Per una volta tanto
siamo d’accordo con quanto afferma il ministro del Welfare Maurizio
Sacconi, secondo il quale, in Italia, la disoccupazione deriva anche
dal disequilibrio fra ciò che il mercato richiede in termini di
manodopera e istruzione acquisita dai giovani. In altri termini,
abbiamo troppi diplomati al liceo e pochi all’istruzione tecnica e
professionale.
Un fenomeno peraltro sconosciuto nella maggior parte dei Paesi
industrializzati, come la Germania, dove le scuole tecniche e
professionali sono il fiore all’occhiello non solo dell’istruzione
pubblica ma anche dell’industria, che finanzia con canali privilegiati
corsi e istituti.
Da cosa deriva questa caratteristica solo italiana? Da una serie di
fattori concomitanti, il principale dei quali è senza dubbio
l’influenza avuta sulla cultura italiana da Benedetto Croce e da
Giovanni Gentile. Quest’ultimo, come noto, fu autore della famosa
riforma del 1923, che si fondava sulla divisione neo-idealista fra
“lavoro intellettuale” e “lavoro manuale”: il primo doveva considerarsi
come effetto dello studio ginnasiale e poi liceale, quindi appannaggio
dell’élite scolare, destinata ad occupare professioni e lavoro
autonomo, mentre il secondo doveva interessare il ceto operaio e,
tutt’al più impiegatizio. Faceva da corollario alla struttura
scolastica così definita l’avviamento professionale, l’ultimo canale
per i ceti più poveri, tre anni di apprendistato scolastico dove
l’alunno sarebbe stato dichiaratamente preparato per i lavori più umili.
Questa nefasta e divisoria subordinazione al censo dell’istruzione
pubblica è rimasta pressoché intatta fino a giorni nostri. Già Antonio
Gramsci deprecava il fatto che “la riforma Gentile ha il grave torto di
separare la scienza dalla tecnica, il lavoro intellettuale da quello
manuale”, mentre il più grande studioso tedesco di fenomeni sociali ed
economici, Max Weber, proprio in quegli anni, portava alle stampe
“Economia e società”, il suo testo fondamentale in cui spiegava
compiutamente come il destino delle moderne società industriali si
fonda essenzialmente sulle “competenze tecniche” e su un intreccio
complesso fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, dove molto spesso
è la loro sintesi a prevalere nel modo di produzione capitalistico.
La tesi di Weber ha influenzato fortemente il sistema scolastico
tedesco, facendo dell’istruzione tecnica il perno cruciale della
produzione industriale e delle competenze produttive dei giovani. Al
contrario, nel nostro Paese permane tuttora l’idea fallace di Benedetto
Croce (ripresa da Giovanni Gentile) secondo cui la base dell’istruzione
di eccellenza non possa che passare attraverso lo studio delle lingue
classiche e della letteratura (latina, greca e italiana, con scarso
peso, per giunta, di quella straniera), insomma delle competenze
linguistiche, per poi trovare una necessaria specializzazione in ambito
universitario.
Il risultato italiano è quanto mai contraddittorio in termini di
domanda di competenze da parte del mercato. Complessivamente, il 38%
dei diplomati italiani (dati 2008) consegue un titolo di studio
tecnico, contro il 33% dei liceali. Ciò significa che un terzo esatto
delle competenze culturali acquisite dagli studenti italiani risiede
nell’istruzione liceale, di tipo umanistico-linguistico, assai poco
spendibile sul mercato del lavoro senza una laurea. Se consideriamo il
fatto che la popolazione con la laurea oggi in Italia non supera l’11%
del totale, possiamo concludere come, la maggior parte di coloro che
conseguono, ad esempio, un diploma di liceo classico, non otterranno
una laurea e si presenteranno sul mercato del lavoro senza alcuna
competenza specifica di tipo tecnico, anche se forse se la caveranno
meglio in una non richiesta traduzione dal greco o dal latino.
Secondo una ricerca di “Almalaurea” del 2008, “la presenza di diplomati
con genitori in possesso di titoli di studio elevati è massima fra i
diplomati classici, scientifici e linguistici, si riduce fra i tecnici
ed è minima fra i professionali” . Ciò significa che, a differenza di
quanto accade nei principali Paesi industrializzati, il genitore
laureato non manderà mai suo figlio in un istituto tecnico perché vedrà
in lui solamente un futuro medico, avvocato, ingegnere, architetto,
anche se si tratta di professioni oramai sul filo del collasso, basti
pensare agli avvocati, il cui numero degli iscritto al solo Foro romano
è superiore a quelli di tutta la Francia.
Tutto ciò nel momento in cui il mercato richiede tecnici informatici
per l’industria, esperti contabili (anche con solo diploma), meccanici
e elettronici, per non parlare di quelle competenze in campo operaio in
industrie di precisione, quindi con forte specializzazione settoriale,
che oggi sono in grado molto spesso di offrire un reddito stabile al
neo-assunto.
Insomma, sembra evidente che, in una società declinante come quella
italiana, ancora nessuno abbia pensato di utilizzare il paradigma di
Max Weber, ritenendo superiore l’alternativa umanistica offerta da
Benedetto Croce (“Poesia e non poesia”) e mirando a fare dei giovani,
avvocati o medici che finiranno per trascorrere la maggior parte del
loro tempo a disputarsi clienti e pazienti.
(da http://www.dazebaonews.it)
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