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Spesa pubblica: L'Italia è più povera, la scuola anche

Opinioni
"L'Italia è più povera. E' quanto afferma la Caritas nel suo Rapporto annuale sulla povertà e l'esclusione sociale insieme alla Fondazione Zancan intitolato: "In caduta libera".
"Non e' vero che siamo meno poveri, come gli ultimi dati ufficiali sulla povertà (luglio 2010) farebbero pensare". I poveri sono 8 milioni e 370 mila nel 2009 (+3,7%) contro i 7 milioni e 810 mila, stabili sul 2008 secondo Istat.
Accanto ai poveri "ufficiali" ci sono anche le persone "impoverite" che, pur non essendo povere, vivono in una situazione di forte fragilità economica e che hanno dovuto modificare, in modo anche sostanziale, il proprio tenore di vita, privandosi di una serie di beni e di servizi, precedentemente ritenuti necessari." Questa è la notizia, questo è il fatto.
E' ovvio che questa informazione solleciti riflessioni "politiche" di diversa natura e specie; è altresì ovvio che per la Gelmini queste riflessioni siano fatte dagli specialisti accreditati quali i politici e i giornalisti, non certo dagli insegnanti, che devono solo andare in classe e non "fare politica", né tanto meno permettersi di criticare il governo o esprimere le loro opinioni. Ma c'é da chiedersi: l'informazione che in Italia cresce la povertà e che questa risucchia ceti finora ritenuti al sicuro dalla congiuntura economica significa qualcosa, ha attinenza con il mondo della scuola, con le problematiche dei bambini e delle giovani generazioni, con le problematiche familiari che sono dietro, con la condizione degli insegnanti e con lo stato della scuola?
E' "fare politica" da parte degli insegnanti preoccuparsi degli effetti devastanti che può avere, e in molti casi lo ha, sui bambini il fatto che i loro genitori non possono più permettersi di pagare la mensa a scuola? O comprare penne, matite, qualche volta anche la carta igienica?
E' "fare politica" preoccuparsi dell'adolescenza inquieta così sensibile e spesso reattiva a condizioni familiari e sociali che contrappongono così violentemente il piano della realtà (cassa integrazione, licenziamenti, precarietà e precarizzazione, impoverimento ecc.) e piano delle illusioni e dei miti che vengono loro propinati attraverso i media (culto del corpo e sua mercificazione, il paradigma ricchezza = felicità, partecipazione affollata ai concorsi per fare le veline o partecipare a programmi televisivi, ecc.)?
E' "fare politica" preoccuparsi della ricaduta sui giovani delle tragedie del lavoro che si abbattono sulle proprie famiglie e del loro dilemma fondamentale che li vede partecipi impotenti di una condizione lacerante e drammatica per cui da un lato c'è una scuola che non porta da nessuna parte, dall'altra c'è la "nessuna parte", il vuoto lavorativo e occupazionale, il buio pesto come prospettiva di vita. Le tanto invocate "motivazioni" allo studio da dove devono provenire, se intorno, e poi anche dentro di essi, c'è il deserto?
Preoccuparsi di tutto ciò da parte degli insegnanti non è, cara ministra, "fare politica", come dice e ridice sempre lei nella speranza che ripetendo e ripetendosi lei stessa si convinca sempre di più, e per gli altri le cose dette diventino, o appaiano, vere solo per il fatto che sono da lei ripetute.
Preoccuparsi dell'impoverimento progressivo della società è del tutto pertinente con il puro esercizio della professione docente, perché è con questi bambini/ragazzi/giovani in carne e ossa, è con le loro famiglie e con i drammi che sempre più sono dietro e dentro di esse che gli insegnanti devono avere a che fare quotidianamente. Non è sociologismo, non è pedagogismo, è semplicemente essere nella realtà delle situazioni concrete del lavoro quotidiano, dove si ha a che fare con esseri umani, non con cognizioni astratte. Dove l'apprendimento è divenuto (ma lo è sempre stato) un'operazione complessa, e dove insegnare è divenuto (ma lo è sempre stato) ancora più complesso.
In questa situazione oggettiva anche la ministra può capire che insegnare oggi, qui ed ora, è divenuto molto più difficile, molto più problematico e richiede grandi sforzi da parte di tutti, se si ha a cuore la situazione della scuola, che si identifica con la situazione del Paese. Occorre "investire" sulla scuola perché il suo contributo alla ripresa del Paese è fondamentale, strategico. Altrimenti alla forte e drammatica criticità del presente si aggiungerà il buio di un futuro senza speranza.
Sostenere che in queste condizioni è sbagliato sottrarre risorse alla formazione, istruzione, ricerca è "fare politica"? E' gettare discredito sull'amministrazione ("Il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell'immagine dell'amministrazione" dal "Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" ) invocare più risorse, più strumenti, e quindi più investimenti per la scuola da parte dei docenti? E chi censurerebbe un chirurgo che lamenta la mancanza di strumenti per operare, di assistenti, medici e personale per il reparto? Chi lo accuserebbe di "fare politica" e di gettare discredito sull'amministrazione?
L'insegnante che lamenta le condizioni soggettive e oggettive in cui è chiamato ad operare va ascoltato, va apprezzato, perché vuol dire che tiene alla propria professione e vuole svolgerla nel modo più proficuo per tutti, per se stesso, per i propri alunni, per le famiglie e per la società nel suo complesso.
L'impoverimento ("In caduta libera") del nostro Paese c'entra e come con la professione dell'insegnare, c'entra non solo "politicamente", ma tecnicamente. C'entra col capire da dove provengono i comportamenti degli alunni, tutto ciò che li "anima", li preoccupa, e impedisce loro di dispiegare pienamente le loro intelligenze, di apprendere, essere motivati ad imparare, di imparare ad imparare. Per capire i condizionamenti sempre più invasivi e, purtroppo, spesso devastanti cui sono assoggettati in un mondo che sempre più dimentica i bambini/ragazzi/giovani. Per capire il rapporto che c'è tra queste condizioni e la crescente diffusione di vere e proprie patologie dell'apprendimento come la dislessia, la disfasia, la discalculia, il disagio psicologico, le difficoltà dell'apprendimento in generale. Tutti fenomeni rispetto ai quali è assolutamente inadeguato, superficiale e sbagliato rispondere con slogan e frasi da bar sport come "occorre più severità", "basta col buonismo", "basta col pedagogese" e amenità di questa tipo.
L'insegnante va sostenuto, aiutato, incoraggiato, apprezzato non offeso, accusato, disprezzato, considerato fannullone, incompetente. Deve essere messo in una situazione di tranquillità sociale, economica e richiamato all'interno di un circuito di formazione permanente e permanente approfondimento dei fondamenti del proprio insegnamento, con la conapevolezza e l'onestà intellettuale che occorre nel risonoscere che oggi, qui ed ora, non sono sufficienti più (ammesso che lo siano mai stati) le competenze disciplinari e nemmeno quelle di tipo classicamente metodologico-didattico. Ne occorrono di sempre più nuove per vincere la sfida della modernità. Altro che le giaculatorie sul "merito" con cui ci gratifica sempre la ministra. Il suo "merito" si configura come un'arma di "distrazione di massa" dai problemi drammaticamente veri e impellenti della nostra scuola, è né più né meno che uno slogan, uno spot pubblicitario usato come arma di "persuasione di massa", una piccola foglia di fico con la quale coprire la grande vergogna dei tagli.
Il merito vero, depurato dalle incrostazioni ideologiche e considerato il più alto traguardo possibile nella incessante corsa e fatica per l'apprendimento e la conquista di competenze che gli alunni, tutti gli alunni, devono essere messi in condizioni di raggiungere, va tolto dal breviario politico dei politicanti e rimesso là dove tecnicamente gli compete: nella situazione didattica e negli ambienti di apprendimento sempre più ricchi, attrezzati, stimolanti, sotto l'ombra benevola e la tutela della Costituzione.
Lo stato di povertà non è solo una condizione economica di deprivazione di mezzi e beni che consentano una vita dignitosa, è anche, e diviene sempre più, una condizione di deprivazione culturale, di frustrazione per le abissali discriminazioni, distanze sociali, disuguaglianze, disagio profondo che investono e condizionano la persona nel suo intimo più profondo. Gli insegnanti vivono tutto ciò sulla loro pelle professionale e umana. Occuparsi di tutto ciò è fare il proprio mestiere.
Ancor più fare il proprio mestiere è reclamare più investimenti per la scuola pubblica, più risorse, più strumenti, un clima di maggiore rispetto per coloro che ci lavorano dentro e per la professione che svolgono.
Non si esce dalla crisi e dai fenomeni di impoverimento progressivo della società con una scuola più povera e bistrattata, ma con la valorizzazione delle risorse, a cominciare da quella umana.
E la scuola può dire e dare molto su questo terreno, se c'è un governo capace di capire ciò.








Postato il Sabato, 16 ottobre 2010 ore 11:00:00 CEST di Pasquale Almirante
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