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Umanistiche: Sicilia in armi L’arrivo di Garibaldi

Rassegna stampa
adottata da Garibaldi la decisione di attaccare subito Palermo. Le posizioni tra Sirtori, capo di stato maggiore della spedizione garibaldina, e quella di La Masa, Crispi, Carini, Cairoli e Bixio, erano contrastanti. Il Sirtori sosteneva, strategicamente non a torto, la ritirata verso l’interno, in attesa di nuovi rinforzi dal continente e della diffusione, in tutta la Sicilia, della rivoluzione armata. La Masa, era del parere di procedere subito alla conquista di Palermo se non si voleva rinunziare definitivamente, in quel particolare momento, all’apporto dei siciliani. I Capi delle squadre siciliane presenti quale l’abate Agostino Rotolo, Luigi Bavin-Puglisi, il barone Di Marco, Ignazio Quattrocchi, assicurarono Garibaldi di potere contare sui loro uomini. Alla fine prevalse l’opinione di assalire Palermo. Garibaldi, contrariamente al passato, rinunziò a prendere da solo la grave decisione, ma questa volta volle sentire il parere dei collaboratori. Garibaldi escogitò un audace azione diversiva: avviò di notte verso l’interno dell’isola, alla volta di Corleone, un esiguo drappello di volontari con alcuni vecchi cannoni. Il nemico ingannato sull’entità numerica di quelle forze in precipitosa ritirata, lanciò 6000 uomini all’inseguimento, i migliori della guarnigione palermitana, quasi tutti mercenari bavaresi al servizio dei Borboni. Certo la prima e più durevole impressione che nasce da questa manovra diversiva, fu quella che i Siciliani pur vivendo in condizioni di estremo bisogno economico, non hanno venduto Garibaldi! Ma vediamo con ordine come si è arrivati a tale situazione. Garibaldi ha attorno a sé i migliori uomini della rivoluzione, come Crispi, Pilo, La Masa, Corrao ed altri, per questo riesce a dare all’impresa, un’impostazione che non sarà solo militare ma anche politica e sociale. Emanò una serie di decreti che miravano ad allargare intorno alla “dittatura” il consenso delle classi popolari. Certo tra i borbonici ed i garibaldini la differenza l’ha fatta Garibaldi. Il genio del dittatore ha svolto, prima a Calatafimi e dopo a Misilmeri, un ruolo insostituibile e di grande intelligenza. Ciononostante le preoccupazioni sulla spedizione militare non mancassero.

Il Ferlazzo nei suoi: “Cenni Biografici del Generale La Masa”, riferisce un colloquio avvenuto tra Garibaldi e La Masa: “Io non conosco né il terreno né la popolazione, voi conoscete l’uno e l’altro, per la parte che aveste in Sicilia nel 1848, quindi risolvete voi quando credete necessario ed utile”. La Masa parte per Salemi per chiedere all’autorità municipale di approntare 4000 razioni di pane, altrettante di pasta o riso, 2000 di carne, e poi vino, olio, caffè, zucchero e candele. Saranno ottenuti anche: cavalli, carretti, funi per l’artiglieria, le attrezzature per un officina, denaro. In effetti la partecipazione delle “squadre” dei picciotti è stata massiccia. La squadre erano formate e finanziate dai baroni liberali, ricchi possidenti, comuni e per partecipazione autonoma dei siciliani, che assoldavano a loro spese l’arruolamento e il mantenimento delle squadre che affidavano ad uomini di loro fiducia. Tra i primi ad arrivare, a cui peraltro la storia attribuisce grande rilievo, forse determinante per la continuazione dell’impresa militare, sono stati: il notaio avv. Antonino Colombo, il cav. Pietro Adamo di Calatafimi e, subito dopo, il cav. Domenico Saccaro, i fratelli Giuseppe e Stefano Triolo, dei baroni di Sant’Anna, frate Giovanni Pantaleo, Coppola, Hernandez, La Russa. Una mappa di uomini di sostegno provenienti da Calatafimi, Castelvetrano, Salemi, Alcamo, Vita, Erice, che aumentò l’organico dei garibaldini di 2000 uomini, divisi in due aliquote di forze: quella dei Cacciatori delle Alpi, formata dai Mille, e quella dei Cacciatori dell’Etna, o dei picciotti, costituiti da volontari siciliani. Mancava l’armamento. Quasi tutti erano muniti di vecchi fucili, perché quelli nuovi raccolti a migliaia in una sottoscrizione nazionale, non erano stati consegnati a Garibaldi da Massimo D’Azeglio, per ordine di Cavour. Va sottolineato però che Garibaldi attribuirà in gran parte la vittoria ai cattivi fucili, che non essendo adatti a far fuoco, costrinsero i suoi volontari ad entrare in azione con le baionette. Garibaldi già nella notte del 14 maggio 1860, ordinò al colonnello Turr, suo aiutante di battaglia, la seguente raccomandazione: “Colonnello Turr, bisogna raccomandare che in caso d’allarme, di notte, i nostri non facciano fuoco ma bensì che carichino alla baionetta qualunque numero si presenti. I volontari siciliani non erano armati e soprattutto non erano addestrati al combattimento e alla disciplina; era gente che non aveva mai ricevuto il battesimo del fuoco.

Pertanto, non saranno di grande aiuto sul campo di battaglia a Calatafimi, ma la loro presenza a fianco di Garibaldi assunse il significato politico della partecipazione popolare alla lotta di liberazione della Sicilia. Seguendo l’attività di guerriglia di Rosolino Pilo, nelle giornate che precedettero la sua fine, avvenuta il 21 maggio, leggiamo una lettera inviatagli da Garibaldi: ”Caro Rosolino, ieri abbiamo combattuto e vinto“ e continuava con l’istruzione di ”incomodare il nemico in tutti i modi“ mentre ad attaccare Palermo avrebbe provveduto il generale assieme alle squadre che La Masa ed altri stavano radunando nei comuni della provincia. ”Caro Rosolino è tempo di marciare verso Palermo di approfittare dell’entusiasmo dl popolo e dello sconforto dei regi. Io marcio verso Morreale e sarò vicino a quel posto verso sera. Avvicinatevi per le munizioni e vi farò parte di quelle che abbiamo. Assicurate però i nostri prodi che col ferro faremo assai di più che col fuoco contro i nostri nemici. Con affetto, vostro G. Garibaldi“. E ancora in data 18 maggio, ”Caro Rosolino, bisogna dire ai nostri prodi di Carini che si preparino a coadiuvare l’opera nostra di domani. Frattanto si accendono falò questa notte su tutte le alture che avvicinano Palermo e si molestino i regi con fucilate di notte in tutte le posizioni che occupano di giorno in ogni modo possibile. Dite ai bravi siciliani che un ferro qualunque nelle loro mani vale un fucile. Addio. Vostro G. Garibaldi“. Il La Masa da parte sua, svolgeva un’attività frenetica, convulsa; sostanziava con un modus di quasi incoscienza il suo ruolo amplificando i fatti e le circostanze; recandosi a Salemi e in altri comuni diceva che il generale Garibaldi non era solo seguito da 4000 volontari (non Mille!) continentali, ma anche da altri soldati sbarcati in altri porti siciliani, e da questa affermazione passava alla proposta di una costituzione di un governo provvisorio affidando la dittatura a Garibaldi. La Masa informava che ”oltre gli armati portava 5000 fucili ed armava gente lungo il percorso: aveva un’ottima artiglieria; cosa si vuole di più? Il colonnello La Masa, Autore peraltro di una pubblicazione “Della guerra insurrezionale in Italia, tendente a riconquistare la nazionalità” Torino 1856, si attivò in tutti i modi per la causa risorgimentale, inviando corrieri e staffette nel distretto di Termini e della Sicilia centro-meridionale, per chiedere aiuti in viveri, uomini, denaro e polvere da sparo.

Così interessò i comuni di Villarosa (Enna), Castrogiovanni (oggi Enna), Santa Caterina (Caltanissetta), Vicari, Termini, Bagheria, Cefalù, Alia, Valledolmo, Roccapalumba, Mezzoiuso, guadagnandoli alla causa dell’Unità d’Italia. Destinatari di tali inviti, tra gli altri fu Francesco Avellone ricco possidente ed amico di La Masa, il quale riunì una numerosa squadra di picciotti, formata da 48 uomini assoldati e pagati dalla sua famiglia. Il giorno 23 del mese di dicembre, conclusa la campagna, in Roccapalumba, il consiglio comunale deliberò la pubblica stima al generale La Masa precisando che: “Considerando che senza la presenza del generale La Masa, saria stata infruttuosa la venuta dell’eroe Garibaldi, perché nessuno credea essere lui in persona, avendo la polizia borbonica fatto spargere essere un avventuriero che ne assume il nome, e che il solo celebre generale La Masa potè distruggere con la sua presenza quella funesta credenza”. Particolare attenzione è stata rivolta alla richiesta di polvere da sparo da parte di La Masa e la risposta è stata positiva. Il barone Varisano di Castrogiovanni inviò 70 rotoli di polvere; il barone Gaetano Lo Bue di Casteltermini, inviò tutta la polvere esistente nella sua fabbrica, il comitato di Villarosa ha accompagnato al comitato di Castrogiovanni 50 rotoli di polvere e 47 palle; il comitato di Vicari il 20 maggio inviò a La Masa una grossa squadra di picciotti provvisti di armi, munizioni e soldo giornaliero, tutto a spese del municipio. La Masa, molto stimato da Garibaldi, fu malvisto e invidiato dall’irascibile Bixio. Garibaldi scrive: “Caro La Masa, ho ricevuto l’ultima vostra d’oggi alle ore 4 e ½ p.m. avete fatto immensamente in pochi giorni, e sono d’accordo con voi sul vostro progetto, inquietare il nemico in ogni modo.. vostro G. Garibaldi”. Il 21 maggio 1860, La Masa scrive a Garibaldi: “Generale non m’ingannai nel dirvi che la mia truppa avrebbe oltrepassato i 3000. Se avevo i fucili a quest’ora avrei più di 20000 combattenti” (La Masa G. Alcuni fatti e documenti della rivoluzione del 1860 nell’Italia Meridionale pag. 57). I detrattori del La Masa non gli perdonavano la “mania” di denominare i suoi volontari “secondo corpo di armata”. Giuseppe Bandi non fu tenero nei riguardi del La Masa, anche se ammise che: “Fu uomo pieno di cuore ed anche bravo e migliore di molti altri, se si vuole; ma bravissimo sarebbe parso, senza quel grande peccataccio della vanità, che gli procacciò tanta invidia e tanta dose di antipatia, e lo mise in fregola di comandare mezzo mondo e di emulare Cesare nelle Gallie. (Giuseppe Bandi I Mille, Firenze 1955, pag.156). Il giorno 27 maggio 1860, domenica ore 6 ½ , scrive Beninati, patriota palermitano, si ode il fuoco di fucileria. I continentali gridavano: ”Aprite! Siamo i vostri fratelli, aprite!, aprite!“, le campane della chiesa di Montesanto salutano per prime l’arrivo dei liberatori. Il popolo palermitano, inerme, gridava: ”Viva l’Italia, viva Garibaldi!“. Le squadre siciliane entravano in città in ordine sparso; ogni squadra con la bandiera nella quale era attaccata l’immagine del santo protettore del paese: Misilmeri, San Giusto; Bagheria, San Giuseppe; Marineo, San Ciro; e così di seguito. Era bello, continua a scrivere nel suo diario Antonio Beninati: ”Vedere le bonache dei nostri confusi con le camicie rosse ed i nostri con lunghe lance; il giubilo è incredibile“.”  Il generale Garibaldi disse: “Andate a raccogliere i feriti”. Sono le 8 ½. Dai “piemontesi” un ordine: “Fate barricate!”. Ognuno mette fuori sedie, tavoli da pranzo e carri.

da www.l'opinione.it









Postato il Martedì, 04 maggio 2010 ore 00:00:00 CEST di Filippo Laganà
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