Procede per come è realmente: semplicemente berlusconiana e figlia
della sua epoca. Ossessionata come il suo pigmaglione politico dalle
‘forze rosse’, invoca il mito del cambiamento a tutti i costi, quello
retorico e roboante dei nuovisti e riformisti che circolano di questi
tempi. E non riesce a capire, la Gelmini, che il cambiamento non è in
se stesso un ideale e un valore, perché la sua positività dipende dal
cosa esso comporta. Politica superficiale che teme il merito del
dibattito, che si ferma allo slogan e non valica la soglia della
materia viva del confronto. Quindi sono da spazzare via tutti coloro
che dal di dentro si spingono al cuore della questione, contestando
come il suo piano di riforma dell’istruzione (ormai quasi ex pubblica)
non sia una rivoluzione ma una restaurazione, cioè il ritorno ad una
formazione elitaria, con cui viene sacrificato il pubblico a vantaggio
dei privati, con cui muore il sapere critico per il conformismo
nozionistico, quello rilanciato dalla tv commerciale.
Una riforma fatta con le forbici già nella manovra economica estiva:
1miliardo e 350milioni in meno all’università, 8 miliardi in meno alla
scuola, 140mila insegnanti licenziati e via elencando. E nonostante
questo, il piano di distruzione ha trovato uno scoglio nei conti del
ministro dell’Economia. Così un provvedimento celebrato come fiore
all’occhiello di questo governo si arena davanti alla calcolatrice di
Tremonti: non ci sono soldi per sostenere l’emendamento che prevedeva
per 9mila ricercatori universitari la trasformazione, spalmata in sei
anni, in professori associati. Servivano 1miliardo e 700mila euro,
Tremonti ne mette a disposizione solo 7/800 mila. La discussione alla
Camera è stata rinviata dopo la sessione di bilancio e magari alla fine
i soldi per coprire tale scempio verranno magari trovati. L’esecutivo
comunque se ne frega della scuola e dell’università, perchè investire
in questi settori gli appare come gettare il denaro alle ortiche:
l’esatto contrario di ciò che farebbe un paese normale in epoca di
crisi, l’esatto contrario di ciò che fa l’Europa in tempo di crisi.
Nell’Ue il nostro è il governo che meno ha investito in formazione e
istruzione, nella ricerca arriva allo 0,8%.
L’Italia dei valori ha proposto una sua riforma, che abbia le sue
stelle polari nel merito e nell’accesso formativo a tutti. Nella scuola
primaria, attuazione del tempo pieno con ripristino dell’insegnamento
modulare. Nella secondaria, attenzione alle discipline che consentono
di dotare le giovani generazioni della capacità critica (le materie
umanistiche e quant’altro) per evitare la massificazione dei cervelli
utili al consumismo dominante. Numero di alunni massimo per classi di
24, 20 in presenza di un diversamente abile a cui deve essere garantito
un insegnante di sostegno. Innalzamento dell’obbligo scolastico a 18
anni (incluso anche l’ultimo anno di asilo), a differenza di quanto
proposto dal governo sull’apprendistato a 15 anni. Lingue (almeno due)
e informatica fin dalla scuola primaria, introduzione nelle medie
inferiori, con potenziamento nelle superiori, di un’area
tecnico-pratica e artistico-musicale, con laboratori artigianali e
artistici. A questo, si devono accompagnare le misure indicate dagli
stessi sindacati come indispensabili nel settore dell’università:
garantire le risorse umane fermate dal blocco del turn-over; bloccare
il proliferare dei contratti atipici, prevedendo un percorso di
stabilizzazione che abbia per l’accesso un solo tipo di contratto:
quello a tempo determinato; attuare marcia indietro sull’abolizione del
ruolo del ricercatore; stop alla riforma del meccanismo concorsuale per
i docenti, con l’abilitazione nazionale seguita dalla chiamata delle
singole sedi, perché favorisce baronie e clientele. Anche sulla
governance si deve prevedere un cambiamento: il ddl concede eccessivo
potere ai rettori a danno del Senato accademico, cioè ad un organismo
collegiale che anzi dovrebbe veder certa la partecipazione di tutte le
componenti universitarie (dai docenti ai dottorandi fino ai tecnici e
gli studenti). Centrale, infine, evitare la trasformazione delle
università in fondazioni con “esterni” nel cda degli atenei, che
piegano gli atenei stessi alle logiche di mercato (che non vuol dire
chiudere le università allo scambio con il mondo del lavoro e col
territorio). C’è, poi, un tema che va affrontato definitivamente: il
costo universitario. Lavorare per un reddito di cittadinanza a sostegno
del diritto allo studio, rinforzare l’edilizia che ospita gli studenti,
promuovere convenzioni nei trasporti e calmierare i prezzi di affitto
delle case per i fuorisede sono obiettivi degni di un paese non solo
democratico, ma moderno che crede nel futuro.