Come un
sasso che trapassa l’acqua animandola all’infinito, così le mie
riflessioni sulla scuola e dialetto “Ma cu capisci a
Muntalbanu?”, hanno innescato un vivace dibattito tra colleghi
meridionali e lombardi sul valore culturale e sociale del dialetto e
sulla sua valenza ai fini didattici ed educativi.
Probabilmente abbiamo toccato uno dei punti nevralgici della cultura
moderna, un “nervo scoperto” nella società della comunicazione di
massa, studiato e approfondito da molti studiosi e intellettuali che
pongono nel linguaggio e nella comunicazione uno snodo essenziale delle
relazioni culturali, sociali ed economici della nostra società.
Noi, da una simpatica vicenda di vita scolastica, abbiamo tratto alcune
semplici riflessioni sulla lingua nazionale e i dialetti, senza un
adeguato approfondimento, come meriterebbe l’argomento, per mancanza di
spazio e di tempo.
Faceva notare un collega siciliano “di scienze”, tra i più preparati e
puntigliosi della mia scuola, che anche la Lega difende e promuove il
dialetto lumbard, anzi brandisce la lingua e la cultura del nord per
incitare al federalismo e per regionalizzazione la scuola e i docenti.
Noi vogliamo precisare che la nostra lingua nazionale, la lingua di
Dante e del Dolce Stil Novo è fondamento dell’identità nazionale e
della coesione culturale e civile della nazione.
E che forse bisognerebbe ripensare semplicemente al senso dell’italiano
puro, dell’italiano contaminato, degli innesti terminologici moderni.
Bisognerebbe studiare e capire il valore filologico e semantico del
dialetto, ricollocarlo nei nostri moderni canali comunicativi,
riassaporarne la freschezza e la musicalità, darne il giusto spessore
culturale interpretativo.
Diceva Pasolini, che amò profondamente il dialetto, “che è un mezzo per opporsi
all’acculturazione, anche se sarà una battaglia, come sempre, perduta”.
Questo è il nocciolo della questione che volevo sottolineare in
quell’articolo:
il dialetto è un potente strumento per combattere la marginalizzazione
culturale che anche la lingua nazionale rischia di perdere; il dialetto
può diventare un fedele alleato dell’italiano; può arginare i fenomeni
postmoderni della globalizzazione dell’economia e del profitto,
l’omologazione dei modelli comportamentali e la conseguente perdita
della specificità nazionale, in poche parole, combattere le culture
dominanti e l’economia capitalistica del consumo e dello spreco.
Il dialetto ha una componente affettivo–romantica, legata alle origini,
ai ricordi dell’infanzia, all’entourage familiare; ed una componente,
più spiccatamente politica, di opposizione al paradigma che recita
dialetto = autonomia regionale = frammentazione nazionale.
Pasolini “si lamentava che ogni lingua venisse sopraffatta dal modello
occidentale” e “si accostava al dialetto come ci si accosta ad una
lingua straniera; non come a un espediente letterario o formale, da
sfruttare per aggiungere “colore”, ma con il rispetto che si riserva ad
una cultura da difendere e da salvare dall’aggressione di una barbarie
massificante”.
E solo la scuola, secondo me, ha l’autorevolezza e la capacità di
insegnare correttamente l’italiano e i dialetti, e di tenere saldamente
unita la nazione.
Questo è il regalo più bello che la scuola italiana può fare per il
150° Anniversario dell’Unità.
Angelo
Battiato (inviato
speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it