Massimo Cacciari
dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla
nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per
antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto
dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia
dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni
di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di
un popolo unito dalla lingua. È un'eccezione tutta italiana? E da cosa
nasce? «La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che,
sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò
affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni
pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò
poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua
di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più
fiorentino o toscano.
Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua
nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei.
Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il
veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di
una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete
finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al
latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della
Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò
limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di
unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della
scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a
convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali.
Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni
più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di
popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione
letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica.
Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a
Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a
giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza
dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono
mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai
ridotto. È un tema ricorrente». Quali sono le conseguenze di questa
storia «al contrario»? «Senza riferimento alla lingua nazionale la
stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse
non sarebbe nata». Il1861 quale tipo diPaese certificò, dal punto
di vista linguistico? «Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La
scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni.
L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle
classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente
l’italiano apparteneva al2,5% della popolazione. Un valoroso filologo
purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che
la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%». E 150 anni
dopo? «La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del
1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che
negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni
scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane
puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del
secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi
il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto
negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio
‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso
della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era
normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni
operaie e contadine e del Partito Socialista. I governi Giolitti
risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio
dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a
crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato
alla scuola. Mail processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi,
dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista. All’inizio del suo
camminola Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e
senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a
testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il64%di popolazione
consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era
usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i
toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20%o
poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone
come Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri
costituenti, che nel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolstico
gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la
scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni
settanta. La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e
le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e
madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni
settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in
questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte
dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli
ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di
pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di
quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa
propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della
popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta».
Nel gioco fra lingua e dialetti l'italiano è mai arrivato a essere
“lingua di popolo”? O è rimasto lingua d'élite? «Oggi l’italiano è
parlato dal94%della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6%
resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Mala percentuale
del94%va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano
anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in
alternanza con uno dei dialetti o (per il5%)delle lingue di minoranza.
Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non
fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una
volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli
strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella
vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che
dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un
grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore
comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio
recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso
responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94%
che pure l’italiano ormai lo parla». Dal 1954 in poi, l'italiano ce
l'ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano
linguistico e civile che effetti produce? «Sì, con le grandi migrazioni
interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce
giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire
l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla
pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano
sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e
diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i
ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un
qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è
calpestata senza ritegno». Cheeffetto fa al linguistauna Minetti
(laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Tidevobriffare”?
«Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per
campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate
». E che effetto ha fatto al linguista il Benigniche spiega l'Inno di
Mameli? «Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere
cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò
anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una
geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi
ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli
offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la
poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di
Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di
pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di
Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don
Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima
di tutto parole, parole, parole» (Intervista a Tullio De Mauro da
l'Unità di Maria Serena Palieri)
redazione@aetnanet.org