Non è il futuro, ma il
presente, eppure la scuola italiana è immersa nel passato: con il
direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto abbiamo parlato di
tecnologie dell’informazione e della comunicazione
di Giovanni Belfiori (da Pd)
Andrea Gavosto è direttore Fondazione
Giovanni Agnelli, istituto indipendente di cultura e di ricerca nel
campo delle scienze umane e sociali, fondata nel 1966 dalla Fiat e
dall'IFI, che negli ultimi anni ha scelto di concentrare le proprie
attività di ricerca sui temi dell’education.
Nel Rapporto 2010 sulla scuola in Italia, la Fondazione Giovanni
Agnelli dedica un’ampia analisi al divario digitale, alla differenza
che esiste fra l’uso delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (ICT) nella vita quotidiana e nelle aule scolastiche.
Eppure un divario di tecnologia c’è sempre stato: guardando agli anni
passati, possiamo citare i laboratori di scienze spesso mal forniti o
con attrezzature vetuste, oppure la mancanza di proiettori per
diapositive o di proiettori, l’assenza di apparecchiature come stereo,
lettori cd fotografici o audio, tutte tecnologie che erano già di largo
utilizzo in famiglia o sul lavoro. Perché, allora, dare tanta
importanza oggi alle ICT?
Una prima risposta semplice a una domanda così complessa è che
un certo ritardo della scuola rispetto all’evoluzione tecnologica e
culturale della società è comprensibile e in qualche misura
fisiologico: in fondo, storicamente uno dei compiti della scuola è di
trasmettere il canone dei saperi, che non sempre, anzi raramente,
corrisponde alla frontiera dell’innovazione. Tuttavia, quando questo
ritardo tende a diventare eccessivamente ampio e cronico allora è
legittimo preoccuparsi. Tale è la situazione di oggi della scuola, in
particolare della scuola italiana. Di qui discende una seconda risposta
che ha a che fare con la pervasività della presenza delle ICT e di
Internet in ogni ambito della vita associata, dal lavoro, al tempo
libero, a ogni altra relazione umana, privata e pubblica. E’ infatti
necessario domandarsi se sia auspicabile mantenere inalterato il
distacco culturale e direi quasi fisico che i ragazzi di oggi – in
misura presumibilmente maggiore di ieri - percepiscono fra l’aula
scolastica e gli altri luoghi sociali in cui agiscono ora e,
soprattutto, agiranno da adulti: i secondi pieni di ICT, la prima quasi
sempre totalmente priva? E, proseguendo: è davvero possibile escludere
che vi siano impieghi didatticamente intelligenti delle ICT tali da
dare un contributo al miglioramento degli apprendimenti e prima ancora
catturare l’attenzione e l’interesse sempre piuttosto ondivaghi dei
giovani? Secondo me la risposta è no. E allora si hanno ragioni
sufficienti per dare importanza alle ICT a scuola, che, naturalmente,
non vuol dire solo preoccuparsi della loro presenza fisica, ma vuol
dire invece pensare e progettare la loro integrazione con la buona
didattica. Perché avere tanti PC e connessioni superveloci di per sé
non vuol dire ancora niente, se questi non sono al servizio
dell’interazione fra gli studenti e il docente, che resta assolutamente
centrale e anzi vede la sua funzione diventare più complessa, delicata
e fondamentale. Così come imparare a navigare veloci e sicuri su
Internet (ciò che peraltro i ragazzi sanno in genere fare
indipendentemente dalla scuola) non vuol dire ancora niente, se non si
possiedono sufficienti abilità critiche per selezionare, vagliare e
organizzare proficuamente le enormi quantità di informazione che la
rete mette a disposizione. Questo va detto chiaramente ed è suggerito
da tutta la ricerca: il ritardo della scuola, e non solo di quella
italiana, non è un ritardo tecnologico in senso stretto, sebbene in
alcune circostanze le dotazioni restino ancora carenti. E’ un ritardo
pedagogico e di pratiche didattiche. Molti studi, fra l’altro, ci
dicono che non esiste ancora una chiara evidenza a livello
internazionale dei benefici dell’uso delle ICT per il miglioramento
degli studenti. E’ una questione che va ponderata con attenzione e
senza pregiudizi, in un senso o nell’altro. Tuttavia, sono convinto che
questo risultato un po’ sconfortante si possa in larga misura spiegare
proprio con l’ancora insufficiente integrazione delle ICT con la
didattica.
I giovani nati negli anni Novanta, sono definiti ‘nativi digitali’.
Nonostante alcuni studiosi neghino l’esistenza di una ‘net generation’
o discutano su quale anno di nascita debba far da spartiacque fra la
‘generazione analogica’ e quella ‘digitale’, è possibile immaginare che
di fronte a modelli cognitivi diversi, sia necessario un sistema di
istruzione completamente diverso da quello che abbiamo?
I modelli e gli stili cognitivi dei ragazzi di oggi stanno sicuramente
cambiando, ma sono comunque cambiamenti che vanno misurati e
interpretati su archi di tempo lunghi, generazionali. Inoltre, non
credo che la scuola sia il luogo più adatto alle rivoluzioni, anche
perché nella storia raramente è stata l’epicentro delle rivoluzioni.
Personalmente, quanto meno nell’arco temporale (non lunghissimo) su cui
è possibile fare previsioni, vedo bene un incontro di nuovo e vecchio.
L’integrazione delle ICT con la didattica è destinata a portare
notevoli trasformazioni negli ambienti di apprendimento, dal punto di
vista sia fisico (gli spazi della scuola, a partire dall’aula
tradizionale), sia organizzativo (il concetto di classe), sia
relazionale (la forma della lezione e, in generale, l’interazione fra
docente e allievi), sia infine sistemico (il rapporto fra istruzione
formale e formazione continua). E, d’altra parte, ci sono aspetti della
buona scuola tradizionale che vanno conservati e semmai rinforzati,
anche per produrre i giusti anticorpi a un uso superficiale e ingenuo
delle ICT.
Il divario digitale fra insegnanti e studenti è così grande? E’
colmabile in qualche modo?
Le ricerche – e gli stessi insegnanti - ci dicono che le competenze
digitali e l’apertura culturale a una didattica aiutata dalle ICT non
sono adeguate e sufficientemente diffuse nel nostro corpo docente. Per
i nostri insegnanti c’è un evidente problema generazionale, che non
riguarda solo la familiarità con le nuove tecnologie: nella scuola
italiana praticamente non esiste l’insegnante under30. Questo ha
probabilmente effetti su tutta la qualità dell’insegnamento, sulla loro
capacità di interessare e interagire con gli studenti. Le soluzioni
sono quelle note: per gli attuali docenti c’è un problema di offerta di
formazione in servizio, che, per restare al tema delle ICT, non vuol
dire in primo luogo la formazione a questa o a quella tecnologia,
magari fra pochi anni già obsoleta. Esiste un problema di cultura
digitale, ma soprattutto - lo ripeto - esiste un problema generale e
cronico di scarsa attitudine dei nostri docenti a modificare e adattare
i propri stili didattici, aggravato dall’assenza di incentivi di
carriera e di retribuzione legati alla qualità del loro lavoro. E, poi,
bisogna assumere insegnanti giovani, rendere la carriera
dell’insegnamento di nuovo appetibile per i migliori neolaureati. In
questi mesi si stanno mettendo le basi di un nuovo sistema di
formazione iniziale, che almeno nelle intenzioni sottolinea
l’importanza delle competenze digitali del docente. Ma è ancora tutto
da definire nei contenuti, ricordando sempre che non ci servono docenti
‘smanettoni’, ma docenti didatticamente consapevoli delle risorse
offerte dalle ICT e dalla rete.
Se non ci sono risorse per assumere i precari, se non ci sono soldi per
la gestione quotidiana delle attività scolastiche, come possiamo
ritenere fattibile una scuola dove ogni alunno abbia un netbook?
Ammesso che un netbook per ogni studente sia la soluzione adeguata ad
affrontare i problemi del ritardo digitale della scuola (personalmente
lo ritengo un obiettivo sensato da perseguire in questa fase, ma non è
di sicuro la panacea), credo che la questione delle dotazioni
tecnologiche non possa essere vista come un meccanico incremento dei
costi dell’istruzione per lo Stato e per le famiglie, qualcosa che va
semplicemente a sommarsi alle altre voci di costo, in un periodo di
risorse scarse: ad esempio, le nuove tecnologie stanno cambiando anche
la natura dei libri di testo, che costituiscono tradizionalmente una
voce di costo importante. L’evoluzione digitale può portare a una
riduzione dei costi di questi ultimi, liberando risorse. La condizione
affinché questo possa avvenire, tuttavia, è che ci sia una ‘visione’
del problema da parte tanto del Ministero quanto delle case editrici e
delle aziende informatiche, ciascuno nei rispettivi ruoli ed interessi.
Al momento, questa visione non sembra esserci. Ciò detto, in un momento
di inevitabile contenimento delle risorse pubbliche sono più
preoccupato per gli effetti che possono derivarne per lo sviluppo dei
contenuti digitali e la formazione degli insegnanti. Ancora una volta,
il problema non è la quantità di hardware, ma la qualità della
didattica, che è il vero “software” della scuola. Se c’è qualcosa da
investire, è da investire lì.
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