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Dirigenti Scolastici: SULL’EQUIPARAZIONE RETRIBUTIVA DELLA DIRIGENZA SCOLASTICA: AUTOREVOLI PARERI E PROSAICI FRAINTENDIMENTI

Opinioni

I – Evidentemente il comunicato apparso sul sito dell’ANP-Puglia del 21 gennaio u.s. (Venditori di fumo), ma con il contenuto dettato da Roma (1), è stato stimato un po’ rozzo e superficiale. Per cui il sindacato di Viale del Policlinico – giusto perché non si abbiano più dubbi – ha diffuso sul proprio sito nazionale un (dirimente?) parere dell’insigne giurista, «prof. Franco Carinci, notissimo avvocato giuslavorista nonché professore ordinario di diritto del lavoro all’Università di Bologna, direttore della rivista Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni», a dimostrazione dell’impraticabilità della via giudiziaria per ottenere, oltre che la perequazione interna, l’equiparazione retributiva della dirigenza scolastica con la dirigenza amministrativa e tecnica, di pari seconda fascia, del medesimo datore di lavoro, il MIUR.
            Il parere, commissionato dal presidente Giorgio Rembado sulla scorta di articolate considerazioni preliminari, che sostanzialmente puntualizzano quanto già da noi fatto oggetto di analisi (2), conferma – naturalmente – un radicato (pre)giudizio, di chi resta da sempre convinto «che la rivendicazione sia giusta, ma che non giovi a nessuno illudersi di ottenere i risultati attesi sulla base di scelte puramente emotive». Perché «le azioni politiche e sindacali sono, e rimangono, le uniche realisticamente percorribili nel quadro normativo attuale». E difatti, quanto alle azioni politiche, non si è andati – da dieci anni ad oggi – al di là del contentino, rigorosamente bipartisan, di altisonanti ma sterili ordini del giorno (3). Mentre il frutto delle azioni sindacali è in procinto di produrre un contratto in perdita rispetto a quello del quadriennio 2002-2005 (4), che l’ANP sottoscriverà accodandosi alla ex-odiata Triplice e allo SNALS, sindacati di docenti e di ATA, nella consapevolezza – si legge sul suo sito delle Marche – della «difficile situazione economica di carattere mondiale», che necessariamente ha imposto «un punto di sintesi tra posizioni diverse»: per bocca di chi, sino a ieri l’altro, aveva giurato che mai e poi mai avrebbe firmato un contratto che non realizzasse perequazione ed equiparazione (5), ora destinate all’ennesimo rinvio sine die (6) e, per intanto, sortendone l’esito di un’ulteriore divaricazione delle retribuzioni nei confronti dei dirigenti della prima area (7). Oltre che sindacato giallo (8), sindacato governativo sino al suicidio, dopo e nonostante l’evaporazione dell’illusione – coltivata in orgogliosa e spocchiosa solitudine – che un’amministrazione «amica», a principiare dal suo ministro cui si dà del «tu», tirasse fuori dal magico cilindro, senza colpo ferire, la perequazione interna e l’equiparazione retributiva. E, per soprammercato, dissuasione della – sempre più depressa – categoria nell’intraprendere azioni legali e giudiziarie per il riconoscimento di quanto dovuto. Sicché riesce veramente problematico comprendere quale vantaggio possa esserci nel continuare ad alimentare un sindacato la cui unica preoccupazione, ed occupazione, è quella – da anni – di organizzare incessantemente seminari, convegni, corsi di formazione e di preparazione ai concorsi, master e quant’altro – tramite la Dirscuola o in convenzione con università ed enti accreditati – in lungo e in largo la penisola, rivolti ad aspiranti dirigenti scolastici, ad aspiranti dirigenti tecnici, ad autodefinitesi alte professionalità, da ultimo anche ai docenti «normali»; con conseguenti lucrose prebende per una ristretta oligarchia romana molto attenta a mantenersi, allineata e coperta, nelle grazie di un inamovibile – da più di un quarto di secolo – sovrano assoluto.
II –  Dunque, disco rosso. O così sembrerebbe.
Letto e riletto il parere del noto cattedratico dell’ateneo bolognese, non siamo riusciti a sfuggire ad una triplice impressione.
In primo luogo ci è parso di notare che le coordinate giuridiche (e, in senso ampio, culturali) della sua analisi ineriscano prevalentemente al rapporto di lavoro con un imprenditore privato, che meglio possa sostenere l’assunto di un’«autonomia collettiva» – reiterata in ogni rigo – operante in assoluta, piena discrezionalità nel regolare struttura e contenuti (sia economici che normativi) del rapporto di lavoro, senza che possa farsi questione della violazione del principio di uguaglianza retributiva a parità di quantità e qualità del lavoro svolto. Tal che i canoni figuranti in costituzione (artt. 3 e 36) non assurgerebbero a valore assoluto: ciò che costituisce il perno su cui ruota l’intera trama argomentativa al fine di escludere il diritto della dirigenza scolastica all’equiparazione retributiva e alla perequazione interna.
La seconda impressione – qualcosa di più che un’impressione – attiene ad una analisi parziale, atomistica  e quindi inevitabilmente riduttiva del pur corposo complesso normativo disciplinante, con disposizioni pubblicistiche ed imperative, la dirigenza pubblica, nel cui alveo è collocata la dirigenza scolastica (detto diversamente, appaiono preponderanti gli schemi strettamente privatistici). Il che fa specie per chi dirige una rivista intitolata Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni.
La terza impressione è, un po’, la sintesi delle prime due: che a parlare, più che il cattedratico frigido pacatoque animo, sia stato l’avvocato attento alle ragioni – o alle posizioni precostituite – del cliente, che già aveva scritto (o fatto scrivere) che «la questione della perequazione stipendiale, di natura squisitamente pattizia …, non può venire risolta per via giudiziaria, non suscettibile, per difetto di giurisdizione e per incompetenza, di essere affrontata e risolta da un giudice del lavoro».
II.1 L’incipit è perentorio: non esiste un diritto dei dirigenti dell’area quinta ad ottenere una perequazione retributiva con i dirigenti dell’area prima, in forza di una giurisprudenza ormai consolidata da oltre un ventennio, in ragione della quale la contrattazione collettiva è libera di predeterminare la retribuzione da attribuirsi ai lavoratori subordinati, definendone, altresì, la struttura, nei soli limiti stabiliti dalle norme imperative di legge (peraltro confinate in poche disposizioni concernenti voci retributive qui irrilevanti: trattamento di fine rapporto, indennità sostitutiva di preavviso, festività settimanale, tredicesima mensilità …).
Nel caso di specie, per il pubblico impiego viene in considerazione l’art. 24 del d. lgs. 165/01, sulla retribuzione del personale con qualifica dirigenziale, determinata dal contratto collettivo, prevedendosi che il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità. Il che implicherebbe l’assoluta libertà del contratto – una sua «piena discrezionalità» – in virtù  della (presunta) competenza «in bianco», attribuitagli dalla legge, nella determinazione della struttura e del quantum della retribuzione, qui salvo il vincolo di prevedere (e di quantificare) un trattamento accessorio accanto a quello fondamentale (ad esempio, il vincolo ora imposto dalla c.d. riforma Brunetta, ex d. lgs. 150/09, di riservare alla remunerazione del risultato almeno il 30% della complessiva retribuzione, sia pure gradualmente).
L’assunto del giuslavorista dell’Alma Mater è dedotto dalla giurisprudenza «consolidata e compatta», emblematicamente sintetizzata dalla sentenza delle sezioni unite della corte di cassazione n. 3888/93, nonché da richiamate sentenze ad essa collegate.
In realtà, a ben leggere, quivi è detto esattamente l’opposto. I supremi giudici romani, sottoponendo al vaglio di legittimità una sentenza emessa dal tribunale di Trieste - sezione lavoro, confermativa di quella resa in primo grado (9), statuiscono infatti che:
-           il contratto è strumento di tutela e di garanzia dei lavoratori, potendo derogare dalla legge solo in melius. In ciò è la sua funzione, diversamente configurandosi un «abuso di potere del rappresentante, attesoché il mandato conferito al sindacato opera nell’ambito della legge dello stato a tutela dei lavoratori». Di guisa che – prosegue il giudice d’appello – non può concepirsi una «libertà sindacale negativa» [che ometta di esercitare la sua doverosa funzione]. Altro che discrezionalità «piena»: semplicemente, e in generale, inesistente nell’ordinamento giuridico (10). Per il vero, è possibile che, eccezionalmente, un contratto possa operare in pejus, ma devono esserci delle ragioni oggettive, di intrinseca rilevanza, che il giudice di merito può e deve apprezzare, alla luce della legge e/o dei principi generali che informano l’intero ordinamento giuridico;

  1. è il trattamento economico complessivo, in concreto corrisposto a ciascun lavoratore, che dev’essere conforme a proporzionalità e sufficienza, ex art. 36 cost. – pena la rottura del sinallagma [ciò è a dire della corrispettività, con conseguente indebito arricchimento di una delle parti] – e non risultare discriminatorio, ex art. 3 cost. Altrimenti il giudice può ben intervenire per adeguarlo a tali parametri;
  2. sia i contratti collettivi con efficacia erga omnes (di cui all’inattuato art. 39 cost., ma previsti da alcune risalenti e residuali disposizioni di legge), sia i contratti collettivi di diritto comune (costituenti la regola) non sono norme giuridiche dotate di forza di legge (corte cost., sentenza n.106/62). Pertanto sono entrambi sottoponibili alla piena cognizione dei giudici di merito, per essere scrutinati dalla cassazione solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (art. 1362 ss., c.c.) e per vizio di motivazione (art. 360, 5°, c.p.c.);
  3. non esiste una riserva normativa o contrattuale in favore del sindacato per il regolamento dei rapporti di lavoro (corte cost., sentenza n.106/02, cit. e n. 120/63), ovvero la sovranità del contratto, sebbene il legislatore non possa cancellare o contraddire, ad arbitrio, la libertà delle scelte sindacali e gli esiti contrattuali in essere (corte cost., sentenza n. 34/83).

Questi principi testé sunteggiati sono coerenti altresì con una sentenza richiamata nell’Atto di messa in mora e diffida (vedasi nota n. 3) di CGIL e CISL, del 10 febbraio 2009, propedeutico al minacciato (e mai approntato) ricorso al giudice del lavoro per il riconoscimento, in capo alla dirigenza scolastica, della perequazione interna e dell’equiparazione retributiva.
Trattasi della sentenza n. 642/03 del tribunale di Potenza - sezione lavoro (11), che respinge l’eccezione della parte convenuta, di essere al giudice inibito sindacare le scelte della contrattazione collettiva. Certamente tale sindacato «deve essere contenuto in limiti rigorosi, essendovi altrimenti il rischio di stravolgere gli equilibri complessivi che le parti sociali hanno raggiunto», nella presunzione – una presunzione iuris tantum, che ammette la prova contraria – del possesso di un quadro d’insieme dei rapporti di lavoro e di una particolare sensibilità in materia di inquadramento e di mansioni. Non può tuttavia ritenersi – prosegue il giudice lucano – che le parti sociali «siano svincolate dal rispetto delle norme imperative di legge. In particolare, nella materia in esame (inquadramento del personale del pubblico impiego) vi sono due norme di carattere costituzionale (artt. 36 e 97 cost.) che impongono dei vincoli alla contrattazione collettiva. L’art. 36 della costituzione, nel prevedere che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità  e qualità del suo lavoro, rende illegittimo un sistema di inquadramento (e quindi di retribuzione) del personale che prescinda del tutto dalla qualità della prestazione lavorativa». Ciò è stato, peraltro, non infrequentemente rimarcato dalla dottrina più autorevole, che pure riconosce all’autonomia negoziale un (misurato) potere di deroga dai canoni imposti dall’art. 36 cost.: che, per questo aspetto, non assurgono a principi assoluti, senz’altro nell’impiego privato (12) e,entro certi limiti, anche nel settore pubblico (13). Ma occorre, pur sempre, una ragione oggettiva, sì da giustificare una «discriminazione», apprezzabile (rectius: sindacabile) dal giudice. Al riguardo la corte costituzionale (sentenza n. 103/89) ha osservato che pure per le parti sociali vige il dovere di rispettare i precetti costituzionali di elevazione morale e professionale dei lavoratori, di proporzionalità tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, oltre che la sufficienza di essa, di pari dignità sociale dei lavoratori e di divieto di discriminazione, «anche se sono tollerabili  e possibili disparità e differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e comunque ragionevoli»; nel mentre per il pubblico impiego deve altresì «osservarsi che l’art. 97 della costituzione, nel disporre che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, vieta implicitamente che siano compiuti, anche dalle parti sociali, atti di irragionevole discriminazione che possano compromettere il buon funzionamento dell’amministrazione, mortificando senza una valida ragione un determinato gruppo di lavoratori».
Devesi peraltro correttamente avvertire che la sentenza del tribunale potentino, di cui si è discorso, è stata cassata dalla suprema corte (cass. civ., sez. lav., 18-6-08, n. 16506, citata dal prof. Carinci ad ulteriore fondamento del suo parere); che, qui potendosi astrarre dai profili strettamente processualistici, ha ribaltato la decisione del giudice di prime cure, riconoscendo che la clausola di inquadramento nella nuova superiore qualifica dell’originaria ricorrente (funzionaria dell’Università della Basilicata) in senso deteriore rispetto ai colleghi forniti di laurea – in forza di un’interpretazione autentica dell’apposita (impugnata) clausola contrattuale delle contrapposte parti datoriale e sindacale – non doveva ritenersi confliggente con norme imperative (mentre il primo giudice era stato di contrario avviso). Il che, a ben riflettere, conferma che una discriminazione è sì possibile purché sussista una oggettiva ragione, che nel caso di specie ha assicurato un inquadramento superiore nella nuova qualifica D1 «ai lavoratori che avessero acquisito la settima qualifica [quella di provenienza, comune all’originaria ricorrente] a seguito di concorso per la partecipazione al quale era richiesto il diploma di laurea [che invece l’originaria ricorrente non possedeva]». Ciò è a dire, ex adverso ed ancora una volta, che non può affermarsi la sovranità assoluta ed impenetrabile dell’«autonomia collettiva», restando fermo il principio presente nella stessa cassazione a sezioni unite e in sentenze della corte costituzionale (supra): che sono «possibili disparità e differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e comunque ragionevoli».
Tal che, dalla rassegnata giurisprudenza, deve ritenersi discutibile, se non del tutto erronea, la lettura proposta dal prof. Carinci.
E’ ben vero che la legge ha attribuito all’esclusiva competenza della contrattazione collettiva la determinazione del quantum del trattamento retributivo, con il solo obbligo di prevedere un trattamento accessorio a quello fondamentale. Ma non può sostenersi che la stessa legge abbia consegnato alla suddetta fonte il potere di operare ad libitum, in spregio ai principi di logica e di ragionevolezza secondo criteri di regolarità sociale e di normale percezione dell’uomo comune (in una parola, del buon senso).
Giova preliminarmente sottolineare che nella nozione di trattamento economico fondamentale tutti i contratti delle aree dirigenziali comprendono sia il tabellare che la retribuzione di posizione-parte fissa, mentre la retribuzione di posizione-parte variabile è ambivalente: inclusa nel fisso in quanto utile agli effetti della pensione, della buonuscita, dell’indennità alimentare, del riscatto, nonché per la tredicesima; ascrivibile all’accessorio perché astrattamente differenziabile, oscillando in un’ampia fascia per essere correlata alla complessità dell’incarico dirigenziale concretamente conferito (ma nella realtà risultando fortemente omogenea). Pacificamente deve qualificarsi come trattamento accessorio la retribuzione di risultato, che è eventuale e non è utile a nessun altro effetto.
Se così è c’è allora un vincolo alla «piena» discrezionalità del contratto; che difatti attribuisce a tutti i dirigenti pubblici (inclusi i dirigenti scolastici) l’identica retribuzione tabellare e a tutti i dirigenti pubblici l’identica cifra della retribuzione di posizione-parte fissa, ora pari a 12.155,61 euro annui lordi su tredici mensilità: a tutti, tranne, e inopinatamente, che alla dirigenza scolastica – con due sole altre eccezioni (14) – tuttora inchiodata a 2.530,72 euro. Dirigenti scolastici che, oltre al riconosciuto diritto a percepire l’uguale tabellare per il sol fatto del possesso della qualifica, dovrebbero parimenti percepire – senza rilievo alcuno del comparto o area in cui sono contrattualmente collocati – l’uguale retribuzione di posizione fissa, sempre per il sol fatto che sono preposti a un qualsivoglia incarico (anzi, ufficio; meglio: organo-ufficio, dotato di personalità giuridica e di autonomia funzionale e quali soggetti apicali, e responsabili, del medesimo); quand’anche questo venga revocato – con la conseguente messa a disposizione – in esito a valutazione non positiva.
Il pregiatissimo giuslavorista bolognese è in grado di allegare una plausibile, fondata ragione giustificativa di questa aberrazione, oppure vale sempre e «a prescindere» l’imperscrutabile, ed inattaccabile, signoria di uno strumento tipicamente di tutela del lavoratore, ma paradossalmente sottratto alla tutela che invece, a principiare dalla costituzione (artt. 24, 101, 104 e 113), sarebbe assicurata a chi lavoratore non sia?
Così come il trattamento fondamentale, anche quello accessorio – e forse ancor più – si vuole rimesso all’esclusivo ed escludente imperio della contrattazione collettiva, libera di determinare la consistenza e senza che vengano in considerazione problemi di «inopportunità o di incongruità, alla luce della maggiore complessità, onerosità e responsabilità delle funzioni svolte dai dirigenti scolastici in raffronto ai dirigenti statali». Che il prof Carinci dà mostra di riconoscere, ma che comunque non hanno pregio: quel che conta è sempre la sovranità della contrattazione collettiva, non suscettibile di essere inficiata da consimili «inezie», né da altre disposizioni di legge, qui del tutto ignorate; ma che, per contro, collegate all’art. 24, d. lgs. 165/01, dovrebbero essere assunte dalla contrattazione come parametro minimo, derogabile in melius, nel momento in cui determina la consistenza dell’accessorio realmente «correlato alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità». E le funzioni, con connesse responsabilità, della dirigenza scolastica si deducono componendo – alla stregua di un’interpretazione sistematica e teleologica – singole disposizioni del  surrichiamato d. lgs. 165/01 (artt. 25 e 17, ma anche 5, 21, 28 e 29: vedasi la nota n. 2) al fine di ricavarne la norma, ad un tempo limite dell’autonomia collettiva e parametro entro cui il giudice (iura novit curia) può essere (sarà) chiamato ad esprimere il proprio libero convincimento.
Ragionevolmente, tutti i contratti collettivi di lavoro delle aree dirigenziali prefigurano la retribuzione di posizione variabile su una larga banda di oscillazione: da zero sino a 33.560 euro per la dirigenza scolastica (CCNL 2002-05 e biennio economico 2004-05), da zero a 45.348,31 euro per la dirigenza ministeriale (CCNL 2006-09 e secondo biennio economico 2008-09, con assorbimento dell’indennità di vacanza contrattuale). In fatto, però, trattasi di cifre per lo più virtuali perché, in concreto e di sicuro per la dirigenza scolastica, non si supera mai il tetto dei 10.000 euro (in media poco più di 6.000 euro, come per la dirigenza tecnica); mentre per la dirigenza amministrativa del MIUR ci si attesta, di regola, sui 13.000 euro (ma negli altri ministeri possono sfiorarsi i 30.000 euro).
La sperequazione è dunque qui meno accentuata. Resta però incontestato che la dirigenza scolastica, più complessa di quella amministrativa e, di certo, della dirigenza tecnica, è quella che ha un trattamento economico inferiore e deteriore. Lo stesso, e in più, è a dirsi per la retribuzione di risultato, in cui è palese una discriminazione operata dal contratto, senza che si riesca a cogliere nessuna ragione giustificativa: per la dirigenza scolastica è fissata al 15% della retribuzione di posizione (fissa + variabile); per la dirigenza amministrativa e tecnica dello stesso datore di lavoro, il MIUR, non può essere inferiore al 20% della retribuzione di posizione (sempre fissa + variabile). La traduzione in cifre dice non più di 1.500 euro a fronte di almeno 5.600 euro (dal sito Trasparenza del MIUR). Ma in fatto c’è un meccanismo perverso, sempre a svantaggio dei dirigenti scolastici, ormai consolidatosi sì di non poter essere ascritto al novero della contingenza.
Per la concomitanza dell’incapienza dei fondi regionali (da cui si attinge sia per corrispondere la retribuzione di posizione che di risultato) e soprattutto perché l’amministrazione non ha a tutt’oggi attivato il sistema di valutazione, alla dirigenza scolastica viene elargita una mancia, a titolo di compenso forfetario, di meno di 1.000 euro annui lordi.
Per contro, la sovrabbondanza del fondo nazionale per la dirigenza amministrativa e tecnica, in uno con un dispositivo di valutazione alquanto semplice e piuttosto «domestico», fa sì che le poco più di duecento unità in servizio nel MIUR, a fronte di un ruolo organico, ma scoperto, di oltre settecento, intascano sino a 25.000 euro ed oltre: più di un direttore generale e venticinque volte in più di un dirigente scolastico! Pur volendosi prescindere da quest’ultima singolare «anomalia», si è proprio sicuri che un giudice – prevalendo nel nostro ordinamento il principio della sostanza su quello della forma – non avrebbe nulla da dire?
II.2 – Perché al giudice, quantomeno, si può arrivare: lo concede l’autorevole parere di cui si discorre. Che «in astratto» potrebbe esprimere il proprio sindacato di «opportunità» o «incongruità» delle scelte operate dall’«autonomia collettiva». Certo è, però, che il ricorrente dirigente scolastico non potrebbe sostenere la lesione del principio della retribuzione sufficiente, «che appare del tutto inverosimile» (che verosimilmente per il prof. Carinci coincide con gli alimenti!). Quanto alla lesione dell’altro principio costituzionale della proporzionalità, la giurisprudenza – non citata – è, anche qui, ferma da oltre un trentennio «nel riconoscere proprio nelle scelte discrezionalmente operate dalle parti collettive il parametro della retribuzione». Anzi, no! Perché la stessa giurisprudenza in alcune sentenze – due delle quali questa volta citate – ha ammesso che il giudice possa sindacare l’inadeguatezza dei trattamenti economici previsti nei contratti collettivi, ma la prova, a carico del lavoratore, è una prova diabolica, trattandosi di «convincere il giudice che il parametro di adeguatezza della retribuzione che egli abitualmente utilizza, appunto il contratto collettivo, è esso stesso in contrasto con l’art. 36 [della costituzione] menzionato». E’ un po’ come il paradosso della cassaforte, per aprire la quale occorre una chiave, la quale è nella cassaforte!
            In ogni caso, per troncare ogni margine di successo, ecco infiocchettata una recente pronuncia della cassazione (n. 29761 del 18 dicembre 2008), al di cui tenore «la garanzia dell’art. 36 cost., sia il divieto di riduzione dei livelli retributivi in godimento, non possono trovare applicazione per il trattamento economico accessorio costituito dalla retribuzione di posizione, preordinata, diversamente dal trattamento fondamentale, allo svolgimento di una funzione di differenziazione e di incentivazione temporanea e revocabile in quanto strettamente connessa allo specifico incarico conferito». Pertanto, commenta il professore-avvocato, «proprio il trattamento economico del dirigente pubblico, il quale sarebbe oggetto della specifica richiesta di adeguamento che si cercherebbe di proporre, esula dalla copertura del principio costituzionale di adeguatezza della retribuzione».
Non abbiamo stimato la necessità di procurarci il testo della citata sentenza per analizzare il concreto caso specifico da cui è stata estrapolata la massima, qui bastando riprendere i termini poc’anzi sottolineati, essendo evidente che il trattamento accessorio – e proprio in virtù della disciplina contrattuale – si riferisce alla retribuzione di risultato, su cui ritorneremo in prosieguo, o, a tutto voler concedere, alla retribuzione di posizione variabile. Resta comunque fuori, oltre al tabellare, la retribuzione di posizione fissa; che alla luce della recente pronuncia della cassazione l’autorevole parere – smentendo quanto prima affermato – riterrebbe per contro coperto dal principio costituzionale di adeguatezza della retribuzione: sono più o meno 10.000 euro annui, tutt’altro che da buttare!
II.3 – «Riterrebbe», abbiamo però scritto. Ma – ovviamente – non è così. Proseguendo  in una sorta di sfibrante schema sintattico «a dispetto», viene infatti in rilievo la capziosa distinzione tra disuguaglianza e discriminazione.
L’uguaglianza retributiva, sub specie di parità di trattamento riferito a lavoratori che svolgono le stesse mansioni [ma nel caso della dirigenza scolastica sono, se non superiori, più complesse rispetto a quelle della dirigenza amministrativa e, più ancora, tecnica], non è un principio rinvenibile nel nostro ordinamento.   [certamente sì se c’è una ragione giustificativa, non già che il contratto può fare ciò che vuole: supra]. Questo, almeno, nel settore privato, mentre in quello pubblico l’art. 45 del d. lgs. 165/01 impone al datore di lavoro di garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi. Ma niente paura! Perché, essendo il limite posto alla sola contrattazione individuale, secondo il parere che stiamo contestando ancora una volta risulta confermata la libertà della contrattazione collettiva, «non obbligata da nessuna norma, né ordinaria, né tantomeno costituzionale, a predeterminare in misura uguale le retribuzioni nei diversi comparti».
La discriminazione invece, quale principio dell’ordinamento interno e dell’ordinamento comunitario, è vietata; ma nel senso che non possono differenziarsi (solo) trattamenti in atto nell’impresa tra lavoratori atipici e lavoratori tipici «comparabili». Il che significa che non può «assolutamente derivarne un’elevazione di tale regola al rango di principio generale, da estendere anche al trattamento riservato ai lavoratori appartenenti a categorie o comparti/aree diverse». E’ in questa chiave ermeneutica restrittiva che occorre pertanto leggere la sentenza della corte di giustizia europea del 13.9.2007, «laddove stabilisce che al principio di parità di trattamento retributivo non si possa derogare neanche tramite una disposizione legislativa, regolamentare o contrattuale collettiva di uno stato membro». Senonché – ancora una volta – le cose non stanno proprio così.
            La questione di fatto portata all’attenzione della corte inerisce alla richiesta di una lavoratrice spagnola – per 12 anni svolgente funzioni amministrative nel sistema sanitario pubblico come membro del «personale di ruolo a tempo determinato» – di avere gli analoghi benefici attribuiti al  «personale di ruolo a tempo indeterminato».
Il giudice comunitario glieli riconosce, diversamente integrandosi gli estremi della discriminazione, in assenza di ragioni oggettive che, per contro, potrebbero giustificarla. E le ragioni oggettive non rivengono dal solo fatto di essere previste (o non previste) da un testo legislativo o da un accordo contrattuale nazionale. Devono invece concretizzarsi in circostanze precise che contraddistinguono una determinata attività e tali da giustificare trattamenti differenziati, ovvero inerire al perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno stato membro.
Nel caso di specie non è stata ravvisata dalla corte una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato per il fatto che questa sia prevista da una norma interna generale ed astratta, quale una legge o un contratto collettivo. Va dunque applicato il diritto comunitario «armonizzatore», sub specie del divieto di discriminazione.
Per il vero, allo stato attuale del diritto comunitario, il principio di non discriminazione subisce delle eccezioni, nel senso che alcuni istituti afferenti al rapporto di lavoro sono esclusi dall’armonizzazione ex art. 136 del trattato (CE e seguenti), perché rimessi all’autonomia contrattuale delle parti sociali su scala nazionale, nonché alla competenza degli stati membri in materia. E tra le eccezioni rientra, in particolare, la «retribuzione», ovvero il livello degli stipendi. E’ d’uopo però avvertire che ogni giurisprudenza è soggetta ad evoluzione, beninteso se stimolata. E quella della giurisprudenza comunitaria, a differenza di quella della nostra corte di cassazione, è piuttosto veloce e strutturalmente dotata di una notevole forza espansiva, adusa a far prevalere la sostanza sulla forma e la piena effettività della tutela di ogni singolo soggetto lavoratore, senza farsi irretire da mere qualificazioni formali o da veri e propri dogmi (15).
Per intanto mette conto menzionare una recente sentenza (n. 1222/09) emessa dal giudice del lavoro di Livorno proprio sulla scia della pronuncia della corte di giustizia europea testé menzionata, riaffermando dei principi che trascendono il caso concreto portato alla sua (piena) cognizione.
Dei precari a tempo determinato si trovano a lavorare nella scuola con una serie di contratti rinnovati di anno in anno, ma di fatto continuativamente, senza sostanziale soluzione di continuità.
Chiedono quindi al giudice del lavoro (dopo il fallimento del tentativo obbligatorio di conciliazione) di vedersi riconosciuto il diritto agli scatti retributivi, alla pari dei colleghi a tempo indeterminato, non ritenendo giustificata una disuguaglianza retributiva (il prof. Carinci direbbe «discriminazione») a fronte di prestazioni identiche per qualità, modalità e durata, pur se regolate (e solo perché regolate) da contratti diversi.
In sede di giudizio l’amministrazione convenuta, già costituitasi, non si presenta, al contrario del dirigente dell’USP di Livorno, inopinatamente rappresentato e difeso – parrebbe – da un avvocato del libero foro; per eccepire che la sentenza del 13-9-07 della corte di giustizia europea proprio su un caso analogo (e che già ha provocato sentenze di merito nel senso richiesto dai ricorrenti), allegata a primo fondamento della pretesa attorea, qui non conta. Come non conta la parimenti asserita lesione degli articoli 3 (principio di uguaglianza, formale e nondimeno sostanziale), 36 (principio della giusta retribuzione) e – se possiamo aggiungerlo – 113 (principio dell’indefettibilità, effettività e pienezza della tutela) della costituzione. Non contano perché destinati a soccombere (?!) di fronte a contratti collettivi di lavoro del settore, che «nulla dicono in ordine agli scatti di anzianità per i contratti a tempo determinato, non menzionando detto diritto oggi vantato dai ricorrenti».
Secca, e ovvia, la statuizione del giudice – che per l’ANP e i suoi pregiati consulenti non avrebbe titolo per intromettersi nelle scelte dell’«autonomia collettiva», «per incompetenza o difetto di giurisdizione» – nell’affermare invece che la «contrattazione è pacifico che non possa essere in contrasto con norme imperative e tale deve essere considerata la costituzione della repubblica italiana che sancisce il principio di eguaglianza all’art. 3. Alla luce di detto principio appare anomala la situazione che si verifica atteso che i precari si vedono reiterare una serie di contratti a tempo determinato al posto di un contratto a tempo indeterminato. La mancata previsione degli scatti di anzianità non impedisce di riconoscerli in base ai principi generali dell’ordinamento di uguaglianza e adeguata retribuzione, sanciti nella nostra costituzione, art. 3 e 36. Per questi motivi il ricorso va accolto e gli scatti vanno riconosciuti.
Spese a carico di parte soccombente».
II.4 – Riassumendo e concludendo, la risposta al primo quesito (l’equiparazione retributiva con l’area prima) posto dall’ANP coincide con quanto l’ANP afferma da sempre: «l’inesistena di un diritto soggettivo dei dirigenti afferenti all’area V di contrattazione all’equiparazione del proprio trattamento retributivo con quello previsto per i dirigenti dell’area I Equiparazione, o anche semplice rivalutazione, che può avvenire, invece, soltanto ad opera della contrattazione collettiva». E così sia!
Di analogo tenore – per un effetto, potrebbe dirsi, di trascinamento – la risposta del secondo quesito, relativo alla perequazione retributiva interna all’area quinta a favore dei dirigenti sprovvisti di retribuzione individuale di anzianità [ma andrebbero compresi gli ex-presidi incaricati, il cui assegno ad personam è riassorbibile dai successivi contratti]. Non è, ovviamente!, un loro diritto per le considerazioni già abbondantemente profuse. Quindi attiene ad una libera scelta dell’«autonomia collettiva il quantificare in maniera assolutamente uniforme [o meno] il trattamento retributivo dei dirigenti all’interno della stessa area». Si concede, tutt’al più, che il giudice possa valutare la «congruenza della complessiva retribuzione in godimento, da parte dei dirigenti che sono stati esclusi dalla RIA, in relazione ai principi posti dall’art- 36 cost.»; da cui però «non discende un diritto del lavoratore a percepire una retribuzione strutturata su determinate voci, ma soltanto il diritto ad una retribuzione minima, proporzionata al lavoro svolto e sufficiente a garantire un reddito decoroso [sic!]». La prova, in ogni caso, «è alquanto difficile»; perché, essendo in «facoltà dell’autonomia collettiva di introdurre determinate differenziazioni di retribuzione tra dirigenti, ancorate a situazioni oggettive [ma vorremmo capire quali] …, appare del tutto legittima la scelta operata dalla contrattazione collettiva dell’area V, in relazione al riconoscimento soltanto limitato dalla RIA … scelta che non pare sindacabile in sede giudiziale».
Perciò non può avere il minimo pregio il fatto che, nel vasto e variegato arcipelago del pubblico impiego, solo per chi ha la disgrazia di provenire direttamente dalla docenza non è assicurata «dall’autonomia collettiva» nessuna anzianità retributiva nel passaggio ad una posizione dirigenziale. E a nulla rileva nell’ordinamento giuridico una disposizione imperativa (art. 486, d. lgs. 297/94) che, come a breve si vedrà, non solo consente ma impone l’attribuzione della RIA anche ai già docenti vincitori del concorso ordinario per dirigente scolastico; evidentemente ignorata dall’estensore dell’illuminato parere.
III – Quand’anche si sia in presenza di una giurisprudenza consolidata – ma che a noi è sembrata tutt’altro che pacifica, anzi! – è banale ricordare che la giurisprudenza la fanno, e la modificano, i giudici, non già pareri di avvocati-professori commissionati per vedersi avallare le proprie posizioni precostituite.
Pertanto, ora ed ancora con maggiore risolutezza, bisogna andare dal giudice per chiedere ciò che il contratto non può dare neanche in questa tornata, e siamo al terzo tentativo!: il diritto soggettivo alla perequazione interna e all’equiparazione retributiva; nella circostanza venendo fatto di domandarci se non sia auspicabile che nelle possibili future correzioni del d. lgs. 150/09 (c.d. riforma Brunetta), l’avvenuta rilegificazione di non pochi istituti inglobi anche il trattamento economico per i lavoratori del pubblico impiego, attesoché – secondo il parere qui sottoposto a disamina – gli stessi sembrano più garantiti dalla legge e dagli atti amministrativi unilaterali (16).
Allora, che parli il giudice. Al quale una trentina di dirigenti scolastici delle tre province salentine ha già indirizzato i propri ricorsi, dopo che si è consumato lo, scontato, fallimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.
III.1 – I ricorsi in parola sono stati patrocinati dall’avvocato Giuseppe Rascazzo, del foro di Lecce, e saranno discussi nelle varie udienze già fissate a decorrere dal mese di marzo 2011. Anzitutto si rivendica il diritto alla perequazione interna, ovvero il riconoscimento della retribuzione individuale di anzianità per i docenti vincitori del concorso ordinario a dirigente scolastico e per gli ex-presidi incaricati che hanno acquisito la medesima qualifica in esito ai due concorsi riservati, alla pari di coloro che – già direttori didattici o presidi – sono transitati nella dirigenza il primo settembre 2000, in esito alla frequenza di un apposito corso di formazione non selettivo.
            Si chiede al giudice di considerare che tutti i dirigenti scolastici, indipendente dai tempi e dalle modalità d’ingresso nella qualifica, provengono dalla docenza, cioè da una carriera basata su progressioni stipendiali, peraltro non per mero automatismo bensì condizionate all’accertato utile assolvimento di tutti gli obblighi inerenti alla funzione.
Al riguardo, per tutti i docenti che transitano nella qualifica superiore c’è una disposizione di legge già evidenziata, l’articolo 486 del d. lgs. 297/94 (Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), mai abrogato e/o modificato. Essa dispone che, nel passaggio al superiore ruolo direttivo, viene riconosciuta la metà del servizio di ruolo prestato nella carriera di provenienza, sia ai fini giuridici che economici ed utile a tutti gli effetti; la cui quantificazione è determinata secondo il meccanismo della temporizzazione (differenza tra lo stipendio in godimento all’atto del passaggio nella nuova qualifica e lo stipendio  iniziale della qualifica di provenienza), poi contrattualmente migliorata secondo il meccanismo del maturato economico (per chi è stato applicato). La norma parla di «personale direttivo» per la semplice ragione che all’epoca non era stata ancora istituita la dirigenza scolastica, ma non può essere revocato in dubbio – alla stregua di una interpretazione teleologica – che la sua ratio consisteva e consiste nell’attribuire ai docenti, nel passaggio alla «naturale» posizione superiore (ora dirigenziale, non più direttiva) un beneficio economico che riconosce un’acquisita maggiore qualificazione professionale, peraltro – lo si ricorda – non legata alla mera anzianità ma all’accertato utile assolvimento di tutti gli obblighi inerenti alla funzione.
In tal senso, e coerentemente, nell’Atto di indirizzo rivolto all’ARAN dall’autorità governativa per la stipula del contratto d’ingresso nella dirigenza scolastica era disposto che «contestualmente alla decorrenza della nuova struttura retributiva [dirigenziale, a stipendio unico, cioè non suscettibile di incremento per anzianità e/o per merito], si provvederà alla rimodulazione del trattamento tabellare dei dirigenti scolastici prevedendo [per l’appunto]  la soppressione degli automatismi stipendiali e, contestualmente, l’istituzione della retribuzione individuale di anzianità comprensiva degli automatismi stipendiali maturati nonché di quello in corso di maturazione».
Il susseguente primo contratto collettivo della neoistituita dirigenza scolastica, sottoscritto l’1.3.02, all’art. 37 ha riconosciuto la retribuzione individuale di anzianità, aggiungendovi un «ove acquisita e spettante».
Attesa la sedes materiae, trattasi (si sarebbe dovuto trattare) di una specificazione del tutto inconferente, perché – a differenza di chi accede alla dirigenza pubblica per corso concorso indetto dalla Scuola superiore della P.A. ovvero dall’esterno come esperto – per l’accesso alla dirigenza scolastica c’è sempre, e necessariamente, un ruolo di provenienza, che è quello docente. Sicché tale disposizione contrattuale non può che essere interpretata alla luce del citato atto di indirizzo ministeriale, cioè che «contestualmente» alla soppressione degli automatismi stipendiali doveva essere istituita una «retribuzione individuale di anzianità comprensiva degli automatismi stipendiali maturati nonché di quello in corso di maturazione». Va quindi da sé che la RIA di ogni dirigente – indipendentemente dal tempo e dalle modalità con cui lo stesso ha conseguito la nuova qualifica – deve includere il valore economico delle posizioni stipendiali, a volte anche notevoli, maturate nella carriera precedente.
Diversamente opinandosi e ammettendosi, come mera ipotesi, l’argomentazione del prof. avv. Carinci (che non vale la comparazione con le altre aree dirigenziali, siccome non omogenee, per le quali il maturato economico viene sempre corrisposto a titolo di RIA), saremmo di fronte ad una, più che ingiustificata, assurda discriminazione.
Si consideri, infatti, che:

  1. chi, già docente, si è visto tramutare la qualifica direttiva in dirigenziale con la semplice frequenza di un corso di formazione ad hoc ha la RIA;
  2. chi, restando docente, ha avuto l’incarico di presidenza ed in costanza del medesimo ha acquisito la qualifica dirigenziale grazie ad un concorso riservato non particolarmente cruento, ha un assegno ad personam, sia pure riassorbibile nelle successive tornate contrattuali;
  3. chi, docente magari con 25-30 anni di ruolo (e talvolta di più), ha conseguito la qualifica dirigenziale passando per le forche caudine del più selettivo – per taluni versi vessatorio – dei concorsi di accesso alla dirigenza, non si vede riconosciuto un bel nulla!

Tre distinti regimi retributivi, pur in presenza di posizioni omogenee, appartenenti alla stessa area contrattuale, svolgenti la stessa funzione, negli stessi uffici della stessa amministrazione. Anzi, virtualmente quattro! Perché vi sono docenti con incarico di presidenza, perciò beneficiari del concorso riservato (e superato). Solo che, nelle more, non hanno avuto la conferma dell’incarico, espletato per più anni, per mancanza di posti liberi e non già per valutazione negativa, e dunque sono tornati all’insegnamento. Sicché quando sono stati immessi nel ruolo dirigenziale, in quanto provenienti «direttamente» dalla docenza, non si son visti riconoscere né la RIA né l’assegno ad personam
Dov’è la logica in questa follia?
Se il prof. Carinci non è ancora fermo nell’interpretazione riduttiva del divieto di discriminazione, che varrebbe solo per equiparare personale di ruolo e personale non di ruolo in costanza di supplenze annuali conferite senza soluzione di continuità, si potrebbe sperare di avere accesso al giudice; davanti al quale non crediamo proprio che debba essere offerta una prova «diabolica», perché i parametri per poter quantificare e dichiarare quanto spettante nel suo preciso ammontare ci stanno tutti.
III.2 – Riconosciuta la perequazione interna, si domanderà al giudice di dichiarare il diritto all’equiparazione retributiva e conseguente condanna dell’amministrazione ad adempiere.
I motivi a sostegno del petitum possono dedursi da quanto sinora argomentato e dettagliato in nota (cfr: in particolare nota n. 2), che giova riassumere con le occorrenti puntualizzazioni, anche alla luce delle nuove disposizioni di legge recate dal d. lgs. 150/09 (riforma Brunetta).
Per tutta la dirigenza – compresa la dirigenza scolastica – vige la stessa struttura retributiva, la cui configurazione prevede anzitutto il trattamento fondamentale, costituito dal tabellare e dalla retribuzione di posizione-parte fissa, che secondo la cassazione (sentenza n. 23760/04) remunera le funzioni che in concreto ogni dirigente svolge, differenziabili per legge – artt. 15 e 23, d. lgs. 165/01 – a seconda che trattasi di dirigenza di prima o di seconda fascia; ché altre non ne esistono! Sempre secondo la sentenza appena menzionata sono possibili solo apposite sezioni per la dirigenza tecnica, connotata da professionalità specifiche, che non esercita le tipiche funzioni di amministrazione e di gestione connesse alla preposizione ad un ufficio o sua partizione interna.
E’ indubitabile che la dirigenza scolastica, in parte disciplinata da una norma speciale, qual è l’art. 25 (e, per il reclutamento, l’art. 29), per il resto partecipa dei profili strutturali e funzionali di tutta la dirigenza pubblica, di cui al titolo II, capo II, artt. 13 – 29bis d. lgs. 165/01.
Senonché l’art. 5 del CCNL dell’area quinta della dirigenza scolastica, biennio economico 2004-05, ha determinato nella misura di € 2.530,72 annui la retribuzione di posizione fissa, a fronte di € 11.262,77 per tutte le altre aree dirigenziali di pari seconda fascia (con il biennio 2008-09 portati a € 12.155,61), in chiaro contrasto con il criterio legale di cui al combinato disposto del più volte citato art. 24 e degli artt. 15, 19 e 23 del d. lgs. 165/01; che, evidentemente, più che rispondere ad una mera esigenza di parità retributiva, vuole compensare l’intervenuto conferimento ed esercizio di una funzione dirigenziale di identica seconda fascia, non facendo – tale disposto – altra distinzione e prescindendo dai comparti/aree contrattuali di collocazione, che possono rilevare ad altri, limitati, fini (ad esempio, per quanto attiene alle modalità della valutazione).
Ne riviene che il contratto collettivo della quinta area della dirigenza scolastica dovrebbe essere dichiarato nullo in parte qua, ai sensi dell’art. 1418 cc, per violazione di norme imperative inderogabili; con la sostituzione della clausola viziata ad opera di quella contenuta nel contratto dell’area prima (che prevede una retribuzione di posizione-parte fissa di € 12.155,61), ai sensi degli artt. 1339 e 1419, secondo comma. Qualora invece il giudice non ritenga sussistente la fattispecie di cui al primo comma dell’articolo  del codice civile per ultimo menzionato («La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del contenuto che è colpita dalla nullità»), potrà proporsi l’azione, sussidiaria, di indebito arricchimento ex art. 2041 cc, sotto il profilo del risparmio di spesa a vantaggio dell’amministrazione, che ha richiesto una prestazione dirigenziale, che della medesima si è giovata e continua a giovarsi, e che non la remunera nella misura in cui è obbligata. Né può l’amministrazione (il governo) reiterare – come fa dal 2002 – l’asserita insufficienza delle risorse finanziarie, con la contestuale promessa di rinviare l’equiparazione al contratto successivo e a tutt’oggi (e per l’immediato futuro) regolarmente disattesa. Perché poteva adottare – ma non l’ha mai fatto – un provvedimento limitativo o sospensivo della funzione dirigenziale che ben sapeva non poter essere retribuita per intero.
Anche qui, per l’equiparazione retributiva nella sua parte fissa, i parametri a disposizione del giudice per la determinazione del dovuto sono attingibili de plano.
Per quel che concerne invece la retribuzione di posizione nella parte variabile, le cui distanze – almeno con riferimento ai dirigenti di seconda fascia del MIUR – sono più contenute (in pejus, ovviamente), deve purtuttavia considerarsi che quella scolastica è ictu oculi una dirigenza contrassegnata da polivalenti ed eterogenei profili di complessità, con connesse responsabilità non di rado pesantemente sanzionabili, non rinvenibili nel profilo (e nel concreto esercizio della funzione) della dirigenza amministrativa.
Oltre alle disposizioni di legge non infrequentemente rimarcate, ne è riprova la disciplina di accesso alla qualifica, separatamente figurante nell’art. 29 del d. lgs. 165/01, richiedente il possesso dei requisiti maggiori e più specifici ed una procedura concorsuale più articolata e complessa rispetto a quanto previsto dall’art. 28 per tutti gli altri dirigenti di pari seconda fascia.
Senonché il trattamento riservatole dal contratto la configura come una dirigenza atipica di rango inferiore, creando in fatto e surrettiziamente una dirigenza di terza fascia, nel mentre – e per contro – sempre la legge le attribuisce un aliquid pluris.
Vale perciò, e non meno, quanto innanzi dedotto in ordine alla retribuzione fissa: la richiesta della declaratoria di nullità del contratto in parte qua per violazione della norma imperativa di cui al pluricitato art. 24, d. lgs. 165/01, laddove prescrive che la retribuzione accessoria dev’essere correlata alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità, nonché ai risultati conseguiti.
In presenza di parametri più mobili, come del resto evidenziati dalla sua larga banda di oscillazione (da zero a oltre 45.000 euro), si potrebbe domandare al giudice una valutazione equitativa.
Infine, la retribuzione di risultato.
Le vigenti disposizioni contrattuali di tutte le aree dirigenziali prevedono, in attuazione dei criteri fissati dall’art. 24 d. lgs. 165/01 in materia di retribuzione dei dirigenti, che la retribuzione accessoria tenga conto dei risultati ottenuti dal dirigente nel conseguimento degli obiettivi assegnati. Le modifiche al d. lgs. 165/01, recentemente introdotte dal d. lgs. 150/09 (c.d. decreto Brunetta) hanno ulteriormente rimarcato la rilevanza di tale voce retributiva in relazione alle funzioni dirigenziali. Orbene, nell’istituire l’area dei dirigenti scolastici la legge ha previsto che essi «rispondono, agli effetti dell’articolo 21, in ordine ai risultati, che sono valutati tenuto conto della specificità delle funzioni e sulla base delle verifiche effettuate da un nucleo di valutazione istituito presso l’amministrazione scolastica regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all’amministrazione stessa» (art. 25, c. 1 del d. lgs. 165/01). A distanza di ormai dieci anni dall’istituzione di tale area dirigenziale, il ministero dell’istruzione non ha mai provveduto a costituire il sistema di valutazione, nonostante che esso fosse stato già dettagliatamente disciplinato dal legislatore, in relazione ai risultati conseguiti. Sicché, a tutt’oggi, non potendo essere espletata alcuna valutazione, viene corrisposta un’indennità di risultato in misura irrisoria e uguale per tutti – a fronte di risultati evidentemente di alto livello che pur vengono pretesi da parte datoriale – con la sola esclusione dei dirigenti che siano incorsi in situazione di responsabilità o di revoca dell’incarico (art. 2 del CIN). Appare pertanto evidente l’elusione delle finalità del predetto istituto retributivo e l’ingiustificato inadempimento del ministero nell’attuazione di una puntuale disposizione di legge. Perciò, non potendo ricadere ingiustamente sui dirigenti scolastici il danno economico conseguente a tale inadempimento e concretizzantesi nella percezione di una indennità di risultato fittizia, essi hanno titolo a richiedere, a titolo risarcitorio, la corresponsione di una somma, da determinarsi in via equitativa se non sarà possibile quantificarla nel suo preciso ammontare.
IV – Spesso ci è capitato, nelle interlocuzioni informali con dirigenti sindacali delle cinque sigle rappresentative, di sentirci dire che la via giudiziaria è pericolosa perché, a fronte di sentenze negative, il sindacato non avrebbe più la forza per rivendicare la perequazione interna e l’equiparazione retributiva.
Può essere astrattamente, solo astrattamente, vero. E tuttavia, a parte l’ovvia considerazione che i gradi di giudizio sono tre (e con l’ulteriore possibilità di investire la corte di giustizia europea, nonostante il contrario avviso di autorevolissimi pareri), quali sarebbero i vantaggi della teorizzata dissuasione? A fronte di dieci anni di insuccessi della via negoziale?
Perché, con questo passo, l’obiettivo non potrà essere centrato se non su tempi talmente lunghi da riuscire intollerabili, forse a fine millennio. Quando – per parafrasare il celebre economista Keynes – saremo tutti morti.
Allora, e ancora, stiamo ai fatti. Che sono cocciuti e non si prestano alle manipolazioni frutto dei consueti artifici dialettici, reiterati sui siti delle OO.SS. rappresentative e nelle assemblee in corso rivolte alla categoria.
L’ultimo incontro al tavolo delle trattative – il trentesimo ed oltre, mettendo insieme le negoziazioni informali e le riunioni per gli «approfondimenti tecnici» – si è avuto ieri l’altro, il 3 maggio 2010, dove è rispuntato il secondo biennio economico 2008-09, che sembrava passato in cavalleria e per il quale – a quanto ne sappiamo – manca ancora l’atto di indirizzo all’ARAN.
Dunque, alle risorse contrattuali del biennio economico 2006-07, quantificabili in circa 200 euro mensili lordi, dovrebbero aggiungersene poco più di 150. Sottratti cinquanta euro, già percepiti a titolo di indennità di vacanza contrattuale per i due cennati bienni economici, siamo sui 300 euro, traduzione monetaria del tasso di inflazione programmata nel decorso quadriennio. Con questa cifra dovrebbe realizzarsi il riallineamento tabellare della dirigenza scolastica a quello della restante dirigenza pubblica, da 41.129,88 a 43.310,90 euro: l’unica voce retributiva che resta (e dovrebbe restare) uguale per tutta la dirigenza di seconda fascia, quella scolastica inclusa.
Residuerebbe un qualcosina per incrementare la retribuzione di posizione nella sua parte fissa, schiodandola dagli attuali euro 2.530,72, fermi da cinque anni, nella vana rincorsa della «generica» dirigenza pubblica, nel frattempo passata da 11.272,77 euro a 12.155,41 euro susseguenti al già incassato secondo biennio economico 2008-09. Vana rincorsa, perché sono cifre parametrate sull’unico tasso di inflazione programmata; tal che è ben evidente l’allargamento e non già l’accorciamento delle distanze retributive: altro che equiparazione, sia pure parziale, o «graduale percorso di allineamento delle retribuzioni dei dirigenti scolastici alle altre dirigenze dello stato», nel sublime linguaggio amministrativese-sindacalese!
In direzione della suddetta equiparazione dovrebbe sovvenire il Protocollo d’intesa tra OO.SS. e MIUR del 15 aprile 2010, che secondo l’ARAN reca la soluzione della c.d. incapienza dei fondi regionali, con i quali si remunerano la retribuzione di posizione (fissa e variabile) e la retribuzione di risultato (sic!); nel mentre, da parte sindacale, si ha almeno il pudore di non sostenere più questa bufala. Lo abbiamo – e non solo noi – non infrequentemente scritto: questo protocollo – una innocua dichiarazione di intenti priva di qualsivoglia ancoraggio normativo – è una semplice partita di giro, se non un volgare gioco delle tre carte; perché la colmatura dei fondi regionali, agli importi nominali del 2006-07, viene realizzata con la RIA dei pensionati, che pertanto non concorrerà più agli aumenti automatici dei dirigenti scolastici che rimangono in servizio. La ragione è banale: nel salvifico protocollo non c’è, infatti, il becco di un quattrino!
E ciò – si badi bene – nella più rosea delle ipotesi, avendo i sindacati rappresentativi sciaguratamente sottoscritto in diverse regioni contratti integrativi in perdita rispetto al 2006, come in Puglia (CIR del 30.4.09), in cambio della promessa dell’amministrazione di non diminuire gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato e di non procedere nel recupero degli arretrati in attesa che l’intricata questione fosse risolta a livello nazionale.
Sicché ora il riallineamento sarà operato sugli importi definiti nei nuovi CIR, inferiori di 1.000-1.500 euro rispetto alle cifre – nominali – di tre anni fa!
E’ questo il regalo dei sindacati rappresentativi operanti nelle periferie, composti da soggetti che (ad esclusione dell’ANP, finché magari non deciderà di mandare ai tavoli negoziali qualche «alta professionalità») sono docenti e ATA (naturalmente, «distaccati a vita»), che hanno dato prova, ad un tempo, di insensibilità, insipienza e menefreghismo nei confronti dei loro «datori di lavoro», se mai dovessero rimetter piede in un’anonima aula scolastica o negli stressanti uffici di segreteria; nel mentre ben potevano rifiutarsi di firmare un nuovo CIR lasciando all’amministrazione la responsabilità di disdettare quello corrente e di procedere, nel caso, unilateralmente: quando si dice del «valore aggiunto della confederalità»!
E a proposito di intese, ce n’è un’altra spuntata fuori in 29 aprile, tre giorni prima dell’incontro – interlocutorio, essendosi calendarizzato il prossimo per il 13 maggio – che rende disponibile una somma di cinque milioni di euro, «una tantum ed in via del tutto eccezionale», la cui esigibilità è però condizionata dal «primo provvedimento legislativo utile». Anche qui il valore giuridico, cioè giuridicamente esigibile, di questa intesa è nullo (17). Peraltro la sperata disponibilità aggiuntiva non si comprende bene come, per chi e per quanti dirigenti scolastici debba essere utilizzata: per conseguire «tangibili risultati sul piano dell’equiparazione interna» (ANP)?; per integrare le disponibilità relative al secondo biennio economico 2008-09 (CISL e SNALS)?; da distribuire egualmente per «garantire il recupero del potere d’acquisto per tutti i dirigenti» (CGIL)?
Proviamo a non essere ingenerosi nei confronti del sindacato (d’accordo: non è la controparte!), ponendo in parentesi quanto innanzi – e pure in altre sedi – argomentato e non considerando i disastri combinati in periferia con la gratuita (in senso pieno e letterale) sottoscrizione di CIR a perdere. Proviamo ad ammettere che più di tanto – a fronte di una granitica posizione dell’amministrazione datrice di lavoro – non si è potuto (non si potrà) spuntare, essendo stato raschiato il barile sino alla morchia. Sicché – pur in cotanta confusiva incertezza – diventa una necessità firmare comunque un contratto scaduto da quattro anni e mezzo: si avrà un fugace sollievo nell’intascare gli arretrati per rivitalizzare non entusiasmanti buste-paga falcidiate da tre anni di progressive tosature, ma con l’acre consapevolezza che, dal giorno dopo, i dirigenti scolastici saranno più pezzenti di prima.
Lo si firmi, ma con un’allegata dichiarazione a verbale che spieghi la ragione, l’unica ragione, poc’anzi evidenziata.
Subito dopo, però, CGIL e CISL, se quanto promesso non è una presa in giro, dovranno sostenere i propri iscritti nell’azione giudiziaria, magari aggregando SNALS e UIL, sinora silenti.
Perché, per il triennio 2010-2012 nulla di buono è dato di presagire sulla via dell’equiparazione retributiva: sarà l’ennesimo e sterile tormentone. A parte il fatto che i nuovi meccanismi legali vogliono concentrare gli aumenti retributivi – si parla di invarianza di risorse – su una ristretta cerchia di dirigenti valutati «eccellenti», ancora una volta l’unico parametro è l’inflazione programmata, sia pure con i nuovi indici europei, al netto di quella importata per i prodotti energetici. Risorse fresche non ce ne saranno, perché la scuola, con i suoi operatori, dovrà assicurare 8 miliardi di euro entro il 2012, imposti dalla cura tremontiana: bazzecole rispetto agli oltre 500 miliardi che lo stato italiano si è impegnato a versare alla Grecia, che non potrà più regalare 1.000 euro mensili di pensione alle zitelle figlie di pubblici impiegati. Per ora, dallo scorso aprile, è scattata l’indennità di vacanza contrattuale (e sono tre), pari all’astronomica cifra di euro 13,89 mensili lordi, che diverrano 23,15 a far data dal prossimo luglio.
Dal giudice, dunque! E senza inutili diversivi. Sperando che strada facendo si incroci anche la disponibilità dell’ANP. Che potrebbe aver mutato opinione sulla scorta di queste gratuite (nel senso letterale di rese gratis) «elucubrazioni» di un anonimo ex iscritto, che ha avuto l’ardire di contestare illuminati pareri di segno contrario.

 

- NOTE -
(1) Vi si legge di «venditori di fumo tendenti ad alimentare aspettative che possono essere soddisfatte solamente al tavolo contrattuale». Perché «essendo la questione della perequazione stipendiale di natura squisitamente pattizia … non può venire risolta per via giudiziaria non suscettibile, per difetto di giurisdizione e per incompetenza, di essere affrontata e risolta da un giudice del lavoro». Ne sarebbe inconfutabile riprova «la circostanza che nei pochi casi in cui iniziative di tal genere sono state avviate i tentativi di conciliazione sono andati deserti perché il ministero non solo non si è presentato ma non ha nemmeno inviato alcuna memoria difensiva a dimostrazione della forza della posizione dell’amministrazione sul terreno giudiziale [o non, piuttosto, perché – oltre a non avere/volere mettere neanche un euro sul piatto – era consapevole di non poter allegare uno straccio di motivazione plausibile?]».

(2) Riportiamo, al riguardo, quanto da noi argomentato nello scritto Per un ricorso al giudice del lavoro: se non ora, quando?, novembre 2009, pubblicato in www.edscuola.it
Scrivevamo che il nucleo fondamentale della dirigenza nelle istituzioni scolastiche è nell’art. 25, nonché nella versione originaria dell’art. 29, d. lgs. 165/01, afferente al sistema di reclutamento (poi novellato dal d.p.r. 140/08, ai sensi dell’art. 1, comma 618, legge 296/06). Operando una trasposizione soggettiva, risulta che il dirigente scolastico :

  1. è organo di vertice, con rappresentanza legale e rilevanza esterna, di un’amministrazione pubblica, qual è ogni istituzione scolastica, distinta benché non separata dallo stato-amministrazione (nello specifico il MIUR), a tenore dell’art. 1, comma 2, d. lgs. 165/01 (cfr. altresì l’art. 14, comma 7-bis, d.p.r. 275/99);
  2. nei limiti dell’autonomia funzionale dell’istituzione scolastica e nel rispetto dei vincoli di sistema (del sistema pubblico nazionale di istruzione e formazione) per il doveroso (non già libero) perseguimento dello scopo istituzionale (istruire, educare e formare), il dirigente scolastico non soggiace ad alcun rapporto di gerarchia (cfr. art. 14, comma 7, d.p.r. 275/99, circa la definitività delle sue determinazioni) né al generale principio – codificato nell’art. 4 del d. lgs. 165/01 per tutta la dirigenza pubblica, compresa quella di prima fascia – che vuole separate le funzioni di indirizzo politico e amministrativo dalle funzioni di gestione. Benché le prime siano formalmente intestate – per quanto di rispettiva pertinenza – agli organi collegiali, è pur vero che il dirigente scolastico vi incide nella sostanza in virtù del potere di proposta nel consiglio d’istituto (artt. 8-10, d. lgs. 297/94) e, più ampiamente, di presidenza dei consigli di classe (art. 5), del collegio dei docenti (art. 7), del comitato per la valutazione del servizio dei docenti (art. 11). Il che è a dire che egli, sul piano dell’effettività, è anche organo di governo. Se ne ha testuale riscontro nell’articolo 25, comma 6, d. lgs. 165/01, in cui è scritto che «il dirigente presenta periodicamente al consiglio di circolo o d’istituto [organo d’indirizzo politico per antonomasia, in quanto esponenziale della c.d. comunità scolastica] motivata relazione sulla direzione e il coordinamento dell’attività formativa, organizzativa e amministrativa al [solo] fine di garantire la più ampia informazione e un efficace raccordo  per l’esercizio delle competenze degli organi della istituzione scolastica»; mentre è valutato, nell’ambito della responsabilità dirigenziale, dal direttore dell’ufficio scolastico regionale (rappresentante in loco del MIUR), deputato altresì all’assegnazione di specifici obiettivi integranti quelli istituzionali significati nella norma generale in sede di conferimento dell’incarico;
  3. è, naturalmente, responsabile della generale ed  unitaria gestione delle risorse strumentali e finanziarie (in ciò avvalendosi del direttore dei servizi generali e amministrativi, già responsabile amministrativo, assegnandogli gli obiettivi e impartendogli le relative direttive di massima: art. 25, comma 5, d. lgs. 165/01) e delle risorse umane, con l’obbligo di valorizzarle a conseguenziale interfacciamento con non meno di 60-70 soggetti professionali (ma che possono sfiorare i 150), in esito al dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche ex d.p.r. 233/98 (di regola aventi una popolazione scolastica tra i 500 e i 900 alunni);
  4. deve attivare, e coordinare, i rapporti con gli enti locali e con le «diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti nel territorio» (art. 3, 4° comma, d.p.r. 275/99), compresi famiglie e studenti: il che è a dire direttamente sovraesposto socialmente nei confronti di un’utenza potenzialmente illimitata;
  5. esercita le funzioni già di competenza dell’amministrazione centrale e periferica relative alla carriera scolastica e al rapporto con gli alunni, all’amministrazione e gestione del patrimonio e delle risorse nonché allo stato giuridico ed economico del personale non riservate, da specifiche disposizioni, all’amministrazione centrale e periferica, oltre alle attribuzioni già rientranti nella competenza delle istituzioni scolastiche (art. 14, comma 1, d.p.r. 275/99) con gli inerenti provvedimenti dotati del carattere di definitività, escluse le specifiche disposizioni in materia di disciplina del personale e degli studenti (art. 14, comma 7, d.p.r. 275/99, supra);
  6. è titolare delle attività negoziali sulla base di un autonomo bilancio e, di regola, senza altro vincolo di destinazione che quello prioritario per lo svolgimento delle attività di istruzione, di formazione e di orientamento proprie dell’istituzione scolastica interessata, come previste ed organizzate nel piano dell’offerta formativa (art. 1, comma 2, d.i. 44/01);
  7. in forza della sua qualificazione giuscivilistica (e penalistica) di datore di lavoro, è, ancora,  titolare delle relazioni sindacali (art. 5, comma 2, d. lgs. 165/01) ed, ampliamente, è assoggetato a tutte le norme di tutela dei lavoratori in materia di comportamento antisindacale, ex legge 300/70 (con afferente legittimazione processuale), di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ex d. lgs. 81/08, di privacy ex d. lgs. 196/03: con dirette e personali responsabilità penali e amministrative, trattandosi per lo più di norme sanzionatorie quand’anche depenalizzazione alla stregua della legge 689/81 (deve, insomma, pagarsi un avvocato).

    Si vedano, per contro, le funzioni dei dirigenti (non scolastici) elencate nell’art. 17 del d. lgs.   165/01, congiuntamente al d.p.r. 17/09 (Regolamento recante disposizioni di riorganizzazione del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca), in particolare gli articoli 8 e 10. Vi si legge che i dirigenti formulano proposte ed esprimono pareri al direttore generale; attuano i [singoli e specifici] progetti e le inerenti gestioni ad essi assegnati, unitamente all’adozione dei relativi atti e provvedimenti amministrativi; svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati , sempre dal direttore generale; coordinano e controllano l’attività dei dipendenti uffici [rectius: dei presidi territoriali dell’unico organo-ufficio di livello dirigenziale generale ovvero dei settori interni in cui lo stesso è organizzato], con poteri sostitutivi in caso di inerzia; provvedono alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri (meri) uffici.
      Trattasi, come è ben evidente, di una dirigenza cui sono estranei tutti ( o quasi) quei profili di complessità (e di responsabilità) propri della dirigenza delle istituzioni scolastiche: di una dirigenza non connotata dall’immedesimazione organica con un autonomo (ed autoconsistente) organo-ufficio pubblico a rilevanza esterna, senza un autonomo bilancio da gestire, datrice di lavoro – se datrice di lavoro – alquanto soft, priva di esposizione sociale, avvalentesi dell’opera di qualche decina di persone (e spesso molte di meno) per l’esercizio di competenze raramente autonome e/o precostituite ex lege bensì prevalentemente delegate e/o di supporto per la realizzazione di obiettivi e programmi circoscritti, ben sconditi, in definitiva semplici (si vedano sui siti degli uffici scolastici regionali i rispettivi organigrammi e, a mo’ di esempio, le disposizioni organizzative emanate dal direttore generale dell’USR Puglia, prot. AOODRPU 8519/usc. Del 30 settembre 2008).
La dirigenza tecnica poi è addirittura priva di una struttura fisica da governare e l’esercizio della funzione è determinato con apposito atto d’indirizzo del ministro (art. 9, d.p.r. 17/09, cit.), essa esplicandosi in un contributo di promozione nonché nel coordinamento di attività di aggiornamento del personale della scuola, nelle proposte e pareri in tema di programmi d’insegnamento, di sussidi didattici e tecnologie di apprendimento, di iniziative di sperimentazione, di assistenza tecnica e consulenza alle istituzioni scolastiche, infine attendendo ad ispezioni disposte dall’amministrazione (art. 397, comma 3, d. lgs. 297/94), ovvero – nella più sintetica riformulazione dell’art. 19, comma 10, d. lgs. 165/01 – in attività ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi speciali previsti dall’ordinamento: laddove qui è difficile rinvenire i tipici contenuti, strutturali e funzionali, di qualsivoglia dirigenza (dunque, nella sostanza, è una «non dirigenza», o dirigenza quoad pecuniam). 
E vi è di più. Perché i dirigenti (non scolastici) sono sottoposti alla direzione, coordinamento e controllo del direttore generale, anche con potere sostitutivo sui loro singoli atti, in quanto unico titolare di organo-ufficio e loro gerarchicamente sovraordinato, a mente dell’art. 16, d. lgs. 165/01 circa le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali. Il che – a ben riflettere – significa più tutele e meno responsabilità.
La più volte annotata maggiore complessità della dirigenza scolastica – che dovrebbe (dovrà) riverberarsi su un trattamento economico effettivamente correlato alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità – emerge altresì dal differente sistema di reclutamento.
Per l’accesso alla generale dirigenza pubblica l’articolo 28 del d. lgs. 165/01, integrato dal regolamento ex d.p.r. 272/04, prevede come canale ordinario  un concorso per esami indetto da ogni pubblica amministrazione, eventualmente preceduto da una prova di preselezione, cui possono partecipare i dipendenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni muniti di laurea e che abbiano compiuto almeno cinque anni di servizio. Le prove scritte sono due (con facoltà dell’amministrazione, da menzionare espressamente nel bando, di una terza prova scritta per specifiche sezioni tecniche) cui segue un colloquio individuale in caso del loro avvenuto superamento, infine un periodo di formazione non selettivo.
Per contro, all’aspirante dirigente scolastico il successivo articolo 29 – lex specialis – impone (rextius: imponeva, perché e per il futuro è stato riscritto, a misura «umana» dal già citato d.p.r. 140/08) un ben più pesante dispositivo, dettagliato (e complicato) ad hoc, in chiaro eccesso di potere, dal finora unico ed autoconsistente bando concorsuale emanato (d.d.g. del 22-11-2004):

  1. possesso di laurea e sette anni (non cinque) di servizio nel ruolo docente;
  2. preselezione per titoli con effetto di sbarramento, cioè tale da vanificare il possesso dei requisiti di legge (ora invece i titoli saranno valutati in esito al superamento di tutte le prove concorsuali, libere prove di preselezione comprese: resta comunque un concorso per esami e titoli);
  3. due prove scritte (stesura di un saggio e predisposizione di un progetto);
  4. un colloquio di gruppo, se superato il quale segue un colloquio individuale;
  5. ammissione a un periodo di formazione, previo posizionamento utile nella graduatoria formatasi sulla base del punteggio conseguito nelle prove scritte e orali;
  6. ulteriore esame finale, e selettivo, ancora con prova scritta e prova orale, compiuto il periodo di formazione;
  7. e finalmente … o forse non ancora.

(3) Di tali ordini del giorno, unitamente alle promesse di una equiparazione retributiva – costantemente fatta slittare in avanti – negli atti di indirizzo propedeutici all’apertura dei tavoli negoziali per i rinnovi contrattuali, si fa partitamene menzione nell’Atto di messa in mora e diffida del 10 febbraio 2009, ad opera di FLC CGIL e CISL SCUOLA contro il MIUR e il MEF, di adempiere entro trenta giorni adottando gli opportuni provvedimenti per realizzare, nei confronti della dirigenza scolastica, la perequazione interna e l’equiparazione retributiva con la dirigenza ministeriale dell’area prima. Si avvisava che, perdurando l’omissione, si sarebbe proceduto all’azione giudiziale avanti al giudice del lavoro per il riconoscimento di detto diritto e per condanna dell’amministrazione al risarcimento di tutti i danni maturati e maturandi. Naturalmente la si è tirata per le lunghe, nel contempo, ed incoerentemente, restando abbarbicati ai venti e più tavoli negoziali di una (finta) trattativa in cui, da subito, l’amministrazione aveva messo sul piatto della bilancia il solo recupero dell’inflazione programmata per il trapassato biennio 2006/07, poco più di 200 euro lordi medi mensili, palesemente neanche in grado di mantenere il potere di acquisto della retribuzione rispetto al precedente contratto. Fino a quando, prendendo a pretesto come risolutivo il Protocollo d’intesa del 15 marzo 2010, FLC CGIL e CISL SCUOLA si sono determinate (si stanno determinando) a firmare il «contratto della vergogna», senza neanche bisogno di ritirare i ricorsi (mai) depositati presso i giudici del lavoro, perché mai approntati, non essendosi mai andati oltre la suddetta diffida.
Era una bufala, ma ora è emersa alla luce del sole.

(4) Si veda, nel punto, il nostro Svendesi dirigenza scolastica, tuttora ospitato sulla prima pagina di questa rivista.

(5) La decisione di firmare un contratto, sostanzialmente imposto da FLC CGIL e CISL SCUOLA, per il timore di restare esclusi dai successivi tavoli negoziali (a trattare che?) è stata presa dall’ANP nel consiglio nazionale del 10 e 11 aprile 2010, in cui c’è stata – evento rivoluzionario – una serrata discussione e in cui si è financo votato, pare per appello nominale. Non sappiamo, né ci interessa sapere, se i circa venti voti contrari comporranno l’ennesima lista di proscrizione, magari alimentata dai numerosi presidenti regionali e/o provinciali che hanno abbandonato l’aula prima del voto. Quel che è certo è che si è bellamente soprasseduto al mandato dei soci, che avevano impegnato la dirigenza dell’ANP a non sottoscrivere alcun contratto che non contenesse la perequazione interna e l’equiparazione retributiva.

(6) Occorre sottolineare che il prossimo contratto 2010-12, triennale sia per la parte economica che per quella normativa, coinciderà con il completamento dei tagli tremontiani, sulla scuola e sul suo personale, di circa 8 miliardi di euro. Sulla scorta del d. lgs. 150/09, c.d. riforma Brunetta, e, nello specifico, dell’Intesa per l’applicazione dell’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali nel settore pubblico, sottoscritta il 30 aprile 2009 da UIL e CISL, ma non dalla CGIL, gli incrementi economici saranno calcolati nell’indice dei prezzi IPCA (cioè sulla base dell’inflazione europea) al netto dei prodotti energetici importati. Di più, è d’uopo essere avvertiti che ogni incremento retributivo (non meramente simbolico) dovrà essere erogato in maniera selettiva e ad invarianza di spesa totale, anzi in presenza di una (notevole) riduzione della spesa pubblica (supra). Dunque dragando le occorrenti risorse del salario di base; che così diventa, propriamente e tecnicamente, un «trattamento minimo», uguale su tutto il territorio nazionale.
Tal che, a voler fare sfoggio di inguaribile ottimismo, perequazione interna ed equiparazione retributiva, potrebbero realizzarsi – astrattamente – non prima della tornata contrattuale 2013-2015 [per più analitiche argomentazioni si veda il nostro articolo Il nuovo modello contrattuale e le sue ricadute sulla scuola, in Scuola & Amministrazione, settembre 2009].
Per contro potremmo ipotizzare i benefici economici, per effetto di trascinamento, rivenienti dalla riduzione degli attuali otto comparti dirigenziali in non più di quattro. Considerato che il trattamento fondamentale (tabellare e, soprattutto, retribuzione di posizione-parte fissa), uguale per tutte le attuali sette aree dirigenziali, è di gran lunga superiore a quello della dirigenza scolastica, recintata nella riserva indiana della quinta area a contemplare la propria ineffabile «specificità», si potrebbe ben professare un (almeno moderato) ottimismo. Ma c’è la trappola delle apposite «sezioni contrattuali» interne alle aree dirigenziali, che però continuerebbero a giustificarsi per collocarvi delle specifiche professionalità tecniche (ad es., con riferimento alla tuttora vigente prima area della dirigenza ministeriale, medici chirurghi e medici veterinari, chimici, biologi, farmacisti e psicologi), non già una dirigenza scolastica, partecipante sia dei profili amministrativo-gestionali che tecnico-professionali: ma tant’è. Ed in effetti è inquietante quel che è scritto nel recente Atto d’indirizzo per la ridefinizione dei comparti e delle aree di contrattazione collettiva (in RdB Federazione Nazionale), laddove «l’ARAN dovrà tener conto delle peculiarità sotto il profilo ordinamentale del personale della scuola nonché per la rilevanza del medesimo  in termini numerici (circa 1.200.000 unità) rispetto al restante personale delle amministrazioni». E qualora, nei quattro comparti ora prefigurati, «cui corrispondono non più di quattro separate aree della dirigenza», uno dovesse essere riservato per contenervi (e continuare a marginalizzare) il personale della scuola, non potrebbero che derivarne riflessi sulla dirigenza scolastica.

(7) Con la stipula del CCNL 2006-2009 e dei due bienni economici 2006-07 e 2008-09 della prima area dirigenziale (ministeri) risulta il seguente quadro comparativo con la quinta area della dirigenza scolastica, tuttora ferma al quadriennio contrattuale (normativo ed economico) 2003-05

 

Dirigenza ministeriale, 2^ fascia

Dirigenza scolastica

Tabellare

43.310,90

41.129,89

RIA (se dovuta)

quantificazione mutevole

quantificazione mutevole

Posizione fissa

12.155,41

2.530,72

Posizione variabile

sino a 45.348,31 (media attuale oltre
€ 20.000)

sino a 33.560 (media attuale non superiore a € 10.000)

Risultato

non inferiore al 20% dell'intera retribuzione di posizione in godimento

il 15% dell'intera retribuzione di posizione in godimento. Attalmente pari a un forfetario annuo uguale per tutti, non superiore a 1.000 €

         Questo per la dirigenza ministeriale, che ha già rinnovato il contratto parimenti scaduto il 31 dicembre 2005. Per la dirigenza scolastica, che si accinge a rinnovarlo, sono disponibili poco più di 200 euro lordi mensili medi, con assorbimento dell’indennità di vacanza contrattuale corrisposta e in corso di corresponsione, quindi meno di 150 euro lordi mensili, traduzione monetaria dell’inflazione programmata del solo biennio economico 2006/07; presumibilmente da caricare sul solo tabellare per mantenerlo allineato a quello percepito da tutta la dirigenza pubblica, perciò restando nulla o quasi la disponibilità per riparametrare le restanti voci retributive.
Per le suddette voci si dovrebbe provvedere in esito al Protocollo d’intesa sottoscritto dalla parte sindacale con il capodipartimento del MIUR il 15 marzo 2010, che dovrebbe consentire il solo riallineamento alle cifre nominali del 2006-07, o poco più, già decurtate per la sopravvenuta incapienza dei fondi regionali. Non essendo previste risorse fresche, si opererà una partita di giro con la RIA dei pensionati e con gli scarsi versamenti delle quote degli incarichi aggiuntivi, che pertanto non incrementeranno più, in modo automatico e man mano che si rendano (si rendevano) disponibili, le retribuzioni dei dirigenti in servizio.
Una dêbacle o, se più piace, un contratto in perdita. Altro che perequazione interna ed equiparazione retributiva!

(8) Si dà qui contezza di una sentenza emessa dalla corte  d’appello di Ancona - sezione lavoro il 26-2-10, confermativa di quella di primo grado, secondo cui un sindacato di dirigenti scolastici, datori di lavoro, qual è (era?) l’ANP, non può concorrere nella formazione delle liste di aspiranti a ricoprire posti di RSU nella scuola: con tre tentativi peraltro tutti clamorosamente falliti. Ciò perché i dirigenti, «avendo una autonoma capacità contrattuale distinta da quella degli altri dipendenti, non possono partecipare, insieme alle rappresentanze sindacali degli altri lavoratori, alla competizione delle RSU».

(9) Dirimendo un contrasto giurisprudenziale emerso in diverse pronunce delle proprie sezioni, la cassazione, con la sentenza a sezioni unite n. 3888/93, si esprime sul caso concreto concernente il servizio di mensa aziendale organizzato da un datore di lavoro privato, la Fincantieri Spa, pressoché gratuitamente in favore dei propri dipendenti, con la contestuale previsione di una modesta indennità sostitutiva per i lavoratori che non fruiscano del servizio o non intendessero fruirne. La corte ritiene la legittimità del giudice di merito nell’aver qualificato il servizio di mensa non in termini retributivi (sia pure in natura), quindi estranei al sinallagma contrattuale, del pari all’indennità sostitutiva, che pertanto non può pretendersi ragguagliabile al valore reale del servizio di mensa non fruito; salvo che le parti contraenti (datore di lavoro e sindacato) non ritengano – perché facoltizzate dalla legge, nel caso di specie dalla legge 359/92, di conversione dell’art. 6, d.l. 663/92 – diversamente. Laddove qui – mette conto rimarcarlo – la «signoria» del contratto si giustifica per il fatto che va ad incidere su voci non retributive.

(10) E’ d’uopo rammentare che né la legge, né il potere amministrativo e – a fortori – il contratto sono liberi di esercitare le proprie prerogative in modo assoluto: la prima soggiacendo alle norme e ai principi costituzionali, gli altri due ai limiti di legge e ai vincoli insiti nelle rispettive funzioni.

(11) La questione posta all’esame del tribunale di Potenza concerneva il ricorso di una dipendente della convenuta Università della Basilicata, proveniente dalla settima qualifica e per contratto inquadrata nella nuova posizione economica C4 anziché D1, per contro assicurata al personale proveniente dalla medesima settima qualifica in seguito a concorso pubblico per il quale era richiesta la laurea. La convenuta università negava la violazione dei principi di ragionevolezza, uguaglianza ed imparzialità, nonché delle norme imperative di legge in materia di inquadramento nelle mansioni, allegando, in primis e tra gli altri motivi, il fatto che «al giudice è inibito sindacare le scelte della contrattazione collettiva».
Il giudice accoglie invece la domanda della ricorrente, disponendo la nullità, ex artt. 1418 e 1419 c.c., delle impugnate clausole contrattuali e dichiara il suo diritto all’inquadramento nella posizione D1; perché le ragioni poste dal contratto collettivo a fondamento del differente inquadramento sono state ritenute «talmente inconsistenti da poter essere considerate a priori irrilevanti».

(12) Riprendendo un passaggio del testo, può convenirsi sul fatto che sia possibile una discriminazione «non irragionevole» in presenza di un datore di lavoro privato, soggiacente al vincolo delle – per definizione – limitate capacità economiche.
Tal che le parti, sussistendo determinate, concrete ed oggettive ragioni, possono concordare una regolamentazione in pejus del rapporto di lavoro, pure astrattamente lesiva dei principi costituzionali figuranti negli articoli 3 e 36 della carta fondamentale, con riguardo alla categoria di riferimento. E’ il caso, a titolo di esempio, di una compressione dei salari per evitare licenziamenti nell’azienda e/o nei settori interessati, ovvero per favorire investimenti suscettibili di incrementare la capacità produttiva, con la creazione di ulteriori posti di lavoro e/o dello sviluppo economico-sociale del territorio, et similia: per questi, o consimili aspetti, la cassazione ritiene che quello della parità retributiva non è un principio generale ed assoluto.

(13) Per quanto attiene al settore pubblico, un esempio paradigmatico, e calzante, riguarda proprio la dirigenza scolastica. Nel senso che era non irragionevole (e non discriminatorio) procrastinare nel corso del secondo contratto collettivo 2002-2005, successivo al primo contratto d’ingresso nella nuova qualifica dei già presidi e direttori didattici, l’equiparazione (il minimum) retributiva con la dirigenza, amministrativa e tecnica, del medesimo datore di lavoro, il MIUR.
E’ a dirsi, peraltro, che le risorse economiche per consentire da subito  l’equiparazione erano disponibili, se non fossero state dirottate altrove, poiché – in seguito al contestuale dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche – dagli oltre 13.000 presidi e direttori didattici (non contando la correlata potatura dei responsabili amministrativi, ora direttori dei servizi generali e amministrativi) si è scesi a poco più di 10.000 dirigenti scolastici.
Per contro è indubitabilmente irragionevole e discriminatorio che, a distanza di dieci anni, l’equiparazione in discorso risulta tuttora non realizzata, e chissà se e quando lo sarà.

(14) Esse riguardano le apposite sezioni tecniche dei ruoli dirigenziali sanitari dei ministeri (a parte la dirigenza medica e veterinaria del comparto sanità), per cui sono stati stanziati 1000 euro aggiuntivi (rispetto alla conversione monetaria del tasso d’inflazione programmato nei due bienni economici 2006-07 e 2008-09), al fine di portare le retribuzioni di posizione - parte fissa a € 4.132,05 per medici chirurghi e medici veterinari e a € 6.972,57 per chimici, biologi, farmacisti e psicologi.

(15) Si fa riferimento alla celebre sentenza delle sezioni unite della cassazione, n. 500/99 che, sulla prorompente spinta della giurisprudenza comunitaria, dell’effettività della tutela a prescindere ed oltre le qualificazioni formali degli ordinamenti nazionali, ha rotto, dopo oltre un secolo, il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi a fronte di posizioni giuridiche soggettive (non importa se qualificate diritti soggettivi oppure interessi legittimi) lese dall’azione od omissione (rispettivamente interessi legittimi oppositivi o pretesivi) dell’amministrazione.

(16) In effetti la c.d. privatizzazione (rectius: contrattualizzazione) del pubblico impiego, avviata agli inizi degli anni novanta dalla legge 421/92 e susseguente d. lgs. 29/93, ripresa e completata dalla legge 59/97 e successivi decreti attuativi (poi confluiti nel pluricitato d. lgs. 165/01), si proponeva di contenere il costo del lavoro entro i limiti della finanza pubblica, spesso oltrepassati per l’intervento di leggine settoriali provocate da gruppi di pressione (da qui la c.d. giungla retributiva) e conseguente rottura del sinallagma.
Ma la presunta virtuosità della contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, via via generalizzata salvo poche eccezioni, sempre più tracimante ed opaca, non sembra, per l’appunto, aver dato buona prova. Sicché, dopo aver subito una restrizione dalla legge 145/02 proprio in punto di disciplina della dirigenza, la recente riforma Brunetta (legge 15/09 e d. lgs. 150/09, citato) ha operato una corposa rilegificazione di non pochi istituti (tra i quali la dirigenza) del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, scuola (e dirigenza scolastica) inclusa.

(17) Non può qui infatti ritenersi sussistente la fattispecie di cui all’art. 1381 del codice civile (promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo), in forza del quale «Colui che ha promesso l’obbligazione o il fatto di un terzo è tenuto a indennizzare  [peraltro non già a corrispondere integralmente il valore della promessa] l’altro contraente, se il terzo [nel caso in discorso: il legislatore, che contraente non è] rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso».
         Dunque, solo un valore meramente «politico», del pari ai citati e sterili ordini del giorno votati dal parlamento (supra, nota n. 3), che pertanto non mettono capo a diritti giuridicamente azionabili ed esigibili.









Postato il Venerdì, 07 maggio 2010 ore 14:05:05 CEST di Salvatore Indelicato
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