La
disaffezione nei confronti della memoria identifica lo spirito di
un’epoca che, abdicando al proprio destino, ha eletto il divertimento,
cioè la distrazione, a stile di vita collettivo. Ci si potrebbe
chiedere, perciò, se ancora convenga percorrere la strada opposta,
almeno in talune circostanze. A scuola, per esempio.
Che a scuola ci si possa divertire, è un fatto, da cui, tuttavia, non è
lecito desumere che tale sia - della scuola - la funzione primaria. La
scuola serve infatti a educare, ossia a trasmettere una grammatica - un
repertorio di conoscenze stabili, principi oggettivi, criteri di
giudizio universali -, che permetta, poi, di riconoscere le evenienze
della vita, dando loro un nome, e un valore. Il valore della memoria
consiste, da questo angolo d’osservazione, nella memoria dei valori:
nella progressiva presa di coscienza di quei paradigmi e canoni
(evidenze ed esigenze) che definiscono la natura originale dell’uomo, e
quindi rendono possibile un ethos condiviso.
Ci siamo abituati invece a delegare l’esercizio della memoria prima ai
dizionari, alle enciclopedie, ai manuali, poi - sempre più - ai
dispostivi elettronici, tanto capienti ed efficaci. Perché dedicare
tempo ed energie per ricordare ciò che può essere archiviato in un
magazzino senza limiti, e perciò, dunque, senza senso e senza identità?
Mi sono sentito spesso rivolgere la domanda dai miei studenti: a che
cosa serve tenere a mente nomi, date, trame di romanzi, versi di
poesie, personaggi e dialoghi? A che cosa serve ricordare le parole di
Amleto e Orazio a Elsinore, o il lamento di Tancredi per la morte di
Clorinda? Come Arsenio e Dora Markus possono farci compagnia?
Condivido l’idea che simili esperienze “di carta” meritino di essere
imparate perché mettono il cuore al riparo da una percezione opaca e
riduttiva, volgare e semplificata della realtà e della vita. Tali
incontri sono un pungolo per la ragione, che viene stimolata
all’immaginazione e allo stupore, al di là di ogni pregiudizio o
ideologia. Ricordare le parole e le storie degli altri spalanca la
capacità affettiva dell’uomo, irrobustendone lo sguardo: garantisce una
prospettiva adeguata alla ricchezza e complessità dell’esistenza. La
registrazione (il sostantivo è di Henry James) dei desideri palpitanti
attraverso, per esempio, la poesia greca equivale a una perpetua
testimonianza. Continua a risuonare come un invito.
Oggi siamo abituati a considerare la memoria letteraria un optional:
qualche cosa di ancillare e non competitivo rispetto ai dati, per lo
più di tipo politico, economico e giuridico, che si devono ricordare.
Forse è anche un modo per espungerne la portata sovversiva: le parole
di Dante e Leopardi, infatti, le vicende del Rinascimento o del
Risorgimento possiedono una forza che obbliga il ricordo a evolversi in
azione, in interrogazione su sé e sul proprio destino.
Non è più tanto o solo questione di imparare a memoria A Zacinto o La
cavalla storna. Il problema è che l’impazienza e la distrazione
scolastiche producono inesperienza della vita. Leggere e ricordare un
libro (una storia di carta: I promessi sposi, per esempio) è,
all’opposto, un’occasione formativa: fornisce modelli, schemi di
classificazione, paradigmi di bellezza, che consentono di interpretare
il futuro. Ricordare le avventure di Ulisse, l’Azzeccagarbugli
manzoniano o I demoni di Dostoevskij non è una fuga dalla realtà: al
contrario, offre i termini di confronto per cui la realtà attuale si
disvela nella sua urgenza e profondità.
Quante volte il ricordo del Castello di Kafka ha permesso di
riconoscere la cifra autentica di una situazione presente? Come non
sentire che la parabola del signor Ryder (protagonista del romanzo Gli
inconsolabili di Ishiguro) intimamente ci riguarda, così che, grazie a
essa, non dimentichiamo il bisogno di salvezza e conforto da cui è
tramato il nostro labirintico mondo, vertiginosamente carente d’amore?
Tutti potrebbero augurarsi quel che Primo Levi bramava, recitando a
memoria Dante al compagno di prigionia. «Forse ha ricevuto il
messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in
travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo
ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle».
Osare è il verbo chiave: osare ricordare Petrarca o Ariosto, Manzoni o
Pascoli, perché le loro parole e i loro gesti sono indispensabili al
nostro bisogno attuale di significato, al nostro desiderio di dare un
nome e un volto al reale.
L’incontro, che la memoria assicura, si risolve in esperienza di
rigenerazione. Qualcosa - dice Levi - di umano e necessario, che ci
consente di intuire «il perché del nostro destino, del nostro essere
qui oggi». In tale chiave la memoria del passato non lascia la sfida
del nichilismo senza una risposta. Lo ha spiegato molto bene il
filosofo Richard Rorty: le grandi opere letterarie hanno la forza di
«far credere alla gente che questa vita vale più di quanto abbiamo mai
immaginato». (di Uberto Motta da Il Sussidiario)
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