L’intesa
sull’apprendistato sottoscritta dalla Regione Lombardia con i Ministeri
del Lavoro e dell’Istruzione, dell’Università riguarda i percorsi
formativi per l’espletamento del diritto dovere di istruzione e
formazione (in attuazione dell’art. 48 del D.lgs 10/09/2003 n. 276). Ma
il vero punto di interesse di questo accordo è nelle parti che fanno
riferimento alla possibilità di assolvere all’obbligo di istruzione
attraverso un contratto di apprendistato, la cui età di accesso,
precisa l’allegato tecnico, sarà stabilita dalla «normativa di legge
vigente al momento della stipulazione del singolo contratto di lavoro».
Il senso politico della vicenda è evidente: Formigoni, Gelmini e
Sacconi cercano di preparare un terreno favorevole alla norma contenuta
nel progetto di legge «collegato-lavoro», nel quale è stata inserita la
possibilità (emendamento Cazzola) per i quindicenni di assolvere
all’obbligo di istruzione nell’apprendistato. In realtà i nodi della
questione non sono sciolti da questo accordo, a partire dall’età minima
di accesso al lavoro che rimane fissata a 16 anni, né la norma
contenuta nel «collegato-lavoro» la riporta a 15. Anche dopo questa
intesa, la decisione di utilizzare il contratto di apprendistato per
costruire un terzo canale formativo (dopo la scuola e la formazione
professionale regionale), finalizzato all’assolvimento dell’obbligo di
istruzione, continua ad apparire come una soluzione iniqua e
impraticabile.
Gli obiettivi dell’obbligo di istruzione non si raggiungono con
l’apprendistato
Anche nella nuova versione prospettata dall’intesa lombarda,
l’apprendistato rimane uno strumento inadatto per realizzare percorsi
idonei a raggiungere gli obiettivi formativi previsti a conclusione
dell’obbligo di istruzione. A partire dal monte ore annuo di 400 ore di
formazione, una risorsa temporale insufficiente per l’apprendimento
delle competenze culturali di base fissate quale esito in uscita
dell’obbligo di istruzione, anche perché, secondo l’accordo lombardo,
l’attività formativa può essere realizzata anche integralmente in
azienda. Per i percorsi scolatici o di formazione professionale sono
previsti monte ore annui di 1000/1100 ore, mentre per l’apprendistato
dovrebbero essere equivalenti 400 ore, svolte anche integralmente in
produzione con affiancamento di un tutor o più semplicemente del
titolare dell’azienda. L’accordo non garantisce nemmeno che le 400 ore
siano costituite da formazione formale, intenzionalmente progettata,
con obiettivi, contenuti e valutazione degli esiti. Se fosse garantita
la formazione formale, l’impianto prospettato dall’accordo lombardo
potrebbe essere utile per l’apprendimento di competenze
tecnico-professionali ai fini del raggiungimento di una qualifica
professionale, non certo per la cultura di base necessaria alla
formazione del cittadino.
La formazione culturale di base non può che competere alle istituzioni
formative – e non alle aziende – e questo vale anche per i percorsi
formativi finalizzati all’apprendimento delle competenze chiave di
cittadinanza basate, come indicano le norme sull’obbligo di istruzione,
sui quattro assi culturali fondamentali (linguaggi, matematico,
scientifico-tecnologico, storico-sociale). Riconoscere la necessaria
titolarità delle istituzioni formative per i percorsi dell’obbligo di
istruzione non significa che non si possa valorizzare la valenza
formativa del lavoro attraverso progetti di integrazione e di
alternanza scuola-lavoro. Privi di un sufficiente bagaglio culturale di
base, i percorsi per l’obbligo in apprendistato saranno inevitabilmente
incapaci di assicurare ai giovani la possibilità di continuare la
formazione e di evitare la rapida obsolescenza delle abilità
professionali conseguite.
Prevale l’ideologia aziendalista
Nell’intesa lombarda non solo non sono garantiti per i giovani
apprendisti percorsi di formazione formale, ma non sono nemmeno
individuati i requisiti per riconoscere la capacità formativa delle
imprese, senza i quali un quindicenne potrebbe trovarsi a lavorare in
un luogo di lavoro privo degli spazi, delle strutture e delle
professionalità specifiche necessarie per realizzare una effettiva
attività formativa. Così come manca ogni indicazione di raccordo con le
istituzioni scolastiche ai fini di un loro coinvolgimento in percorsi
integrati con le strutture accreditate. L’unico vincolo qualitativo
indicato dall’allegato tecnico è rappresentato dal tutor aziendale,
spesso il titolare stesso dell’impresa, cui è affidato il compito di
definire il Piano formativo Individuale «coinvolgendo in maniera
protagonistica in questo percorso il giovane e la sua famiglia.». Alla
stessa figura aziendale è affidato il coordinamento generale delle
diverse attività previste dal percorso formativo complessivo, in
attuazione del piano formativo individuale dell’apprendista. E, se non
bastasse, gli è chiesto di eseguire il monitoraggio e la valutazione
delle attività e del raggiungimento degli obiettivi formativi previsti
dal piano formativo individuale, che potrebbe prevedere, come abbiamo
già detto, l’ipotesi che le 400 ore di formazione siano svolte tutte
all’interno dell’azienda. Solo alla fine di tutto questo totale
affidamento del percorso formativo del giovane ad un datore di lavoro
(spesso purtroppo non molto acculturato), con l’unico controllo della
propria famiglia (spesso purtroppo in difficoltà con le questioni
formative), appare un soggetto accreditato del sistema regionale con il
compito di valutare e certificare o forse, sarebbe meglio dire, di
prendere atto.
Il prevalere dell’ideologia aziendalista, filo rosso di tutto
l’approccio del governo ai temi formativi, arriva a far scrivere agli
estensori dell’intesa che il lavoro non solo è «mezzo della
formazione», ma addirittura è «fine della formazione per l’acquisizione
delle competenze chiave di cittadinanza». Secondo Formigoni, Sacconi e
Gelmini i giovani apprendisti devono essere formati solo come
lavoratori, la formazione della persona consapevole e del cittadino
attivo è probabilmente ritenuta un lusso riservato ad altri ragazzi più
fortunati.
L’apprendistato fuori dall’ideologia
Una considerazione sulle potenzialità reali del contratto di
apprendistato per il diritto dovere (art. 48 Dlgs 276/2003) non può che
partire dalla constatazione delle difficoltà che fino ad oggi hanno
impedito il suo decollo. Ad oggi, infatti, questa norma non è
operativa, manca l’accordo tra le Regioni e i Ministeri del Lavoro e
dell’Istruzione e, di conseguenza, i minori possono essere assunti in
apprendistato solo nell’ambito della regolamentazione della Legge
196/97. Un ritardo che si spiega anche con lo scarso interesse da parte
delle aziende nei confronti di questo istituto contrattuale. Nonostante
gli sgravi contributivi, infatti, la maggior parte degli imprenditori
trova troppo gravoso il vincolo di almeno 240 ore di formazione
esterna, cui si aggiungono le tutele dei lavoratori minorenni nei
confronti dei lavori faticosi e nocivi, del lavoro notturno, festivo e
degli straordinari. Negli anni scorsi, secondo i dati Inps riferiti al
2006 e 2007, i minori assunti con contratto di apprendistato sarebbero
stati circa 50 mila e, di questi, risultano aver partecipato alle
attività di formazione esterna (obbligatorie per almeno 240 ore) poco
più di 8.800 minori nel 2006, scesi nel 2007 a 6.500. Il rapporto ISFOL
2009 rileva la tendenza ad utilizzare in misura sempre minore
l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere e l’aleatorietà
della formazione erogata ai minori.
È davvero singolare che si possa pensare di utilizzare, per l’obbligo
di istruzione e la lotta alla dispersione scolastica, uno strumento che
ad oggi non ha funzionato nemmeno per il raggiungimento del compito più
congeniale alla sua natura di formare competenze tecnico-professionali.
A meno che il vero obiettivo del governo non sia ancora una volta
quello di ridurre i costi: dopo la formazione professionale (anch’essa
colpita, come la scuola, dal taglio dei finanziamenti), si apre un
altro canale, ancor meno costoso, in cui far assolvere l’obbligo di
istruzione alle fasce sociali più svantaggiate. Se invece si assume
l’obiettivo di rilanciare l’apprendistato post-obbligo di istruzione a
16 anni, allora. oltre a semplificare e chiarire l’attuale impianto
normativo, occorre garantire a tutti i giovani una formazione di
qualità, finalizzata al conseguimento di una qualifica professionale.
Trattandosi di formazione tecnico-professionale, una parte di essa può
anche essere realizzata in imprese dotate di capacità formativa
accreditata.
A questo proposito, la CGIL Lombardia, nel corso del confronto
precedente l’intesa, ha avanzato una proposta non accolta dai firmatari
riguardante il percorso formativo per l’apprendistato 16-18 anni: «un
progetto complessivo di alternanza istruzione-formazione-lavoro, dove
il lavoro possa diventare l’elemento significativo, ma non unico, di un
progetto formativo condiviso, monitorato costantemente da un tutor
esterno di una struttura accreditata, in collaborazione stretta con
quello interno adeguatamente formato. Progetto dove si possano
considerare le unità di competenza, parametri di riferimento
verificabili e misurabili, su cui costruire la certificazione che
porterà poi alla qualifica professionale, coerentemente con quanto
stabilito dai contratti collettivi nazionali di riferimento e dal
Quadro regionale degli standard professionali pattuito nella Conferenza
permanente Stato-Regioni».
La lotta alla dispersione
Anche nell’accordo lombardo la lotta alla dispersione scolastica (126
mila ragazzi 14-17enni fuori dalla scuola, dalla formazione e dal
lavoro) è il leit-motiv principale per far assolvere anche l’obbligo di
istruzione nell’apprendistato. Seguendo la logica, secondo cui
l’apprendistato è meglio di niente, si rinuncia a offrire l’opportunità
di acquisire quelle competenze di base ormai indispensabili per essere
cittadini consapevoli e lavoratori occupabili, cioè capaci di
riconvertirsi e di acquisire nuove competenze in un mondo del lavoro
sempre più mutevole e turbolento. Non ci sono scorciatoie. Per
affrontare seriamente il problema della dispersione scolastica si deve
innanzi tutto di investire nella scuola pubblica e nel potenziamento
dell’autonomia scolastica, invece di aggiungere canali paralleli di
serie b e c, destinati supplire le carenze della scuola e a rafforzarne
le resistenze al cambiamento.
Per ottenere risultati contro la dispersione scolastica occorre
investire nella costruzione di un biennio obbligatorio unitario;
cambiare il modo di fare scuola per valorizzare il rapporto tra sapere
e saper fare, i laboratori, le esperienze di alternanza scuola-lavoro;
diffondere e qualificare i servizi educativi per l’infanzia e difendere
i modelli di qualità della scuola elementare (gli interventi di
decondizionamento precoce sono i più efficaci); rafforzare i raccordi e
la continuità contro le
fratture traumatiche nei passaggi tra i cicli scolatici; attivare le
anagrafi degli studenti per intercettare/riorientare chi abbandona la
scuola e per conoscere il fenomeno ai fini della prevenzione. (da
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