui dati aggiornati appena un mese fa ed è il primo tentativo di
costruire un'anagrafe dei precari nell'università italiana. Il dato
assume proporzioni abnormi se viene confrontato con i numeri dei
docenti che lavorano stabilmente in uno degli atenei più prestigiosi
del paese classificatosi al 176° posto della Academic Raking of World
Universities, al terzo nella classifica delle università «virtuose»
stilata dal Ministero guidato da Mariastella Gelmini che nel 2010 ha
erogato un finanziamento (Ffo) da 337 milioni di euro al quale è stata
aggiunta una «quota premiale» da 46 milioni (sommando varie voci). Tra
professori ordinari (796), associati (878) e ricercatori (1256,
comprensivi di quelli che lavorano nelle sedi dell'ateneo distaccate in
Romagna) a Bologna lavorano 2930 persone, 1955 in meno dei precari. La
sproporzione è dovuta al numero degli assegnisti di ricerca (1057), dei
dottorandi (1838) e dei docenti a contratto che insegnano in uno o più
corsi (1565, oltre a 69 che lavorano a titolo gratuito). A queste
persone bisogna aggiungere 270 tutor didattici, 340 docenti esterni,
oltre ad un certo numero di lettori di lingua straniera. Nell'unico
incontro tra il rettore dell'Alma Mater Ivano Dionigi e i ricercatori
precari avvenuto ormai mesi fa sembra che sia stata fatta una stima sul
totale dei rapporti di lavoro esistenti. Sarebbero all'incirca 14 mila,
contando anche i tecnici amministrativi (poco meno di 3 mila persone).
Il dato, superiore al totale delle figure che per tradizione lavorano
nell'università, raccoglie la somma di oltre una dozzina di tipologie
di contratti atipici, dal tempo determinato fino ai cococo. Il
censimento effettuato dalla rete dei precari bolognesi è dunque solo il
primo passo per gettare una luce sulla «zona grigia», sconosciuta agli
stessi amministratori dell'ateneo, composta da migliaia di figure
lavorative che vivono nell'invisibilità. «Finalmente possiamo
dimostrare che un pezzo consistente della didattica e della ricerca -
afferma Francesca Ruocco dei ricercatori precari della Flc-Cgil -
dipende da noi». Il futuro di queste persone, la maggior parte delle
quali svolge un'attività di ricerca da molti anni, è però appeso ad un
filo. La riforma Gelmini non riconosce al precariato storico
praticamente nulla. Una quota significativa ha fatto 1 anno di assegno
e poi docenze a contratto, o viceversa. Per chi invece ha 3 anni di
assegno toccherà prendere l'abilitazione nazionale e sfidare gli
attuali ricercatori nella guerra per un posto da prof associato. Per
migliaia di «giovani meritevoli» si annuncia invece una corsa ad
ostacoli che durerà anche 12 anni. Su tutti i concorrenti a questa
corsa sulla ruota della fortuna, chiamata anche «tenure track», grava
l'incognita del blocco del turn-over che non permetterà di sostituire i
docenti pensionati, mentre l'alto costo dei ricercatori a tempo
determinato (35 mila euro all'anno, all'incirca) restringerà il numero
dei posti banditi. A quel punto come funzionerà la più grande azienda
dell'Emilia Romagna?
(Da Il manifesto di Roberto Ciccarelli)
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