“Com’è umano, lei!” è
una battuta tormentone pronunciata da Giandomenico Fracchia, la
maschera buffa e surreale inventata da Paolo Villaggio, che lo
interpretò per la prima volta nel 1968 nel programma televisivo Quelli
della Domenica. Il timido Fracchia è imparentato con il personaggio
tragicomico più famoso ideato da Villaggio, il rag. Ugo Fantozzi,
protagonista di una fortunata serie cinematografica e letteraria
(in origine Fantozzi era il protagonista di un racconto umoristico
scritto nel 1971 da Villaggio).
Fracchia è l’antesignano involontario di una situazione che, attraverso
la finzione letteraria e cinematografica, anticipa e precorre una
vicenda reale e paradossale insieme, impietosa e drammatica, per la
serie “la realtà supera la fantasia”. Fracchia è l’espressione patetica
e grottesca dell’Italia di oggi, una società che diventa sempre più
assurda e mostruosa, crudele e disumana oltre ogni limite accettabile.
Nella fattispecie, la “belva umana” è un sindaco leghista che ha
minacciato di far licenziare le maestre della Scuola dell'Infanzia di
Fossalta di Piave, un piccolo comune in provincia di Venezia. Le
insegnanti sono “colpevoli” di un gesto di elementare solidarietà umana
nei confronti di una bimba africana di quattro anni, i cui genitori, a
causa delle ristrettezze economiche, non potevano permettersi di pagare
il servizio della refezione scolastica. Per risolvere il problema le
maestre avevano deciso di rinunciare a turno al pasto a cui ciascun
insegnante ha diritto durante la pausa mensa, per cederlo all’alunna.
Ma l’intervento del sindaco, infuriato per l’atto di generosità
(indubbiamente lodevole) compiuto dalle maestre, ha indotto la
direttrice ad emanare un ordine di servizio nei loro confronti in base
ad una lettera stilata dal primo cittadino in cui, fra le altre cose,
si legge: “Si sottolinea che il personale non può cedere il proprio
pasto senza incorrere in un danno erariale per il comune di Fossalta di
Piave”.
Così, mentre la Gelmini e i funzionari ministeriali gareggiano per
dispensare consigli e impartire circolari, sorgono casi di ordinaria
ferocia come quello raccontato. Inoltre, s’inaspriscono pregiudizi e
rancori suscitati da velenose campagne ideologiche sugli “insegnanti
fannulloni”, per cui nascono accuse che diffamano il corpo docente, già
mortificato da tempo, una categoria professionale chiamata ad assolvere
il compito delicato di formare i cittadini del futuro, per cui
meriterebbe molto più rispetto.
D’altronde, le campagne demagogiche sul presunto "parassitismo" degli
insegnanti e dei lavoratori statali in genere non sono affatto una
novità. Esse servono soprattutto a coprire interessi affaristici. Gli
emolumenti salariali assegnati agli insegnanti italiani sono i più
bassi in Europa dopo quelli dei colleghi greci e portoghesi. E il
governo si ostina a tagliare le risorse, arrecando danni irreversibili
al già misero bilancio destinato alla scuola pubblica, dirottando i
soldi altrove: alle banche e alle grandi imprese, oppure si pensi agli
investimenti militari e ai massicci contributi regalati alle scuole
private.
A commento della vicenda sopra descritta vale l’assunto racchiuso in
Lettera a una professoressa, il manifesto programmatico della Scuola di
Barbiana di don Milani: "Non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far
parti uguali fra disuguali". Un principio che invoca una concezione
antiborghese della democrazia. La nostra è una scuola di disuguali
inserita in una società sempre più ingiusta, laddove dure
contraddizioni e sperequazioni materiali e sociali sono destinate ad
aggravarsi. Dinanzi a disuguaglianze crescenti ed allarmanti situazioni
di disagio legate alle nuove povertà generate dai fenomeni migratori,
la nostra scuola non è attrezzata adeguatamente per fronteggiare tali
emergenze anzitutto per ragioni di ordine finanziario. Ogni azione è
affidata alla buona volontà, alla generosità, alle capacità,
all’ammirevole zelo spontaneo (altro che fannulloni!) degli insegnanti,
all'iniziativa autonoma delle istituzioni scolastiche e dei lavoratori
delle scuole pubbliche, ormai abbandonate completamente a se stesse.
La stessa "democrazia" non può risolversi in un'offerta, oltretutto
insufficiente, di "pari opportunità", riducendosi ad una proposta di
uniformità distributiva delle risorse, così come avviene nelle società
che hanno applicato un modello di welfare universalistico e
indifferenziato. Occorre piuttosto rilanciare l’attenzione verso
un’ipotesi di giustizia redistributiva del reddito sociale, intesa in
termini di equità sociale e redistribuzione delle ricchezze che sono
possibili solo in un altro assetto statale e sociale, in grado di
fornire "a ciascuno secondo i propri bisogni" e chiedere ad ognuno
"secondo le proprie possibilità". Il che significa ribaltare
l'ordinamento sociale vigente, capovolgendo l'idea e la prassi finora
applicata e conosciuta di democrazia, di scuola e di stato sociale.
Lucio Garofalo
redazione@aetnanet.org