La riforma non
risolve il dilemma fra autonomia e controllo centrale. Disegna un
quadro poco convincente di governance alternativo a quello attuale.
Aumenta la precarietà dei ricercatori costringendoli a emigrare
Dopo anni di torpore troppo segnati da un'accondiscendenza rassegnata e
talora opportunistica a una politica universitaria confusa,
contraddittoria e sempre più avara di risorse, un gran numero di
docenti, ricercatori e studenti universitari stanno manifestando con
forza la loro contrarietà al disegno di legge. E come dar loro torto? Il provvedimento che il governo intende
adottare presenta molti punti deboli e sembra destinato a generare
nuovi problemi più che a risolvere quelli, pure non trascurabili, che
già affliggono la nostra università.
Tre esempi.
Primo, la riforma non risolve
il dilemma fra autonomia e controllo centrale. Da anni si sostiene la
necessità di il valore legale dei titoli di studio (necessità resa più
forte dalla recente proliferazione di università private, per il
riconoscimento legale delle quali occorrerebbe essere adeguatamente
severi) e di attribuire ampia autonomia alle università, per poi
premiare i comportamenti virtuosi attribuendo agli atenei "buoni"
maggiori fondi. Il DDL Gelmini non tocca il valore legale delle lauree
e, per fare qualche passo in direzione della premialità, impone un
corposo incremento delle attività di controllo da parte del Ministero
dell'istruzione, dell'università e della ricerca e del Ministero
dell'economia e delle finanze, demandando peraltro la definizione delle
modalità di detto controllo a decreti attuativi successivi (così come
per molte altre materie).
Secondo, la riforma disegna un
quadro poco convincente di governance alternativo a quello attuale, nel
quale il problema dell'autoreferenzialità dei docenti sarebbe risolto
con un rafforzamento dei poteri del rettore (peraltro, e non a caso,
unica carica non soggetta a decadenza con l'approvazione della
riforma), un significativo ampliamento della quota di consiglieri di
amministrazione esterni all'università, scelti "tra personalità
italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo
gestionale ovvero di un'esperienza professionale di alto livello" e con
la nomina di un direttore generale (il solito manager) dotato "delle
più alte competenze".
Ma come si può essere sicuri che il rimedio proposto al problema di
agenzia che deriva dall'autogoverno dei professori non sia peggiore del
male? Perché il super-rettore dovrebbe essere meno incline a curare i
propri interessi? Considerato che, data l'esiguità delle risorse, i
compensi di rettori, consiglieri e manager dovranno essere
necessariamente modesti, chi andrà a gestire le università? Quali
saranno gli incentivi di costoro? Non ci ritroveremo i soliti politici
e amici dei politici (come nelle ASL, per intenderci)?
Terzo esempio, probabilmente il
più importante: la tenure track. La riforma si occupa di ridefinire lo
stato del ricercatore, conformemente al modello anglosassone e di altri
paesi, che tipicamente prevede per la figura del ricercatore rapporti a
tempo determinato, rinnovabili fino al raggiungimento della tenure
(tempo indeterminato), con l'intento di ridurre gli spazi per le
rendite offerte dal "posto sicuro" ai fannulloni (che peraltro, a
nostra conoscenza, non sono certo più numerosi tra i ricercatori che
tra i professori ordinari e associati).
Non è certo la flessibilità del contratto a tempo determinato il
problema. La maggior parte dei ricercatori italiani già ora affronta
periodi anche lunghi di "precarietà" dopo la laurea e il dottorato,
accettando anche di emigrare temporaneamente o permanentemente con
contratti di ricerca a tempo determinato. L'aspetto critico è la
scarsità e l'incertezza delle risorse disponibili per le carriere
future dei giovani ricercatori. La riforma allunga inevitabilmente i
tempi della tenure, subordinandola sì al merito (almeno in teoria) ma
anche alla disponibilità di risorse "secondo criteri di piena
sostenibilità finanziaria".
Le cattive condizioni della finanza pubblica italiana, la poca
sensibilità della politica verso le necessità e il disagio della
ricerca, lo scarso spessore di un "mercato" interno per gli abilitati
non chiamati dai propri atenei mette in dubbio l'opportunità di questa
misura. Con uno stipendio che rimane quello dell'attuale ricercatore a
tempo indeterminato, il maggior rischio introdotto dalla riforma rende,
in particolare per i più giovani, ancor meno attraente la carriera del
ricercatore e relativamente più remunerativa un'occupazione alternativa
o l'emigrazione verso paesi che offrono migliori condizioni e maggiore
soddisfazione, con probabili gravi conseguenze non solo sull'università
italiana ma anche sull'economia e la società.
(da www.rassegna.it di Annamaria Nifo, Domenico Scalera)
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