Sebbene esista da
pochi mesi, l’esperienza di Sprofessori, a nostro avviso, ha già
prodotto risultati non trascurabili, il più importante dei quali è,
senz’altro, quello della nostra maturazione personale. I momenti di
confronto che ci hanno portato alla costruzione delle iniziative
pubbliche, hanno modificato qualcosa nel nostro rapporto con il lavoro
che facciamo e, dunque, nel nostro rapporto con la vita (ci piaccia o
no l’una è influenzata dall’altro). L’approfondimento teorico, così
come il confronto tra diverse esperienze didattiche, ha senz’altro
aumentato la nostra consapevolezza dell’irriformabilità della
scuola.
Sempre più vediamo nell’autoritarismo l’essenza dell’istituzione
scolastica, piuttosto che una deviazione da quella che tanti
considerano una nobile funzione sociale. Sempre più ci appare chiara la
necessità di un cambio di prospettiva: accantonare il buonismo ipocrita
dei difensori dell’infanzia, in favore di una maggiore attenzione a
quelli che sono i nostri personali desideri e le nostre aspettative di
vita. Gli interessi di chi vuole una società libera dall’autorità,
coincidono con quelli dell’umanità, dunque anche con quelli dei
bambini. Come gli adulti, i bambini non hanno bisogno di sbirri,
giudici e preti. Smettiamo dunque di difendere quel surrogato di queste
tre ignobili professioni che è l’educatore: colui che si occupa dei
giovani rinchiudendoli (sbirro), valutandoli (giudice) e cercando di
inserirli ammansiti nella società (prete).
Se, fuori dalla scuola di stato, alcuni educatori riescono a sottrarsi
alle funzioni sbirresca e giudiziale, abolendo l’obbligo scolastico e i
voti, la funzione pretesca di inserimento sociale è legata
all’educatore in maniera ancor più indissolubile: basti pensare alle
terribili parole di Alexander Neil, fondatore di Summerhill, quando
sostiene che “per ben trentotto anni da questa scuola non è mai uscito
un omosessuale. Il motivo è che la libertà produce ragazzi sani”.
Sostituendo il valore della “Libertà” a quello di “Dio”, il mestiere
del prete resta inalterato.
Molti hanno scambiato il nostro attacco alla funzione docente con una
spocchiosa indifferenza verso i problemi di chi vuole imparare da
qualcun altro: questa confusione è dovuta al pregiudizio che per
insegnare qualcosa (specialmente ai più giovani) ci sia bisogno di
specialisti. Noi pensiamo invece che l’insegnamento sia un rapporto
umano che va costruito, con i piccoli come con i grandi, attraverso
umanità, fiducia e buon senso: tutte cose che non si apprendono né dai
libri, né tanto meno dalle scuole di specializzazione. Il semplice buon
senso suggerisce che, così come ci sono adulti che capiscono di fisica
nucleare ed altri a cui la lettura di “Topolino” provoca l’emicrania,
la stessa varietà di interessi e capacità è presente in ogni fascia di
età. Accantonato dunque il problema di “cosa è importante che imparino
un bambino o un adolescente?”, passiamo a chiederci “cosa abbiamo da
insegnare? Cosa vogliamo imparare? Cosa vale la pena studiare?”. Sono
queste le domande che vogliamo porre al centro della discussione,
scegliendo gli interlocutori sulla base degli interessi comuni, senza
restrizioni anagrafiche e al di fuori dei certificati cartacei
conseguiti. Ciò che abbiamo da insegnare coincide, per ognuno di noi,
con le proprie passioni o abilità: può essere la matematica, come una
lingua straniera; il disegno, come la poesia; la cucina come la musica.
Chi crede che alcune di queste cose siano indispensabili per tutti,
pensi a quanti esempi conosce di persone che abbiano imparato l’inglese
o la matematica, frequentando la scuola. Su cosa vogliamo imparare e
cosa vale la pena studiare abbozziamo, invece, una risposta comune:
vogliamo imparare ad essere padroni della nostra vita; dunque vogliamo
studiare i mezzi per sabotare questo sistema sociale che ci impedisce
di esserlo.
È dunque sulla base di un bisogno egoistico che abbiamo iniziato ad
occuparci di scuola, cercando di affrontare il tema con lucidità: non è
stato facile essendo il mito di quest’istituzione talmente potente da
essersi insinuato nelle coscienze di ciascuno di noi. Sin dall’inizio
dei nostri incontri, i problemi sollevati dalla discussione ci hanno
più volte precipitato nella contraddizione, non solo di chi sputa nel
piatto in cui mangia, ma anche in quella di chi critica senza avere
nulla di meglio da proporre e, in definitiva, conclude di trovarsi nel
migliore dei mondi possibili. Questa contraddizione nasce dai cedimenti
che spesso abbiamo e dalla pigrizia di lasciare tutto così com’è: di
appigli per pensare che, in fondo, potrebbe pure andare peggio ce ne
sono a bizzeffe. Il fatto che il dibattito che abbiamo avviato faccia
ogni tanto dei “passi indietro” nella direzione dell’accomodamento con
l’esistente lo abbiamo sperimentato tanto nei nostri incontri, quanto
nell’assemblea pubblica del 21 gennaio. Significa, semplicemente, che
abbiamo ancora molto da capire e che venendo ai nostri incontri in
attesa di una lezione su come rivoltare la miseria scolastica, si
resterà delusi. Non abbiamo ricette da proporre, ma possiamo
individuare un semplice e ricorrente ragionamento come un ostacolo da
superare: “in una società e in una scuola schifose, anche un barlume di
coscienza critica è già tanto”. Semplice, ma sbagliato: capire che c’è
un problema non equivale a risolverlo. Provarci è già qualcosa: capire
che l’insegnante dai modi autoritari è un nemico va bene; meglio ancora
però sarebbe trovare il modo per sottrarre tutti noi tanto alla sua
autorità quanto a quella del professore alternativo, di sinistra,
liberale o magari anarchico. A nostro avviso questo percorso passa per
la creazione di luoghi di apprendimento lontani dalla scuola di stato.
I due testi pubblicati di seguito sono, appunto, un tentativo di
chiarire le ragioni della nostra sfiducia verso la possibilità di
“cambiare la scuola dall’interno”. Si tratta di risolvere l’inquietante
interrogativo posto da John Taylor Gatto: e se non ci fosse alcun
problema con le nostre scuole? E se esse fossero come sono, così
costosamente contraddicenti il senso comune e una lunga esperienza nel
modo in cui i bambini imparano le cose, non perché stiano facendo
qualcosa di sbagliato, ma perché stanno facendo quel che devono?
[...]Lo scopo… è semplicemente ridurre quanti più individui possibile
allo stesso livello di sicurezza, per alimentare ed addestrare una
cittadinanza standardizzata, per reprimere il dissenso e l’originalità.
Questo è lo scopo negli Stati Uniti… ed è lo scopo in ogni altro posto.
Sono parole importanti per chi lamenta l’ “arretratezza “ degli
insegnanti italiani rispetto alle moderne teorie psico-pedagogiche
d’oltreoceano: Gatto ci mostra come queste “recenti” teorie liberatrici
risalgano all’inizio del secolo scorso ed abbiano prodotto un paio di
guerre mondiali, una psichiatrizzazione di massa e una società
completamente militarizzata. Lo scritto di Gatto evidenzia come simili
risultati siano il prodotto di una pianificazione delle più autorevoli
menti che il sistema capitalistico abbia a disposizione: l’esempio di
James Bryant Conant, direttore dell’università di Harvard coinvolto nel
Progetto Manhattan, dovrebbe far riflettere chi attribuisce i problemi
della scuola a qualche forma di incompetenza politica. Perfettamente
corrispondente alle esigenze della politica è, invece, il modello
scolastico descritto da Conant nel suo The Child, the parent and the
State e, dallo stesso Conant, fatto risalire all’inizio del secolo
scorso. Sin da quei tempi gli interessi dello Stato coincidevano con
quelli di imprenditori come Andrew Carnegie e John D. Rockefeller. Cosa
è dunque cambiato? Probabilmente non molto, a parte il fatto che oggi
gli industriali hanno bisogno meno di operai e più di consumatori. È il
tema che cerca di affrontare il secondo scritto, estratto dal mensile
anarchico “La miccia”. In esso viene descritta una riunione svoltasi al
Fairmont Hotel di San Francisco nel 1995 in cui venne pianificata la
società 20,80: un 20% della popolazione a produrre, il restante 80%
addormentato dalla pubblicità. Proporzioni che appaiono addirittura
ottimiste se si dà uno sguardo al seguente scambio di battute tra David
Packard, fondatore del gigante high-tech Hewlett-Packard, e John Gage,
top manager presso la Sun Microsystems, avvenuto durante la riunione di
San Francisco.
Packard: Quanti impiegati ti servono davvero, John?
Gage: Sei, forse otto. Senza quelli saremmo spacciati. Va detto però
che è indifferente in quale paese della Terra abitino.
Packard: E quante persone lavorano attualmente per la Sun Systems?
Gage: Sedicimila. A parte un’esigua minoranza sono la nostra riserva di
razionalizzazione.
Appare chiaro, da questo breve scambio di battute, quale sia il
problema dei cosiddetti lavoratori precari (e chi non lo è?): essi sono
semplicemente superflui per il sistema di produzione. È lo stesso
problema degli studenti a cui, ormai, gli insegnanti più intelligenti
hanno, non a caso, una sola richiesta da fare: “Basta che non dai
fastidio”. Una richiesta in cui è manifesto tutto il deterioramento
della scuola che, se prima produceva operai sottomessi, adesso serve a
creare consumatori addormentati. Per quanto possa intristire, l’operaio
sottomesso è pur sempre un adulto, responsabile delle proprie azioni.
Il consumatore, invece, come giustamente osserva Gatto, è un bambino e
come tale va trattato. D’altro canto è facile fare di un bambino o di
un adulto infantilizzato, un docile consumatore. Rompere il circolo
vizioso significa smettere di trattare gli altri come bambini, oltre ad
opporsi al fatto che altri lo facciano con noi. Non sapere cosa si
vuole, cosa c’è da imparare, né come affermarsi nella vita, non è un
problema di una specifica fascia anagrafica, ma di tutti gli individui
immersi in un sistema sociale che li considera “riserva di
razionalizzazione”. Ci sentiamo dunque di apportare una modifica alla
bella frase con cui Gatto termina il suo scritto: Dopo una lunga vita,
e trent’anni nelle trincee della scuola pubblica, ho concluso che il
genio è comune come lo sporco. Sopprimiamo il nostro genio solo perché
non ci siamo ancora immaginati come gestire una popolazione di uomini e
donne educati. La soluzione, penso, è semplice e gloriosa. Lasciare che
si gestiscano da soli.
Per deformazione professionale egli non riesce ad usare il plurale alla
prima persona per troppo tempo e lascia intendere che dall’alto della
sua autorità lascerebbe fare qualcosa a qualcun altro: noi
sostituiremmo la frase “Lasciare che si gestiscano da soli” con
“Cerchiamo il modo e impariamo a gestirci da soli”. (da
http://sprofessori.noblogs.org/)
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