“Scusi profe, ma il commissario Montalbano non ha mica i sottotitoli in italiano?
I suoi libri sembrano scritti in ostrogoto!
E mia mamma non ci capisce niente”.
Gli fa eco la mia collega, una brava e simpatica insegnante siciliana:
“Carusi ‘a capisturu ‘a chimica, e tu ‘a capisci ‘a formuletta?”
E giù i ragazzi a “tagliarsi i fianchi” dal ridere ed a fare il verso:
“picciuotti…” con un misto di siciliano e bresciano inimitabile, che fa
morire dal ridere anche me.
Ma stranamente non sono incomunicabili i dialetti, non sono linguaggi
“feroci e abominevoli” da abolire e da abiurare.
Come ci hanno fatto credere per troppo tempo i telegiornali e i
dirigenti della Lega Nord.
Noto invece un’attrazione irresistibile verso i dialetti del sud e,
perché no, anche del nord.
Molti colleghi usano nello spiegare la lezione intercalari in dialetto
siciliano, calabrese, pugliese, napoletano; a loro volta i ragazzi si
aiutano con parole e modi di dire in bresciano, in lombardo.
Questa è anche una ricchezza culturale e filologica della nostra
nazione.
Questo coacervo di linguaggi, petali inimitabili di musicalità e
d’originalità che rappresentano il cuore della nostra cultura popolare,
della più genuina tradizione linguistica italiana.
Forse la scuola pubblica deve assolvere anche a questo compito: rendere
comprensibile e assimilabile i diversi dialetti delle nostre regioni,
dei nostri mille campanili.
E dare un significato alto e nobile al dialetto, dargli, finalmente, la
dignità di elemento insostituibile del nostro patrimonio culturale
nazionale, del patrimonio immateriale da salvaguardare e da consegnare
intatto alle future generazioni.
Perché il dialetto è la lingua ufficiale del popolo.
E’ il linguaggio dei nostri padri, dei nostri nonni, fluisce dalle
viscere della nostra storia. E con il dialetto che possiamo combattere
l’omologazione pseudo culturale del nostro tempo che scortica linguaggi
e valori con il solo intento di fare profitto.
Nel ritornello di una canzone che amo molto di Luca Barbarossa si dice,
di una mamma italiana emigrata da tanti anni in America, che
“quando parla d’amore, allora parla italiano, e cerca vecchie parole…”.
Così come l’altra sera una mia amica rumena mi ha salutato dolcemente
“Okù”, ciao: anche lei ha sentito il bisogno di esprimere un saluto
affettuoso nella sua lingua materna.
E nel tempo del federalismo, ancora, per fortuna, solo annunciato, non
è cosa da poco. D’altronde…semu tutti paisani!
Angelo
Battiato (nostro inviato
speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it