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Consorzio: Libertà ed educazione.

Redazione
Ci sono cose al mondo che spesso si crede di conoscere benissimo;cose che si ritengono assodate, naturali, persino banali nella loro comune lapalissiana chiarezza. Diremo, con Shaskespeare, che “ ci sono più cose tra il cielo e la terra che tutta la nostra filosofia”.
Una di queste è l’idea della libertà; eppure se provassimo a chiedere a chiunque una sua definizione ben pochi riuscirebbero a rispondere in modo esauriente,forse,  riuscirebbero a portare degli esempi più o meno consoni, un po’ come l’affermazione aristotelica della possibilità di parlare del “cavallo” ma dell’impossibilità di parlare a proposito di cosa sia, e se esista, l’idea dell’”equinità.”
E partiamo dunque dall’esempio, se vogliamo che il nostro discorso sia fruibile e comprensibile.
Chi è l’uomo libero?Un uomo che non ha padroni, che segue con coerenza le proprie scelte, che non si lascia condizionare dagli altri, che si sente nel diritto di sostenere le proprie opinioni, che è indipendente, autonomo, che non cede ai ricatti morali e materiali… ma soprattutto un uomo è libero quando non si riduce ad essere lo schiavo di se stesso.
Terribile cosa è questa sorta di “ cattività babilonese” autoreferenziale; delle peggiori cose è capace chi ne è soggetto. Eh si, perché nell’individuo sono presenti tante virtù ma anche tanti limiti e tanti “ego” ad essi subordinati; e la cosa davvero curiosa è che questi limiti non sono posti da altri che da se stessi. Spesso si sente dire che l’educazione, la vera educazione rende liberi.
Ma la vera educazione deve soprattutto mirare alla conoscenza di se stessi; i “miracoli” dell’educazione avvengono, come già Maria Montessori aveva dimostrato nel secolo passato, quando all’individuo viene restituita  la pienezza, la padronanza e la consapevolezza di sé. Quando non esiste un certo tipo subordinato più che di confronto con l’altro, con l’adulto, un confronto che si riduce  spesso ad una sconfitta della stima di sé,  allora viene presentato davvero il senso della libertà, di una libertà di essere prima che di agire e in cui semmai l’azione è conseguente dalla massima realizzazione del poter essere.
Nessun uomo può definirsi libero quando si è schiavi di interessi monotematici, quando un concorso, per fare un esempio, diventa l’unica ragione di discussione, un interesse che lede il proprio stesso interesse alla vita, all’autoconservazione, un interesse dettato da un  delirio paranoico che assorbe ogni altro motivo di esistere; che annulla le bellezze siderali, la natura e tutto il mondo attorno che  non esiste per essere ignorato ma tutt’altro per destare, di tanto in tanto, anche un minimo interesse anche nei cuori più induriti.
Ci si illude forse che per curare i propri interessi bisogna  pensarci giorno e notte, quando ,piuttosto, un salutare distacco è l’unica cosa che dà visione d’insieme, capacità di riflessione “a freddo”, con lucidità e col minimo coinvolgimento emotivo.
Ecco, l’esaurimento nervoso non viene col troppo lavoro né tantomeno col troppo studio… l’esaurimento nervoso viene con un atteggiamento monotematico verso la vita. Come i terreni messi solo a monocoltura dopo un certo periodo cominciano inevitabilmente ad inaridirsi.
Che i soldi siano la rovina del mondo lo sanno anche le pietre ma nessuno non li considera come un limite ma sempre come un enorme beneficio. Per carità, non bisogna essere ipocriti  e siccome la società umana è strutturata in un certo modo, non se ne può fare a meno. Ma si può fare a meno , però, di riempire di soldi dei palloni gonfiati, pieni di tutto tranne che di se stessi, dove l’unico peso che si portano dietro è l’insostenibile onere del proprio vuoto. Volete  dunque un governo virtuoso? Togliete i soldi dalla politica. Pagate un dirigente quanto un operaio e non ci saranno più concorsi da rifare, gente che li vince senza titoli, baruffe degne dei volatili che vivono nei pollai ma che qualificano molto male chi si definisce essere umano. Una perfetta epurazione. Una perfetta educazione al vero senso della libertà; l’uomo, non più reso cieco e limitato dall’interesse economico , finalmente si riappropria di se stesso.
E’ ovviamente una provocazione – absit iniuria verbis - ma ogni provocazione, come ben si sa, nasconde anche delle profonde verità.
Ecco, se adesso provassimo a definire cosa sia esattamente “libertà” forse potremmo timidamente azzardare che sia la padronanza di se stessi:la realizzazione della vera “volontà di potenza” di ogni uomo. Non volontà di “potere” ma di “potenza” che è ben altra cosa, perchè indica la potenzialità, quel valore latente  che tutti abbiamo ma che nessuno mai usa interamente perché troppo assorbito a inseguire le proprie fissazioni monotematiche.
Fortunatamente, nel nostro sistema giudiziario non è contemplata la possibilità di fare processi alle intenzioni ma solo ai fatti e se è vero che i fatti vanno interpretati è anche vero che “contra facta non valet argumentum”. E cosa denota un fatto? Innanzittutto la sua precisa connotazione, che il senso giuridico è fortunatamente molto diverso da quello comune che confonde lucciole per lanterne, un fatto ha , per così dire, “un nome”,  e possibilmente anche un “cognome”, una specificazione oggettivamente appurabile, un fatto non può essere generico, non può essere un’affermazione  che può riferirsi ad una vasta categorie di cose assimilabili agli stessi criteri d’individuzione. Un fatto è sempre soggetto ad un preciso principio individuationis. In mancanza di tali elementi si potranno avere solo “intenzioni”, ed è ridicolo redarguire un’intenzione in potenza, forse, ma non in atto, un’illazione, un’impressione, una soggettiva sensazione da buon senso comune del contadino, forse, ma non del giurista.
Eppure può succedere per fortuito e miracoloso caso della vita che l’intenzione si traduca in atto e quando questa necessità si realizza, per via di un retto giudizio, si realizza il perfetto connubio tra l’individuo e la sua libertà.
La libertà, in definitiva, così almeno ci sentiamo di poter sintetizzare, è ciò che rende possibile la vera espressione di ogni individuo, non l’arbitrio, non la “cattività babilonese”, l’esilio da se stessi, ma il ritorno  a qualcosa di primigenio, primordiale che esisteva in massima parte nelle società tradizionali, che si condensava in poche ma buone leggi, e, in definitiva nell’armonia tra il sociale e l’individuale.
Per concludere, aggiungiamo che non esiste libertà se non  c’è soprattutto libertà d’opinione. Il reato d’opinione in Italia si è estinto col fascismo… anche se qualcuno pare che ancora non lo sappia. E tutti quei verbi che esprimiamo al modo congiuntivo e che indicano, appunto, una credenza, un considerare, reputare, un sentire…. Insomma,una propria personale opinione, non sono soggetti a nessuna particolare imputazione se non a quella di una naturale ed anche, in certi casi auspicabile e dialettica confutazione. Così possiamo ben dire che la graduale scomparsa del modo congiuntivo dalla nostra lingua è monito , chissà, di una graduale scomparsa della libertà;  come, si dice, la scomparsa delle api preannunci grandi disastri naturali, anche la scomparsa di una modalità di un verbo può indicare, purtroppo, la fine di una importante modalità di essere ed esistere.

Tecla Squillaci
Stairwayto_heaven@libero.it








Postato il Sabato, 16 ottobre 2010 ore 06:00:00 CEST di Pasquale Almirante
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