“ Ma non è da credere che in sé questa esperienza del mito
sia un privilegio dei poeti e, a un grado più
discosto, dei pensatori.
E’ un bene universalmente umano, è la religione che
sopravvive
anche nei cuori più squallidi e più meschini, i quali sarebbero
ben stupiti se qualcuno gli spiegasse che dentro di loro è un
germe
che potrebbe diventare una favola. E’- occorre dirlo ?- la
condizione
su cui si fonda la universalità e la necessità della poesia”.
( C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi. Einaudi,1962 )
La poesia non è mai storia in atto, ma è storia di un mito; un mito che
nel momento in cui fluisce diventa allegoria della parola, metafora del
sentimento reale e delle parole, trasfigurazione.
Il senso reale si è perduto nella poesia, e se noi volessimo
spiegarcela, altrimenti non potremmo che come sogno.
E’ difficile dire quale posto occupi la poesia di Cesare Pavese nella
prima metà del Novecento. Difficile non tanto perché l’uomo abbia amato
poco parlare di sé, quanto perché, è sembrato, che il letterato abbia
ingrandito la sua “ pena d’uomo “ sino a farne un mito. E nel mito è
stato arduo sceverare sino a che punto la realtà si sia mescolata con
la mistificazione, o il sentimento con la sua forma patologica.
La difficoltà però non dovrebbe sussistere e non dovrebbe inficiare
l’impressione di coerenza e di verità umana che pure si ricava dalla
lettura di Lavorare stanca, ove si pensi che Pavese ha pagato di
persona i suoi miti, cioè, in definitiva, i suoi squilibri di uomo e di
artista incapace di inserirsi nell’attualità della esperienza
quotidiana; e saremmo fin troppo parziali se, intenti solo a cercare la
patogenesi nevrotica del suo suicidio, non lo inverassimo con la
esperienza dolorosa della sua impotenza di uomo a possedere le cose.
Una esperienza vissuta giorno dopo giorno nella solitudine
agghiacciante del proprio io, padrone solo del proprio corpo :
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
Delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusio di silenzio.
…Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente Padrone.
( Mania di Solitudine ).
Allora, il suicidio, fuor di ogni gesto gratuito, ci parrà l’ultima
parola di Pavese che esprime qualcosa in tanta nullità di vita, e
la donna se non proprio la sola causa, certo l’ispiratrice più
immediata e più costante dei suoi pensieri suicidi: “ Non ci si uccide
per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore,
ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
Pavese cercherà inutilmente di colmare tanto vuoto nella sua
vita; l’incontro mancato con la donna inciderà profondamente sul suo
fisico e sulla sua sensibilità.
Negato all’azione e all’impegno politico militante neppure l’isolamento
del confino riuscirà a dargli quell’equilibrio interiore che è saldezza
morale nata dal raccoglimento e dalla meditazione delle proprie
sventure. Nell’isolamento del confino – scrive Lajolo – Pavese non
aveva saputo darsi nessuna dieta morale. Al contrario accettava tutte
le tentazioni autolesionistiche, senza opporre resistenza e
sopravvivendo soltanto nella speranza di ritrovare quella donna e nel
successo delle sue poesie.
Ma la donna “ dalla voce rauca” non ritornerà più nella vita di Pavese
se non solo attraverso il ricordo, il sogno, le allucinazioni; essa
sarà l’oggetto mitizzato dalla poesia attraverso la quale la miseria
dell’uomo diventa la grandezza dell’artista, e questo non perché l’arte
ha trasfigurato quella miseria, ma, al contrario, perché ce l’ha resa
comprensibile. La pena d’uomo è fatta mito, ma questo è la sostanza
stessa dell’uomo.
Nasce così la liricità oggettiva di Lavorare stanca e il suo
realismo simbolico : la donna, la collina, e la città, l’io e le cose
nel momento in cui ci sembra di poterli afferrare ci sfuggono :
l’unicità del fatto e delle sue circostanze rende il mito fuori del
tempo, e la poesia a-temporale e a-spaziale :
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole : una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo in questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri
dalla breve finestra è svanito come
svanirà in un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.
( Mattino)
Qui veramente il mito è antecedente della poesia, e questa nella sua
immobilità si fa mitica. Quella donna che il poeta ha “ creata dal
fondo di tutte le cose “ che gli sono più care e che l’uomo non è mai
riuscito a comprendere, nella vastità abbacinante della luce mattinale
ha un volto su cui non esiste più nessun ricordo; è la vaga memoria di
un tempo che è “ al di là dai ricordi” ( La Notte ).
Questo processo di allontanamento della donna nella sfera del ricordo
presuppone un’ardua operazione di autoanalisi ; un ritorno, non
casuale, né meramente sentimentale, alla inesauribile matrice
dell’infanzia :
Mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. E’ come il mattino: Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo : la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.
L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
( Incontro )
Oppure si legga la Notte :
...
Per la vuota finestra
il bambino guardava la notte sui colli
freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati :
vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
che stormivano al buio, apparivano i colli
dove tutte le cose del giorno, le coste
e le piante e le vigne, eran nitide e morte
e la vita era un’altra, di vento, di cielo
e di foglie e di nulla. Talvolta ritorna
nell’immobile calma del giorno il ricordo
di quel vivere assorto, nella luce stupita.
E si leggano ancora : Un ricordo, Mattino, Notturno.
Anche qui è “l’infanzia a decidere”; la natura mitica del paesaggio si
anima di misteriose corrispondenze e diventa fantasticamente quel tempo
baudelairiano “ où de vivants piliers laissent parfois sortir de
confuses paroles; ecc.ecc. ( Corrispondences).
Sembrerebbe che il problema dell’oggettivazione, della resa realistica
e insieme simbolica dell’oggetto, sia sfumato nelle forme
dell’indefinito video-sensoriale, e che, in definitiva, Pavese abbia
accettato la identificazione del mito con la memoria
dell’infanzia poetica. Ma è un’accettazione che in sede di poetica non
può durare, perché Pavese sa che l’infanzia poetica è soltanto una
fantasia dell’età matura; e che lo stato innocenziale, una volta
perduto, è impossibile ritrovarlo. In realtà – dice egli stesso- è
impossibile ritrovare ( ri-creare ) le cose come ci apparvero la
prima volta; in quanto “ ricordo” esse cominciano ad esistere solo da
una “ seconda volta”. “ La poesia è altra cosa. In essa si sa di
inventare, ciò che non accade nel concepire mitico…L’ingenuità della
barbarie per cui la poesia è conoscenza oggettiva, non ritorna una
volta violata. Il miracolo dell’infanzia è presto sommerso nella
conoscenza del reale e permane soltanto come inconsapevole forma del
nostro fantasticare, continuamente disfatta dalla coscienza che ne
prendiamo…La poesia cerca sovente di rinverginarsi, ricorrendo alle
memorie dell’infanzia…ricalca le forme del mito e del simbolo, sperando
che in esse torni a battere magicamente il cuore. Ma dimentica che essa
sa di inventare, e che il mito vive invece di fede…”. (1)
Si chiarisce così la posizione psicologica di Pavese di fronte al mito,
e per conseguenza di fronte alla poesia “espressione corposa del
mito “.
La poesia come contenuto spirituale mitico trova sì la sua costruzione
oggettiva, ma al tempo stesso il suo limite nella poesia come fattura e
linguaggio. Ecco il processo dialettico e la ambivalenza del mondo
poetico di Pavese. Egli stesso scrive : “ Far poesia significa portare
ad evidenza e compiutezza fantastica un germe mitico. Ma
significa anche, dando una corposa figura a questo germe, ridurlo a
materia contemplativa, staccarlo dalla materna penombra della memoria,
e in definitiva abituarsi a non crederci più, come a un mistero che non
è più tale”. (2)
C’è dunque nel mito pavesiano, nell’atto di tradursi in poesia,
la disperazione e insieme la lucida coscienza di essere ridotto solo
alla sua sostanza umana; tutto sembra non poter vivere che nella
miseria angustiosa dei “ limiti” della “persona”. Si capisce allora
perché in Pavese il problema della oggettivazione del rapporto
fantastico diventa arduo e quasi impossibile, e perché, anche, spesso
accanto al mito della donna si confonde il mito del sesso in cui
trasuda la sensualità malata dell’uomo ora-qui.
Ed è questo, a mio avviso, che distacca la poesia di Pavese dalla
mitica sensualità trasumanante di D’Annunzio e che l’avvicina semmai
,mutatis mutandis , a quella di
Baudelaire.
Nel poeta francese, il mito della donna, forgiato ad immagine della
malattia sessuale dell’uomo, diventa una terribile arma di vendetta, e
questa, non dominata, sfocia nel più crudo realismo simbolico :
Toi qui, comme un coup de couteau,
dans mon coeur plaintif es entrée;
toi qui, forte comme un tropeau
de démons vins, folle et parée,
de mon esprit humilié
faire ton lit et ton domaine;
- infame à qui je suis lié
comme le forçat à la chaine,
comme au jeu le jouer tetu,
comme à la bouteille l’ivrogne
comme aux vermines la carogne,
maudite, maudite sois-tu!
………………………………….
………………………………..
( Le Vampire )
La donna diventa forza demoniaca ammaliatrice, vizio che ubriaca e
fiacca le membra, maledetta schiavitù, vampiro!
Così in Pavese.Tutti gli accoppiamenti, diremo meglio, i rapporti
fantastici diventano possibili in questa trasfigurazione, e per essa (
trasfigurazione) è possibile che la donna diventi una cagna che “ come
tutte le cagne non voleva saperne/ ma ci aveva l’istinto” ( L’istinto ).
Nel mito dannunziano, la carne aperta ad ogni
sensazione si annullava sino al suo indiamento ( si legga
Meriggio); ma a questo miracolo trasumanante Pavese non crede più,
perché il mito “vive di fede” e questa era irrimediabilmente perduta.
Il fallimento del mito è il fallimento dell’uomo.
NUCCIO PALUMBO
Note:
1) C.Pavese, La letteratura americana e altri saggi. Einaudi, 1962.
2) ibidem
Cesare Pavese , Le poesie ,ed.
Einaudi1998
Postato il Giovedì, 13 gennaio 2011 ore 12:00:43 CET di Nuccio Palumbo |
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