Anche la Sicilia, in
passato, è stata terra d’emigrazione. Anche se spesso viene
dimenticato. Ed in quest’epoca di profonde trasformazioni sociali e di
grandi movimenti migratori internazionali, dove le coste della nostra
isola, quasi ogni giorno, vengono prese d’assalto da bastimenti carichi
di povera gente in cerca di lavoro e di futuro, sarebbe interessante
conoscere l’odissea dei nostri nonni. Considerata, pochi decenni fa,
come valvola di sfogo contro la disoccupazione e come un’amara
necessità per alleggerire il carico demografico dell’isola e della sua
miseria e povertà, oggi, invece, l’emigrazione viene giudicata come un
depauperamento del patrimonio demografico e una perdita di preziose
risorse umane e di energie per la Sicilia.
L’emigrazione extra isolana, storicamente, si è svolta principalmente
lungo quattro direttrici:
quella interna, verso le altre regioni italiane (Piemonte, Lombardia,
Liguria);
quella verso la Comunità Europea (Germania, Francia, Paesi Bassi);
quella verso i paesi del bacino mediterraneo (Libia, Marocco);
quella transoceanica verso l’America (Stati Uniti, Canada, Argentina,
Brasile).
Prima del 1861 l’emigrazione in Sicilia era legata più a motivazioni di
carattere politico – religioso che a moventi di natura economico –
sociale. Il fenomeno dell’emigrazione assunse una rilevanza sociale
soltanto dopo la formazione del Regno d’Italia.
Infatti, disattese le riforme economiche e le speranze di uno sviluppo
ordinato dell’intera nazione, si cominciò a parlare in maniera sempre
crescente, soprattutto nel meridione, di emigrazione, tanto da indurre
il ministro dell’Interno, nel 1873 e nel 1876, ad emanare delle
disposizioni atte ad arginare ed a contrastare il fenomeno.
Fu in quegli anni che le forze politiche presero coscienza del problema
assurgendolo a questione nazionale. Intanto la prima rilevazione
statistica ufficiale del 1876 evidenziava un dato pressoché stabile
sino al 1881, con soli 1228 emigrati siciliani per anno.
Gli anni successivi fanno registrare dei sensibili rialzi, toccando nel
1898 la cifra di 25.579 emigranti, una quantità modesta, comunque,
rispetto alle 108.807 unità del resto d’Italia.
In realtà la Sicilia fu tra le ultime regioni ad essere trascinata nel
vortice crescente del movimento migratorio nazionale. Il grande esodo
dei siciliani cominciò, infatti, agli inizi del ‘900 e fino al 1914 si
contarono ben 1.139.185 persone emigrate, raggiungendo, negli anni
1905, 1906 e 1913, le cifre record, rispettivamente di 106.208, 127.603
e 146.061 emigranti.
Azzerato il fenomeno durante la guerra 1915-1918, per evidenti motivi
bellici, nell’immediato dopoguerra l’esodo verso gli Stati Uniti
riprese con ritmo analogo al periodo prebellico, per arrestarsi quasi
del tutto nel ventennio fascista, un risultato conseguito dalla
politica del regime fascista che, evidentemente, scoraggiava gli
espatri.
Nell’immediato dopoguerra e, soprattutto, nel periodo 1951-1961,
caratterizzato dalla poderosa espansione industriale del nord, il
cosiddetto “miracolo italiano”, il movimento migratorio subisce un
grande impulso, raggiungendo 400.000 emigranti, di cui 180.000 si
trasferiscono all’estero e ben 220.000 raggiungono l’Italia
settentrionale (Piemonte, Lombardia, Liguria).
Diversamente dal passato, l’emigrazione interna assume un ruolo
preponderante rispetto ai flussi transoceanici.
Dal 1961 al 1971 la Sicilia mostra ancora una forte tendenza
all’espatrio, registrando un saldo negativo di ben 520.384 persone. Dal
1975 il flusso migratorio si attenua notevolmente, facendo registrare
nel decennio successivo (1975-1985) un saldo positivo di 7.157 unità.
Risulta evidente che gli eventi economici internazionali (crisi
energetica), che hanno scosso i paesi occidentali dal 1975 in poi,
hanno determinato un certo flusso di ritorno da parte degli immigrati
verso i paesi d’origine.
A causare, inoltre, questa chiara inversione di tendenza verso le
nostre regioni, sono stati sia i siciliani rientrati dall’estero che,
soprattutto, a partire dalla metà dagli anni ’80, la nuova ondata di
immigrati stranieri provenienti dalle regioni del Nord Africa e del Sud
– Est asiatico.
In questo modo, la Sicilia, da terra d’emigrazione si è trasformata in
zona attrattiva per intere popolazioni in cerca di una nuova vita.
D’altra parte, i siciliani, che hanno raggiunto, rispetto al passato,
una ragguardevole posizione economica ed un buon tenore di vita, non
sono più disposti a sobbarcarsi determinati lavori pesanti (mozzo nei
pescherecci, sorvegliante di gregge, collaboratori domestici, badanti,
manovali, braccianti), favorendo così l’immissione di migliaia di
lavoratori provenienti dalle zone più depresse del Terzo Mondo.
Di conseguenza coloro che lasciano la Sicilia non sono più contadini e
muratori, come negli anni 60 – 70, ma giovani laureati che cercano un
lavoro qualificante (ingegneri, medici, insegnanti), privando l’isola,
in misura massiccia, dell’intellighenzia e della propria classe
dirigente.
Questa continuo “salasso” di professionisti, determina un pericoloso
processo di impoverimento di una terra, peraltro, già provata da
decenni di malgoverno e di abbandono e produce gravi contraccolpi
economici, sociali e politici non facilmente decifrabili, che sono la
prima emergenza da risolvere della “questione meridionale”.
E anche noi docenti precari e…”terroni” siamo nel novero degli
emigranti in cerca di lavoro e di speranza.
Una “dolce diaspora” in attesa del ruolo e di tempi migliori... Ma il
nostro cuore abita in Sicilia.
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it