Perché le quote
se siamo brave? È la domanda che si fanno le giovani laureate con il
massimo dei voti, le professioniste affermate, le manager alla guida di
grandi aziende. Se le prime devono ancora trovare una risposta, le
altre, che ogni giorni provano a sfondare il tetto di cristallo,
l'hanno già trovata. Tanto è vero che
secondo un sondaggio l'80% delle manager italiane si dice a favore
della legge che introduce le quote di genere nei consigli di
amministrazione. Certo, con qualche sfumatura. Ci sono le
convinte della prima ora e le meritocratiche
pentite.
A tutte piacerebbe arrivare solo per merito, eppure se quel tetto di
cristallo non si sfonda diventa inevitabile un'affermative action che
rompa lo status quo. Un'azione positiva prevista dall'articolo 3 della
Costituzione e confermata da sentenze della Suprema Corte. E prevista a
livello europeo, dopo la risoluzione del 2010 che esortava gli stati
membri della Ue a «promuovere una presenza più equilibrata tra donne e
uomini nei posti di responsabilità delle imprese». Tanto è vero che in
Europa si sta andando in quella direzione: in Norvegia (2006), Spagna
(2007) e Francia (2011) le quote del 40% riservate al genere meno
rappresentato sono già una realtà. In Gran Bretagna il governo ha dato
mandato a un consulente di studiare le soluzioni per colmare il gap e
le quote sono un'ipotesi, così come in Germania se le aziende non
incrementeranno volontariamente il numero di donne nei cda.
Ma perché è tanto importante che le donne entrino nella stanza dei
bottoni? È solo una questione di potere? In realtà bisogna guardarla da
un altro punto di vista. Studi internazionali hanno dimostrato come la
presenza di donne nei cda migliora le performance delle aziende. Ora
uno studio di McKinsey-Cerved dimostra come sia vero anche in Italia.
Le società italiane, quotate e non quotate, con almeno il 20% di donne
nel top management hanno ottenuto nel triennio 2007-2009 una
redditività superiore a quelle che hanno meno del 20% di presenza
femminile: +9% a livello di redditività sul capitale (roe), +37% come
redditività sugli investimenti (roi) e +18% della redditività delle
attività aziendali (roa). Le performance sono addirittura migliori se
l'amministratore delegato della società è donna: +33% del roe rispetto
al totale del campione, +73% del roi e +31% del roa.
Vuol dire che le donne sono più brave degli uomini? Certamente no. La
squadra che ottiene i risultati migliori è quella che unisce un mix di
competenze, talenti ed esperienze. Tanto è vero che a livello europeo
il 90% dei top manager donna e il 62% degli uomini sono convinti che un
team di vertice con un numero significativo di donne riesce a produrre
migliori risultati economici. E gli investitori iniziano a prestare
attenzione anche a questa variabile come dimostrano gli studi degli
analisti di Société Générale, Credit Suisse e Goldman Sachs, che
indicano nelle società con una presenza femminile nel top management
quelle in cui investire in Borsa. In particolare in un report di SocGen
le società sono state divise in "Best in class women on board index" e
in "No women on board index" e i grandi gruppi italiani sono finiti
tutti nel secondo gruppo, quelli degli investimenti meno consigliati.
Certo la presenza di donne è solo una variabile e anche contenuta, ma
se inizia ad essere importante nella scelta degli investimenti, forse è
ora di porsi il problema e di riportare in Europa le aziende quotate
italiane. Non è un caso, infatti, se amministratori delegati di gruppi
importanti si sono schierati a favore delle quote di genere da Franco
Bernabé (Telecom Italia) a Fulvio Conti (Enel), da Corrado Passera
(Intesa Sanpaolo) a Federico Ghizzoni (Unicredit), da Rodolfo De
Benedetti (Cir) a Flavio Cattaneo (Terna).
Parafrasando Anna Maria Tarantola, Vice direttore generale della Banca
d'Italia, «con le quote non stiamo facendo un favore alle donne, ma al
Paese, che non può permettersi di avere il 50% dei talenti
inutilizzato». (di Monica D'Ascenzo
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