A premessa di queste osservazioni bisogna innanzitutto precisare due cose:
1) che stiamo discutendo di un riassetto che è partito dal presupposto di separare “istruzione liceale” e “istruzione tecnica e professionale”, presupposto che ci vede sostanzialmente contrari perché sanziona, ratifica l’esistenza di quella canalizzazione (spesso orientata socialmente) che a nostro parere costituisce un limite da cui il nostro sistema avrebbe dovuto uscire grazie alle riforme
2) che ci troviamo in questo momento ad esprimere opinioni sul contenitore senza conoscere il contenuto: il riassetto orario va giudicato non solo contando ore e materie, ma conoscendo che cosa ci sia dentro quelle ore e quelle materie e gli elementi di cui disponiamo allo stato attuale non sono sufficienti (si pensi ad esempio alla disciplina “informatica” al liceo scientifico: quali rapporti con la matematica e/o le altre discipline? Davvero si pensa di dover alfabetizzare all’uso del computer i ns studenti “nativi digitali”? O si pensa ad altro?)
Appare con evidenza – per ammissione degli stessi estensori della riforma, e di membri della cabina di regia come Paolo Ferratini (Corriere della Sera, 6 febbraio) – che questa riforma abbia tra le sue “radici” il contenimento della spesa, il che in sé non significa che il frutto sia pessimo: è stato sostenuto, prima di tutto dal Ministro ma anche da autorevoli commentatori, che la quantità del tempo scuola di per sé non implichi qualità, e sostanzialmente non ci sentiamo di contrastare per partito preso questa affermazione, in linea di principio: la giungla delle sperimentazioni, la super-fetazione di orari e indirizzi non sempre ha comportato innovazione didattica e successo formativo; indubbiamente una “razionalizzazione” può costituire un vantaggio per tutti: ciò su cui però certamente dissentiamo è che si ottenga qualità riducendo le risorse: se le materie e il carico orario diminuiscono, perché poi il ripensamento del curricolo funzioni sono necessarie RISORSE in più, non in meno: basti pensare alle necessità connesse alle infrastrutture o a quelle indispensabili alla formazione docenti (docenti che cambiano il proprio piano di lavoro, o lavorano in indirizzi rifondati, o addirittura cambiano materia di insegnamento in base alla confluenza delle classi di concorso, non vanno preparati ai nuovi compiti? Non è il caso di riproporre fortemente il tema del rapporto tra statuto epistemologico delle singole discipline e trasversalità? E che dire dei proclami sulla necessità di una nuova educazione scientifico-tecnologica? Si pensa di ottenerla a prescindere dal sapere degli insegnanti?)
Dunque segnaliamo una contraddizione di fondo: si mette in campo un riassetto per contenere la spesa…ma perché esso possa funzionare e non provocare il collasso definitivo del sistema, occorre spendere, non tagliare.
Entriamo nel merito degli indirizzi
Guardando trasversalmente ai bienni di tutti i sei licei e relativi indirizzi (con i quali si arriva ad 11 licei, in realtà) colpisce che gli unici denominatori comuni sono (lo ammette la Gelmini su il Giornale del 6/2) italiano, matematica e lingua straniera (stiracchiando un po’ , possiamo inserire anche storia e scienze) : la riforma dunque riduce lo spazio degli insegnamenti comuni, non coglie lo spirito dell’ estensione dell’obbligo e soprattutto si sottrae all’auspicata richiesta di un biennio unitario che includa ad esempio anche insegnamenti fondamentali come diritto ed economia, tanto per fare un esempio. Il percorso di ogni liceo appare irrigidito in verticale, poco permeabile con gli altri.
Riguardo al liceo classico, colpisce l’imbalsamazione di cui esso appare vittima: l’inserimento della lingua inglese sui cinque anni in realtà è una NON- NOVITA’ , dal momento che era sperimentata ormai quasi dall’85% delle scuole. Viceversa stupisce che diminuisca l’italiano nel biennio, o che si introduca – come allo scientifico, d’altra parte – l’accorpamento sempre al biennio di storia e geografia. Questo elemento, all’apparenza irrilevante per lo scarsa attenzione che ha sollevato nei commentatori (sembra banalmente un “taglio”, addirittura trascurabile) va invece indagato con attenzione perché presenta dei rischi:
a) se non nasce da una riflessione di natura epistemologica (cioè non è un accorpamento che mette in moto un intreccio di competenze, o fa capo ad una concezione pluridisciplinare: non c’è traccia di un dibattito in tal senso), esso appare solo un elemento a rilevanza tecnica (storia e geografia avranno un unico voto)
b) di fatto si finisce per affidare il giudizio di valore e la scelta dei tempi da dedicare alla storia o alla geografia all’insegnante, senza tener conto che la minore attribuzione di valore che ne deriva (il peso delle materie sulla media si dimezza…) va ad incidere su un’area di competenza già molto sofferente in Italia . Non c’è giorno in cui non si vedano servizi in TV sull’ignoranza degli Italiani in geografia, e che non ci si lamenti giustamente del fatto che questa carenza in un mondo globalizzato sia gravissima. Far scomparire la geografia è un modo di risolvere il problema alla radice?
Infine, si segnala la scomparsa di tutte le sperimentazioni, anche quelle necessarie e vitali come la storia dell’arte: ci auguriamo si possa recuperare con la flessibilità, ma di questo diremo in seguito
La vera novità al liceo scientifico è data non tanto dalla generale diminuzione del latino, a vantaggio di scienze matematica e informatica ma dall’opzione “scienze applicate”: in questo indirizzo, che eredita la sperimentazione del liceo tecnico-tecnologico, gli insegnamenti scientifici al biennio salgono a 12 ore per anno , al triennio a 14.
Ma cosa ci sarà dentro questo “serbatoio”? Si ritiene che il passaggio ad una dimensione scientifica dell’insegnamento/apprendimento si ottenga solo attraverso l’ampliamento delle ore? ‘ E’ UN ELEMENTO SU CUI NON CI SI PUÒ ANCORA ESPRIMERE MA È NECESSARIO VIGILARE: dato che condividiamo il principio , tanto strombazzato, che la quantità non significa qualità, che intendiamo per insegnamento dell’informatica? Che esprimeranno le 5 ore di scienze alla settimana nelle classi di triennio? Che relazioni si instaureranno all’interno dell’area disciplinare “scientifica”? Quali infrastrutture avranno in dotazione i licei (non dimentichiamo che l’indirizzo liceo tecnico all’interno dell’istruzione tecnica si avvaleva delle dotazioni tecniche che quel tipo di istituti possedeva)
E perché alla fine il tanto agognato INGLESE viene insegnato per un numero di ore per niente superiore a quello precedente?
Del liceo di scienze umane non si può non cogliere la “mancanza di identità” : da un lato un magistrale impoverito, dall’altro un indirizzo socioeconomico in cui sopravvive il bistrattato insegnamento di economia e diritto accorpato e per tre ore settimanali: la richiesta di una formazione in questo campo, che viene dalla società e anche dal mondo delle professioni, è sostanzialmente disattesa dal riassetto liceale.
Qui inoltre troviamo un generico calderone di scienze umane (comprendente antropologia, statistica, sociologia, psicologia…) che non rende giustizia a nessuna delle suddette scienze né alle loro relazioni e interconnessioni (per cogliere le quali bisognerebbe avere prima approfondite conoscenze delle diverse aree: non si costruisce una competenza pluridisciplinare in assenza di conoscenze…) Ma la domanda che insorge è : a chi si rivolge questo indirizzo? Signorine di buona famiglia? Una sorta di “refugium peccatorum”, secondo l’ipotesi di un commentatore che non può certo essere accusato di ideologismo di sinistra, cioè Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione Agnelli (Corriere della Sera del 6-2)?
Un aspetto su cui bisognerà vigilare è anche l’insegnamento in inglese veicolare di discipline non linguistiche: la sperimentazione del Liceo Europeo ha dimostrato che la sfida non è semplice, che sono necessarie professionalità al momento non sempre disponibili…Chi sceglie cosa insegnare in inglese? Il collegio? E su che base si “formeranno” le risorse? Molte domande, aspettiamo risposte.
La questione flessibilità: in molti istituiti si sta lavorando per mettere a regime il riassetto usando la flessibilità: è noto che pur avendo a disposizione una tabella di insegnamenti che in caso di non obbligatorietà potrebbero essere “introdotti”, il vero ostacolo a questa introduzione o all’ampliamento dell’offerta è costituito dal vincolo del “limite delle risorse disponibili” .
Nei fatti in ogni istituto la flessibilità potrà giocarsi solo sul piano delle compensazioni: se ho un docente di diritto che ha un certo numero di ore scoperte, me lo inserisco nel curricolo compensando, cioè diminuendo le ore di un’altra disciplina (semmai quella in cui invece il docente che mi serve in organico non ce l’ho) .
Quante scuole “razionalizzeranno” e progetteranno la flessibilità partendo dalle istanze formative degli alunni? Quante cercheranno di accontentare l’utenza? Quante cercheranno al contrario di salvaguardare le cattedre dei docenti interni? Quante e quali risorse aggiuntive verranno assegnate (sotto forma di organico funzionale, come ci si augurerebbe..) ? La questione delle quote di flessibilità rischia di essere un’occasione perduta se, nell’applicazione, la logica non sarà quella di curvare sui bisogni del territorio ma sui limiti di bilancio e di organico.
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