Attenzione, questo
non è il solito pezzo, pezzetto o ciuffo, ciuffetto e ciuffettino sui
ragazzi e quanto son belli quando sfilano in centro e chiedono quel che
non hanno e a volte nemmeno sanno cos’è; questa non è la ripetizione
ciclica e infinita di uno scontento né, come asserisce qualche
ministro, di una finzione scenica, di una buffonata isterica, di un
trovar colpe perché non si hanno ragioni. Questa è rabbia,
indignazione, voglia di piangere, questa è smettila di giocare a
nasconderti e far finta di niente, signora Italia che non hai saputo e
non sai insegnare ai tuoi figli cos’è la cultura, cos’è il futuro.
E allora oggi mi guardo indietro: ho vissuto (sprecato) quarant’anni
d’insegnamento per farmi irridere, sbeffeggiare, abbattere su valori
che contano l’attimo di una cicala accecata nel meriggio?
Non c’è, non esiste, non ci sarà mai in una civiltà che voglia
chiamarsi tale, niente di più grande, alto, invalicabile
dell’educazione. Gli uomini possono morire e la sanità è una gran
bella cosa. Ma più di tanto non si può. Gli uomini possono invecchiare.
E la pensione è una grande cosa. Ma più di tanto non si può. E devono,
possono lavorare: ma non si parte da zero; è la cultura che dà diritto
e un senso al lavoro.
Cos’è la cultura? Santo Iddio è quel che dà un senso a quel che
facciamo.
Il primo grande fondamento che ci dobbiamo mettere in testa noi
insegnanti, noi educatori, noi genitori è quello di dare un senso, non
immagini, grafici, guadagni, interessi, poteri, successi ma senso,
significato ascritto del dolore che proviamo, della felicità che ci
viene a meno e del perché.
In questa baraonda infinita che è la scuola italiana (e chi non l’ha
vissuta non sa quanto) mischiamo programmi inutili e professori tristi,
regole invalicabili e terrori professionali, menefreghismi difensivi e
fughe, compromessi, spaventi. Ma soprattutto tensioni al giudizio, al
poter essere per un attimo nella vita, noi insegnanti, gli uomini del
destino, perché nella vita e nella famiglia non lo siamo, perché la
legge è legge, e poi, come nel bellissimo film di Jalongo, c’è la
partita e non possiamo perdere tempo.
Ho visto La scuola è finita. L’ho trovato vero, arido, tremendo, ma
vero.
La scuola è finita è uno dei più bei film che siano usciti in questi
anni. Scrivo con rabbia, dispiacere e orgoglio, perché so che sarà
ritirato da quasi tutte le parti, perché non fa cassetta, perché fa
male, perché non è in linea.
Da quel che ho letto sulle recensioni, io che a scuola ci sono da
quarant’anni, mi par d’aver capito che come al solito quel che fa male
va escluso. Fa male La scuola è finita?, non credo. È La scuola è
finita un’immagine della scuola d’oggi? Non credo nemmeno a questo. Non
tutte le scuole sono così, è ovvio, ma il segnale, il segno, il dramma,
sono evidenti ed è vero.
Perché?
Perché la colpa è larga, lontana, alta, fuori dalla gente, fuori da
noi; perché la colpa è dello Stato, dell’educazione politica,
dell’insicurezza sociale e personale dove l’amore comunque sia e in
qualsiasi forma, dalla dolcezza di una insegnante al sogno musicale di
un’insegnante perde. C’è in questo splendido film non tanto l’accusa
per quel che succede nelle scuole (pasticche e altro sono metafore di
un’incontentabilità), ma la mancanza di un padre (che il protagonista
non ha): di un padre vero, di una regola, di un senso di vivere,
straordinaria positività del tenersi sul terrazzo della scuola senza
buttarsi giù. Forse i soloni che han voluto giudicare Jalongo come un
distruttore non han capito un emerito c... di questo bisogno d’amore
del protagonista e della sua diversità così attinente a un sogno che
non ha nemmeno il coraggio di esprimere a se stesso. Ringrazio Jalongo,
che conosco poco, per questa violenza della verità. Questo volevo dire
e l’ho detto (Di Roberto Vecchioni da Flc-Cgil)
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