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Riforma: VALUTARE GLI APPRENDIMENTI

Comunicati
 

VALUTARE GLI APPRENDIMENTI

 

Sintesi dell’intervento del prof. Roberto Picone all’incontro del 04/02/2005
Palermo, Istituto Alberghiero Statale “P. Borsellino”

            L’opportunità di effettuare un accertamento del livello degli apprendimenti degli alunni che frequentano la prima e la terza classe degli Istituti superiori italiani nasce da alcune esigenze non rinviabili. Innanzitutto, la considerazione della necessità di confermare o modificare l’impianto stesso del nostro sistema di istruzione in rapporto al rendimento che questo sistema offre e produce: criticare la scuola è l’unico modo concreto per migliorarla, ma una critica sensata non può che partire dai limiti e dagli insuccessi verificati, non certo dal sentito dire o dalle comode leggende giornalistiche che possono strappare qualche risata ma non aiutano di sicuro a conoscere meglio la realtà che si vorrebbe cambiare. Poi, nessuno può ragionevolmente sottrarsi – e sottrarre la scuola italiana – al confronto con la realtà europea di cui facciamo parte in modo stabile e convinto: occorre assicurare ai giovani cittadini europei, e quindi ovviamente anche agli italiani, la certezza di possedere un titolo di studio che valga ben al di là del suo valore formale o legale: ciò che importa è che esso testimoni e garantisca il possesso di livelli di conoscenza/competenza spendibili in ogni angolo della Comunità Europea. Infine, e non è argomento di poco conto, una valutazione a livello centralizzato costituisce il necessario contraltare di un’autonomia che può e deve esercitarsi anche sul piano delle scelte didattiche più varie, ma deve comunque rispondere al compito di fornire livelli di apprendimento omologhi sull’intero territorio nazionale.

            Orbene, la direttiva ministeriale n. 56 del 12 Luglio 2004 ribadisce il compito affidato all’ INVALSI di provvedere alla valutazione degli apprendimenti per l’anno scolastico 2004/05 dell’italiano, della matematica e delle scienze anche nelle classi I e III della scuola secondaria di secondo grado. Ed è proprio sulla valutazione circa l’apprendimento dell’italiano che intendo soffermarmi. Occorre infatti comprendere che l’accertamento dei livelli di competenza in italiano da parte degli studenti delle superiori risponde pienamente alle motivazioni sopra riportate anche a proposito del confronto con gli altri paesi europei: le competenze di lettura infatti riguardano il possesso degli strumenti di decodificazione di testi complessi anche in riferimento ad argomenti non familiari allo studente, e indicano pertanto la capacità di comprensione e produzione di fronte a problemi complessi, lasciando intravedere le prospettive di arricchimenti legati ad ulteriori opportunità formative. Oggi, insomma, la scuola non può più limitarsi a fornire generiche competenze di semplice “lettura e scrittura”, deve piuttosto affinare e incrementare conoscenze e competenze sempre più sottili e raffinate. Non per nulla l’OCSE ha avviato sin dal 1997 un programma di rilevazioni in tutti i paesi membri: si tratta del PISA (Programme for International Student Assessment), che ha dato origine ad una prima rilevazione nel 2000 e ad una seconda nel 2003. Come molti sanno, i risultati per l’Italia sono stati assai poco lusinghieri: ci piazziamo nella parte bassa del tabellone, davanti a solo nove nazioni, ma alle spalle di ben trenta paesi.

            Non sarà pertanto privo di senso andare a visionare il testo delle prove che l’INVALSI ha proposto in alcune scuole campione nell’anno scolastico 2003/04 prendendo ad esempio la terza classe delle superiori. La prova, realizzata in forma di quesiti a risposta chiusa (quattro risposte tra le quali scegliere per ogni domanda), prende spunto da tre testi sottoposti agli studenti. Si tratta di un testo espositivo, di un testo poetico e di un testo narrativo. Le domande puntano ad accertare

a)      La comprensione globale e particolare del testo

b)      La comprensione e le conoscenze lessicali

c)      Le conoscenze delle strutture grammaticali.

Si deve riconoscere che molte delle domande poste sono ad un livello di difficoltà considerevole, tale da mettere in crisi anche studenti dei licei classici, abituati ad uno studio linguistico e ad un approfondimento delle strutture morfo-sintattiche certamente maggiore di quello praticato in altri istituti. Non mancano infatti domande su figure retoriche, registri linguistici, metrica, funzioni logiche complesse, pur accanto a semplici richieste di parafrasi, riconoscimento di modi verbali usati nel testo, spiegazioni elementari di senso. Ora, è lecito chiedersi: la scuola italiana ha il diritto di aspettarsi dai propri alunni il possesso di competenze così avanzate? O non si dà piuttosto la sensazione di scadere in forme di schizofrenia, quando appena si ricordi la sufficienza con cui da molti anni sono stati bollati lo studio della grammatica, l’approfondimento linguistico, la riflessione sui codici espressivi, la competenza traduttiva, e con essi lo studio individuale, l’esercizio a casa che richiede concentrazione, tempo e possesso di conoscenze di base? Come dimenticare la superficialità di chi ha considerato lo studio a tavolino come l’equivalente di una tortura ingiustamente inflitta ai poveri studenti? Si badi bene, qui non si intende rimpiangere una scuola vecchia fondata sulla trasmissione di nozioni prive di motivazioni e di senso, capace solo di imporre la pratica di esercizi ripetitivi che riuscivano unicamente a stancare l’alunno, ma non certo a fargli comprendere il valore delle cose studiate. Qui si vuole però ritrovare il giusto equilibrio, riscoprendo il grande valore della acquisizione dei contenuti finalizzata alla conquista di competenze che consentano la crescita personale dello studente. Se, insomma, la scuola della paura del voto e della noia quotidiana è per fortuna definitivamente tramontata, c’è da sperare che si affermi quella della consapevolezza e dell’impegno.

            Certamente, molte delle competenze necessarie (necessarie anche al superamento dei questionari, ma non solo a questo!) sono acquisibili soltanto attraverso un lavoro di lungo respiro: si può imparare piuttosto facilmente a riconoscere una funzione logica o una figura retorica, ma non altrettanto facilmente arricchire il bagaglio lessicale, riconoscere i registri linguistici o padroneggiare le sfumature espressive. Occorre leggere – e molto –, cercare di arricchire le proprie capacità espressive scritte e orali (non sarà il caso di ripescare, in modo intelligente, il vecchio tema dalla soffitta?), ma soprattutto acquisire l’atteggiamento di sana e vivace curiosità nei confronti della lingua, scoprirla come un infinito universo di possibilità tutte differenti e tutte variamente significative. E per far questo il ruolo dei docenti è assolutamente essenziale. Non esiste alunno che possa entusiasmarsi se davanti a sé non ha un professore che sia al tempo stesso innamorato della sua disciplina e del fatto di trasmetterla ai suoi studenti, coinvolgendoli quanto più possibile. Non tutti si entusiasmeranno, ma tutti rispetteranno quel docente e ne ricorderanno, negli anni a venire, la figura e, forse, il messaggio. Ma se i professori si illuderanno di potere imporre studio e partecipazione con l’arma-ricatto delle valutazioni (i voti trasformati da registrazione dei livelli raggiunti a punizioni o premi assegnati arbitrariamente e soggettivamente), allora la scuola italiana non uscirà di certo dalle secche in cui si trova.

            Un’ultima notazione. Quanto ho sinora esposto credo dimostri quanto importante sia procedere a valutazioni attendibili e realistiche. Non bisogna però dimenticare che le competenze si costruiscono lungo l’iter scolastico. Ciò vuol dire che la scuola non può applicare criteri troppo rigidi (per quanto “scientifici”) allorché valuta le competenze di un quindicenne. Occorre tenere sempre presenti i punti di partenza, le specificità di ciascun individuo, i ritmi di crescita, la maturazione. Certo, la collaborazione delle famiglie è fondamentale, e le istituzioni scolastiche devono sempre più coinvolgerle nella presa di coscienza dell’importanza dello studio e della formazione dei giovani, e così pure la società deve essere richiamata alla consapevolezza della differenza che intercorre tra il successo sociale e crescita personale, tra benessere economico e formazione della persona. Insomma, la scuola non può vincere la propria battaglia chiudendosi a riccio, ma non deve neanche cedere alle derive sociologistiche, che credono di potere misurare la validità di una tale istituzione misurando i soli risultati quantitativi e per di più immediati: il numero dei promossi, dei diplomati, dei laureati. Altrimenti ci troveremo di fronte a uno sfacelo degli individui e della stessa società, che non avrà più il diritto di sorprendersi (e tanto meno di indignarsi) quando scoprirà che uno studente universitario (cattedra di Sociologia, università della Sapienza di Roma), alla richiesta della professoressa di scrivere per esteso l’espressione Tallone d’Achille, dato che sembrava pronunciarla male, prontamente afferrata la penna ha scritto: “Tallone da Killer”.

                                                                                  Roberto Picone

 COLLEGAMENTO AI DOCUMENTI DEL DIBATTITO









Postato il Mercoledì, 23 febbraio 2005 ore 12:58:59 CET di Salvatore Ravida
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