Ho avuto di recente l’occasione di partecipare a tre
convegni in cui si discuteva di istruzione e sviluppo economico. Erano
tutti e tre convegni internazionali ma ciascuno di essi avveniva in uno
specifico contesto nazionale: la Corea del Sud, il Giappone e la Russia.
Ebbene, in tutti e tre i convegni il
messaggio sul legame tra istruzione e sviluppo è stato sostanzialmente
convergente: nessun Paese che da povero è diventato ricco è riuscito a
farlo senza, prima della (e durante la) fase di crescita accelerata,
aver accresciuto di gran lunga i propri investimenti in istruzione.
(di Giovanni Ferri – nelMerito.com - http://www.direttanews.it/2010/06/04/scuola-il-fatale-errore-di-tagliari-i-fondi-all-istruzione/
)
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Gli esperti fanno notare che il problema non è solo quello di
assicurare che la gente sappia leggere e scrivere – in termini tecnici,
la “alfabetizzazione strumentale” – ma anche che una fetta più ampia
possibile della popolazione acceda all’istruzione secondaria (scuole
superiori) e terziaria (università) in modo che tanti si dotino degli
strumenti – la “alfabetizzazione culturale” – per mettere a frutto il
proprio ingegno al servizio suo proprio e della collettività di
appartenenza. Un Paese che investe molto in istruzione sarà, perciò, in
grado di generare più innovazione e, con ciò, anche accrescendo la
propria produttività, essere competitivo sullo scenario internazionale.
In un certo senso, il Paese che investe molto in istruzione realizza
un’operazione culturale che arricchisce il futuro del proprio popolo,
lo nobilita, lo rende più aperto e attraente per le altre genti, anche
perché la cultura e la conoscenza sono per loro natura beni
sovranazionali.
Ma la spesa in istruzione serve solo nella fase in cui un Paese si
vuole arricchire oppure è necessaria anche per mantenerlo ricco? La
risposta inequivocabile è si. Più emblematico di tutti è il caso della
Corea del Sud che, proprio grazie ai suoi enormi investimenti in
istruzione, ha saputo celermente spostarsi dalle produzioni
manifatturiere tradizionali – dove la sua posizione veniva insidiata da
nuovi protagonisti (es. la Cina) con costi del lavoro più bassi – a
quelle ad alta tecnologia. Così i coreani, avendo raggiunto un livello
di ricchezza medio-alto già negli anni ’90, lo hanno saputo
ulteriormente accrescere negli anni successivi.
Pierluigi Ciocca, già Vicedirettore Generale della Banca d’Italia, ha
intitolato un suo recente libro “Ricchi per sempre? Una storia
economica d’Italia” (Torino, Bollati-Boringhieri, 2007). È una domanda
che spiazza il lettore. Nel suo vivace e intelligente saggio, Ciocca
propone una lettura dell’arricchimento dell’Italia nei decenni del
dopoguerra da cui sprigionano tutti i dubbi e le incertezze attuali.
Anche se Ciocca non lo dice esplicitamente, dal suo ragionamento
traspare il timore che in Italia si sia smarrita la voglia di futuro e
che il Bel Paese rischi seriamente di avviarsi verso un inesorabile
declino economico.
Legando quanto emerso nei convegni internazionali citati al
ragionamento di Ciocca, occorre allora chiedersi se in Italia si
investa abbastanza in istruzione. La risposta è no, anzi, sempre meno.
Nel confronto internazionale l’Italia non brilla: al 2004, la spesa per
istruzione era pari al 4,8% del PIL (prodotto interno lordo), contro
una media del 6,1% tra tutti i Paesi industrializzati (OCSE) e, al
2005, la quota di popolazione con diploma, rispettivamente, di scuola
media superiore e universitario era del 37 e 13%, contro medie OCSE del
41 e 26%. Per di più, dal 2008 sono stati avviati tagli drastici:
secondo il piano di riorganizzazione del Dl 112/2008 la scuola
elementare dovrebbe perdere 87.335 cattedre e 45.000 posti da ausiliari
tecnico-amministrativi (il 17% del totale), i fondi statali
all’università dovrebbero calare del 18,8% al 2011.
Il ragionamento che viene generalmente addotto a giustificazione di
questi tagli all’istruzione è che in Italia il sistema scolastico e
quello universitario sono inefficienti: perciò, il dimagrimento della
spesa dovrebbe tagliare le inefficienze senza ridurre il livello di
servizio. Ahimé questa logica è sbagliata per due ragioni. Primo,
perché l’Italia stava già investendo di meno rispetto agli altri Paesi
ricchi (che vogliono restare tali) e quindi avrebbe dovuto ampliare
quegli investimenti. Secondo, perché non c’è nessuna ricetta magica in
base alla quale i tagli alla spesa riducano l’inefficienza senza
intaccare l’offerta formativa: basta chiedere ai genitori che non
trovano il tempo pieno per i figli alle elementari o agli studenti
universitari costretti a tirare per la giacca docenti sempre più di
corsa a tappare i buchi lasciati dal mancato rimpiazzo dei
pensionamenti.
Varrebbe la pena di fermarsi a riflettere e magari fare come in
Francia, dove il premio alle università più meritevoli non è stato,
come da noi, un taglio minore dei fondi (perché Oltralpe non se lo sono
neanche sognati di attuare un taglio drastico e generalizzato) ma un
aumento maggiore dei fondi. Altrimenti, la minore istruzione dei nostri
giovani produrrà un’enorme “carneficina sociale” e tarperà
definitivamente le ali alle forze migliori dell’Italia. Forse la
prossima volta che sentiremo un governante parlare di modernizzazione
dell’Italia anziché una “standing ovation” gli dovremmo innalzare uno
“standing boo”.
Post Scriptum: La recente decisione del governo di chiudere centri di
ricerca indipendenti come l’Isae e l’Isfol peggiora ulteriormente la
situazione alterando ulteriormente gli equilibri verso un’Italia
decerebrata in cui la “cultura del fare” non presuppone il necessario
passaggio del “prima pensare”.
Giovanni Ferri – nelMerito.com