In molti saltano sul
carro dei precari, Gelmini tira dritto. Ma come affrontare il moloch
dei 240.000 in lista d'attesa? Cominciando con la prima emergenza: gli
ex supplenti annuali a spasso. Mentre mancano 80.000 insegnanti nei
ruoli delle scuole, quasi tutti a Nord. Ma va cambiato radicalmente il
sistema delle assunzioni.
Di Pietro, Bersani, qualche giorno fa dal palco di Mirabello anche
Fini. Tutti a dichiarare sacrosante
le battaglie e le ragioni degli insegnanti precari. Tutti, anche chi ha
votato a scatola chiusa i tagli di Tremonti e i “derivati” di Gelmini,
solidali – finalmente - con chi digiuna, protesta, presidia. E’ bene,
naturalmente.
Può aiutare a contrastare l’arrogante indifferenza del ministro
dell’istruzione, a fare della mobilitazione dei precari un punto di
forza per ottenere un qualche rimedio ai punti dolenti prodotti da
alcuni tagli: le classi troppo numerose, i disabili senza sostegno,
l’asfissia di tante attività didattiche di pregio. Ma sarebbe anche
meglio, in verità, se entrassero in campo anche altri, per esempio la
Lega: sempre pronta ad attribuire agli insegnanti che vengono dal
mezzogiorno le cause di una discontinuità di insegnamento che lede i
diritti degli studenti, e però curiosamente muta rispetto al record di
posti vacanti che c’è nella scuola secondaria delle aree settentrionali
( il 23% contro il 19% della media nazionale ). Migliaia di posti di
lavoro che potrebbero essere ricoperti in modo stabile – con indubbi
vantaggi per la didattica – se le immissioni in ruolo di chi ha i
giusti titoli, Tremonti regnante, non si dovessero fare con il
contagocce. O se, almeno, gli incarichi potessero diventare da annuali
a triennali, come propone pragmaticamente qualche sindacato. Sono più
di 80.000 , solo nella scuola media e superiore, i posti vuoti, e però
le immissioni in ruolo degli insegnanti quest’anno non saranno, alla
fine, più di 10.000 .
Ma c’è da fidarsi della politica? Sul precariato scolastico, sia a
destra che a sinistra, bisogna dire che di lungimiranza se ne è vista
quasi sempre molto poca. Al centro non c’è stata mai la qualità della
scuola, e neppure l’efficienza. Negli ultimi trent’anni, a prevalere è
stata immancabilmente una logica di tutela delle “legittime
aspettative” di chiunque metta un piede nella scuola. Anche con
supplenze brevi e sporadiche, anche se nei lunghi anni di attesa del
mitico primo incarico annuale si sono trovati altri percorsi di lavoro,
anche se i titoli professionali sono e restano deboli o inesistenti.
L’anzianità di attesa, insomma, invece che la costruzione delle
competenze professionali e la selezione dei migliori, dei più motivati,
dei più preparati. L’alimentazione incessante di un bacino sempre più
vasto e confuso di precari invece che un ordinato e programmato
ricambio generazionale. Una truffa, in primo luogo, per un numero
enorme di persone , visto che per esaurire per via fisiologica gli
oltre 240.000 attualmente iscritti alle graduatorie – età media 38 anni
- occorrerebbero non meno di tre lustri. E, recentemente, anche una
poderosa muraglia, in una scuola dove l’età media è di 52 anni,
innalzata contro l’ingresso nella scuola dei giovani laureati. Se
infatti con l’ultimo governo Prodi le graduatorie sono diventate “ad
esaurimento” – chi è dentro è dentro, e chi è fuori non può entrare –
ma non c’è stato il tempo per dare il via alla prevista formazione
universitaria degli insegnanti e a una sensata riforma del
reclutamento, con Gelmini si è prodotto il peggio del peggio. Cioè la
chiusura d’imperio dell’unico spiraglio di ingresso per i giovani
aspiranti all’insegnamento nella secondaria, le Scuole di
specializzazione universitarie istituite dal ministro Moratti e sempre
contrastate, in nome appunto delle “legittime aspettative”, dai
sindacati e dagli iscritti alle graduatorie. In sostanza, è dal 2007
che nessun giovane laureato, anche tra i disposti ad aggiungere ai
cinque anni di università altri anni di corso, a superare esami e a
svolgere tirocini guidati e valutati, può aspirare a entrare nella
scuola per la via maestra. Un disastro, insomma, che Gelmini
attribuisce per intero alle politiche del passato, ma a cui in verità
negli ultimi due anni non si è fatto niente per porre un qualche
rimedio. Né bandendo concorsi almeno per le graduatorie esaurite o in
via di esaurimento – ce ne sono molte, soprattutto di materie
scientifiche e tecnologiche, e non solo nel Nord – né mettendo in atto
nuovi percorsi di formazione professionale universitaria per gli
insegnanti della secondaria. Il suo regolamento sulla formazione
iniziale dei docenti, presentato urbi et orbi con la massima solennità,
infatti, non solo non è ancora attuativo, ma ha di nuovo rinviato
l’attesa riforma del reclutamento. L’argomento è che bisogna aspettare
una revisione delle classi di concorso che non è ancora completata.
La verità è che non c’è il coraggio di avviare una gestione strategica
del personale, basata sulla formazione e sulla valutazione delle
competenze professionali necessarie a una scuola di qualità, e di fare
finalmente scelte analoghe a quelle in vigore in gran parte dei paesi
avanzati, dalla Danimarca alla Gran Bretagna. Sganciando le supplenze
dal reclutamento. Programmando le assunzioni con accesso a numero
chiuso alla specializzazione universitaria. Attribuendo validità
concorsuale ai percorsi formativi universitari e al tirocinio nelle
scuole. Rinunciando a un centralismo inefficiente con l’attribuzione
alle scuole della competenza del reclutamento da albi regionali di
professionisti. Asciugando le graduatorie da tutti coloro che non hanno
titoli validi e immettendo in ruolo sui posti vacanti quelli che invece
li hanno. Bandendo, nella fase di transizione, concorsi aperti a tutti
per coprire i posti dove le graduatorie provinciali sono a secco.
Un’impresa indubbiamente improbabile, per un ministro come Gelmini,
evidentemente interessata a tutt’altro. Ma c’è da dubitare che la
consapevolezza della serietà della questione e del suo valore
strategico per un miglioramento netto della qualità e dei risultati del
nostro sistema di istruzione ci sia anche nei personaggi o nelle forze
politiche che oggi si sbracciano a sostenere le lotte dei precari della
scuola. Di quale precariato si parla? Di quale formazione, di quale
reclutamento? Che cosa si ha in mente per sbrogliare il pasticcio che
si è formato in tanti anni di politiche corporative e irresponsabili?
Occorrerebbe una chiarezza di proposte che al momento non c’è, e che
invece sarebbe dovuta non solo alla scuola ma anche a chi – i precari
“storici” da un lato, i giovani laureati dall’altro – ne sono le prime
vittime. Non serve un ennesimo polverone sul “precariato”, imbastito
solo per ragioni politiche o elettorali, vuoto di idee, senza una
precisa direzione di marcia. Fare riferimento, come si legge ogni
giorno sulla stampa, alle centinaia di migliaia di iscritti nelle
graduatorie, all’enormità di questa bolla fatta di aspettative deluse
ma anche di inerzie, serve solo a portare acqua agli argomenti di
Gelmini, alle sue dichiarazioni di impraticabilità di una soluzione
immediata e definitiva del problema. Al suo lavarsene le mani, di
fronte alla serietà del debito pubblico e degli impegni governativi di
risanamento. Con larghi consensi, c’è da scommetterci,da parte di
un’opinione pubblica disorientata dalle continue denunce di
inefficienza e di cattivo uso delle risorse nell’intero settore
pubblico.
All’ordine del giorno, del resto, oggi c’è un’altra emergenza. Molto
precisa, molto specifica, molto grave. Sono più di 10.000, secondo i
conti dei sindacati, gli insegnanti che lo scorso anno hanno avuto un
incarico annuale, o almeno fino al termine delle lezioni, e che oggi
rischiano di restare senza lavoro. Sono precari che, se ci fossero
stati i concorsi, avrebbero dovuto da tempo essere di ruolo e che ora
con tutta probabilità stanno per essere ricacciati nell’inferno delle
supplenze brevi perché i posti di insegnamento tagliati per il prossimo
anno scolastico sono 25.600 e le nuove immissioni in ruolo solo poche
migliaia. Sono insegnanti che a una scuola che vede un incremento degli
iscritti e che vive una quantità enorme di problemi irrisolti servono
come il pane. Non si dovrebbero accettare, come è successo l’anno
scorso, i palliativi della leggina salva-precari, le soluzioni
avvilenti di un affidamento dei licenziati alle Regioni e dei
progettini di utilizzo inventati qua e là per giustificare una sorta di
cassa integrazione. E’, tra l’altro, anche questa una spesa pubblica,
che però ha unicamente una funzione di copertura, serve cioè solo a non
smentire le tabelle di tagli imposte da Tremonti.
(Da http://www.sbilanciamoci.info
di Fiorella Farinelli)