Delocalizzare la correzione dei compiti.
Dove, se non negli Stati Uniti, poteva nascere un’idea del genere? E
attecchire a tal punto che alla Scuola di Amministrazione del West
Hills Community College di Coalinga, in California, la preside ha
dovuto mettere un limite: si possono «esternalizzare» non più di tre
esercitazioni su cinque per ogni materia. (da La Stampa)
Perché, informati che
avrebbero potuto scaricare su ignoti cottimisti dell’Estremo Oriente il
gravoso compito di leggere, correggere e valutare i lavori dei loro
studenti, gli insegnanti avevano colto al volo l’occasione e, pattuiti
i criteri, delegato tutto il lavoro. La preside non ha trovato da
ridire sul metodo, ma sui costi: 12 dollari a tesina è sicuramente un
prezzo vantaggioso, ma moltiplicato per migliaia di «pezzi» creava una
voragine nei bilanci.
I principi del taylorismo
Che l’outsourcing, accoppiato al taylorismo, aggredisse anche il cuore
dell’insegnamento, era chiaramente solo questione di tempo. Il più
lesto è stato l’istituto EduMerty, creato in Virginia da due pedagoghi
e un consulente tecnologico, che si sono assegnati la «mission» di
iniettare i principi della «scienza dell’apprendere» nell’«arte di
insegnare». E, applicando quei principi del taylorismo che le stesse
università insegnano, hanno prima analizzato le caratteristiche della
mansione da svolgere, poi creato il prototipo del lavoratore adatto,
quindi selezionato e formato quello ideale. A quel punto sono passati
ai principi dell’outsourcing - far fare agli altri ciò che fanno meglio
di noi, e pagarli meno in modo da ridurre i costi - e poi a quelli
dell’«offshoring», individuando i lavoratori più adatti nei laureati
dell’Estremo Oriente: India, Malesia, Singapore. Che parlano inglese,
sono meticolosi e docili alla formazione, e si accontentano di pochi
dollari. Soprattutto le laureate-madri in cerca di un lavoro da
svolgere in casa, mentre accudiscono i figli.
L’addestramento
Lori Whisentant, che insegna diritto economico all’Università di
Houston in Texas, ha raccontato la sua esperienza alla rivista di
settore «Chronicle of Higher Education»: ha spedito a EduMerty il piano
di studi, i libri di testo, un manuale di correzione dei compiti
scolastici e qualche testo per una prova. EduMerty, che fa solo il
mediatore, ha inoltrato il tutto ai referenti asiatici. Il primo test è
stato deludente: «Non erano andati abbastanza in profondità e avevano
scritto i giudizi in modo troppo formale». Allora ha mandato un paio di
lavori corretti da lei, e le asiatiche hanno applicato il modello, con
soddisfazione delle americane. Che adesso promettono di dedicarsi con
più slancio all’insegnamento e ai colloqui a tu-per-tu.
Dubbi e perplessità
Ma, tornando ai principi dell’outsourcing, la correzione dei compiti
non è un’attività strategica per l’impresa-scuola? Il core-business,
per dirla come i professori di quelle Scuole di Amministrazione
Aziendale che sono i più entusiasti del metodo? Così, ad esempio, la
pensa la presidente dell’Associazione docenti di inglese degli Stati
Uniti, Marilyn Valentino, che al «Chronicle» ha espresso tutti i suoi
dubbi: «Per un buon insegnamento occorre il contatto diretto con gli
studenti: correggere i loro scritti e dare i voti è parte integrante
dei nostri doveri». Poi, c’è la questione di tutto quel denaro che se
ne va all’estero: «Non sarebbe meglio investirlo nell’assunzione di
nuovo personale per le nostre aule?». Infine, la questione più
scottante: «Non finirà che più nessun professore leggerà una riga di
quei compiti che non aveva nessuna voglia di correggere?».