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Umanistiche: "IL FILO DELLA TRAMA" DI A. SCIACCA - presentazione prof. Valastro

Rassegna stampa

Meno di un anno fa, in occasione della presentazione del libro “Il racconto dell’arte” del preside Sciacca, concludevo (mi si passi l’autocitazione) dicendo che l’opera avrebbe potuto anche titolarsi, invertendo l’ordine degli elementi costituivi del titolo, “L’arte del racconto”, senza con ciò contraddire la struttura dell’opera stessa.

 

Ed eccoci qui, a distanza di sei mesi, a trovare confermate e potenziate le abilità narrative presenti nell’opera precedente, che con questo libro ha voluto regalarci un suo piccolo “manuale”, un encheiridion per dirla alla greca, in cui ha saputo fondere l’abilità dello studioso di letteratura e lo spirito critico di chi sa osservare l’animo umano per tirare fuori i caratteri universali in esso presenti, al di là delle latitudini e delle cronologie.

 

 

Prima però di esplorare questa vena narrativa e di darle la giusta dimensione, è opportuno partire da due punti fermi. Innanzitutto la vena neo-umanista che anima lo spirito del libro, e ne  è quasi il suo segno distintivo. Come i primi intellettuali umanisti avvertivano che la risposta al degrado dei tempi potesse nascere dalla ripresa del dialogo con gli scrittori classici, anche l’Autore ha saputo riprendere i fili di un discorso che, benché mai del tutto spezzato, sembrano un po’ smarrirsi in questa società dalla dimensione economica prevalente. Un’operazione neo-umanista, dicevo, tuttavia priva di quella rigidità asfittica che è propria della filologia, scienza che parla forse alla ragione ma che poco o nulla dice al cuore. Tuttavia, non è che l’Autore non abbia una solida preparazione filologica, come testimonia l’accurato lavoro sul lessico erodoteo. È piuttosto che Il discorso che Alfonso Sciacca instaura con Erodoto ha un po’ di quella dimensione spirituale che anima molte pagine degli Essais di Montaigne, la prima opera a cui ho pensato mentre leggevo avidamente le pagine del libro.  Egli infatti, pur mostrando un rigore metodologico (non rigidità) nella lettura del testo antico, cerca di analizzare o meglio di insinuarsi nelle pieghe del racconto erodoteo per cercare di coglierne il ρυθμός, quel termine che, come ci avverte il preside Sciacca già ad apertura di libro, nell’accezione erodotea assume anche il valore di «sequenza delle parole». Inutile dire che l’Autore riesce a pieno a sintonizzarsi sul “ritmo” erodoteo.

 

L’altro punto di partenza investe il problema della scelta dell’interlocutore. Perché Erodoto e non, per esempio, Ammiano Marcellino, che pure è scrittore amatissimo dal preside Sciacca? Qui andiamo sul sicuro se ci limitiamo a citare quanto detto dallo stesso Autore nella bella introduzione all’opera. «Erodoto» egli infatti afferma «continua ad essere il padre. E non solo della storia, ma, piuttosto, di questo irrefrenabile modo di raccontare, fresco e spontaneo, seducente e curioso». E, ancora, «Erodoto è un crogiuolo di culture, tra Oriente ed Occidente. Ha la tempra robusto dell’antropologo. […] Ama i ponti perché permettono di attraversare i fiumi, ama le strade che si inoltrano misteriose in terre lontane […] La sua parola è come una cerniera che chiude ed apre». Il tutto sintetizzato nella frase «Ciò che affascina è la sua parola». Non basta a spiegare il motivo della scelta?

 

Tuttavia, credo di non forzare troppo il pensiero del nostro Autore nell’affermare che c’è anche dell’altro nella scelta dello storico di Alicarnasso. Sono quelle cerniere che apre, che danno all’opera storica il respiro ampio dell’epos, di un epos però dai caratteri fortemente filosofici (non dimentichiamo che la filosofia nasce proprio nella Ionia, la terra di Erodoto).

 

Non è un caso che ciclicamente ritorni prepotentemente d’attualità il “metodo” erodoteo, se non il suo messaggio tout court, specie in epoche segnate dal confronto fra Oriente ed Occidente.

 

 

Provo adesso a scendere nel dettaglio per cercare di individuare il metodo di lavoro del preside Sciacca. Pur mantenendo il giudizio generale sul libro attingendo a tutti i capitoli che lo compongono, sarà su due di essi che mi soffermerò con maggiore dovizia di particolari. Essi sono il primo, quello dedicato a Policrate, e il quinto, su Smerdi, episodio amatissimo dagli antropologi e in primis da quel maestro dell’antichità che è Jean Paul Vernant. Tutto ciò, ripeto, senza inficiare l’unità del lavoro, che, sommando una serie di logoi, sembra quasi ricalcare l’opera erodotea in un gioco di specchi che riflette l’amore incondizionato che il nostro Autore prova per Erodoto.

 

 

Il primo capitolo, appunto, e cioè Amasi e Policrate, menzogna e verità, felicità e senso della vita. Ma anche la natura del potere, specie di quello tirannico. Il preside Sciacca riesce a leggere con finissima analisi psicologica quelle che sono le umane debolezze e soprattutto le cattiverie e miserie del genere umano. Ecco un esempio di questa abilità scientifica, di tipo antropologico:

 

 

«Il tiranno cerca sempre i favori del popolo, ma senza adulazione; più con l’ostentazione della ricchezza che con le leggi che lo favoriscono».

 

 

Sembra quasi di leggere alcuni passi dell’opera machiavelliana, o meglio ancora, siamo qui dinnanzi al moralista. Se Erodoto è antropologo perché come l’Ulisse dantesco è “gran conoscitore de li umani vizi e del valore”, Alfonso Sciacca è moralista, nel senso etimologico del termine, perché spinge la scrittura verso il terreno dell’analisi dei mores. Forse, e qui sono costretto a correggere me stesso, c’è più Guicciardini che Machiavelli in queste pagine, anche se il Segretario fiorentino ritorna prepotentemente a pagina 20, in una parentesi (è significativo che spesso molti passi decisivi per la comprensione del discorso siano messi tra parentesi):

 

 

«spesso, infatti l’audacia è la ragione del buon esito delle imprese umane: di contro, ottengono scarsi risultati colore che si pongono tanti scrupoli e s’illudono di poter realizzare i loro obiettivi senza fare del male a nessuno, meno che mai agli amici».

 

 

O meglio ancora, come ho detto prima, se proprio dobbiamo trovare un modello a cui si richiama questa scrittura per via della sua forza intima e tranquilla che nulla esclude ma amplia a dismisura il campo dell’analisi, il paragone più riuscito mi sembra quello con Michel de Montaigne e i suoi Essais (paragone tutt’altro che eccessivo, al contrario).

 

 

Certo, l’appassionato studioso di letteratura greca e latina, e il profondo conoscitore del mondo antico emergono quando meno te l’aspetti, quando il discorso narrativo sembra prendere una pausa e l’accento cade in modo naturale su una parola, un piccolo particolare che però ha la forza di sineddoche che trascina con sé il senso globale del discorso. Questa abilità, che è dono di pochi, fa da basso continuo a tutto “Il filo della trama”.

 

 

È questo, per esempio, il caso delle pagine dedicate alla corte di Samo nel primo capitolo. Siamo in presenza di una cultura viva, che non “esonda” per forza di citazioni né si concentra sul particolare prezioso ed erudito, bensì si nasconde dietro la vivacità del racconto, e che forse è il vero “filo della trama” cui allude il titolo del libro. Anche questo è un atteggiamento da vero umanista. D’altra parte, la tecnica adoperata dal preside Sciacca è quella di introdurci gradualmente in un mondo le cui caratteristiche, benché definite nello spazio e nel tempo, si prestano bene a continui paragoni col presente.

 

La dialettica è chiara, impostata com’è sull’asse della continuità più che su quello dell’alterità. Ciò spinge qualsiasi lettore, anche chi per paradosso nulla o poco sappia o abbia letto di Erodoto, a trovare accattivante la lettura de “Il filo della trama”. Non è d’altra parte “novellando con Erodoto” il sottotitolo più denotativo dell’allusivo titolo? Non novellando “su” Erodoto, né “di” Erodoto.

 

Erodoto come compagno di lettura e discussione. E anche qualcosa di più. Il libro è diviso in più capitoli di varia lunghezza, più o meno densi di contenuti e riflessioni che si generano l’una dall’altra, che si aprono una dentro l’altra come le famose matrioske russe, o che si richiamano a distanza perché l’unicità della matrice comportamentale assume le forme molteplici dell’exemplum individuale. Spesso le riflessioni assumono l’aspetto di discorsi particolari dentro il discorso generale. Di fili di colore diverso nell’ordito della trama, per sfruttare la metafora del titolo. O ancora di logoi che si completano nel senso complessivo dell’opera, esattamente come avviene per quella erodotea. Il titolo dell’incontro di stasera non è stato scelto a caso: lo specchio della Storia, perché un gioco di specchi è già nella stessa struttura del libro, nel dialogo continuo con l’opera erodotea. E non è neppure un caso (ma esiste il caso nella letteratura?) che l’introduzione si apra su una riflessione metaletteraria di Calvino, tratta da quel piccolo gioiello che sono “Le città invisibili”, sul significato della narrazione e sulla sua stessa ragion d’essere. Il dialogo tra Kublai Khan e Marco Polo, tra l’atro, serve all’autore per introdurre il tema della fascinazione esotica dell’Oriente, terra che offre molti exempla riportati dal preside Sciacca nel corso dei capitoli che compongono il libro, ma serve anche per fare capire come, in fondo, l’arte della novella nasca proprio in Oriente (il racconto orale sta alla base della novellistica che confluisce poi nel corpus delle Mille e una notte).

 

 

Il dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan è per l’Autore la chiave d’interpretazione più corretta se si vuole cogliere il senso complessivo dell’opera al di là del fascino dei singoli episodi (che sono tutt’altro che irrelati, quindi). “Il racconto sottostà all’orecchio”, dice Marco Polo a Kublai Khan, cioè ci parla se vogliamo ascoltarlo. E anche interpretarlo, perché no? Prendiamo l’esempio di Democede, il medico di Crotone, protagonista di un logos nel libro III.

 

 

Nel testo erodoteo, quando egli è condotto prigioniero davanti al re di Persia Dario, è descritto semplicemente “mentre ancora si trascinava dietro i ceppi, vestito di stracci”. La semplice notazione si arricchisce di particolari tutt’altro che esornativi nella rilettura del preside Sciacca, particolari che scavano nella psiche del personaggio senza alterare la verità storica. Democede diventa così “macilento, lurido, coperto di stracci miserabili”. Prosegue Erodoto: “Quando fu davanti a lui, Dario gli chiese se conoscesse la medicina: Democede rispose di no, perché temeva che, se avesse rivelato chi era, sarebbe rimasto per sempre lontano dalla Grecia. Dario però comprese che Democede cercava di dissimulare, ma conosceva quell’arte, e ordinò a coloro che lo avevano accompagnato di portare dinanzi a lui fruste e pungoli”. Nel nostro libro alcuni particolari si tacciono, e tutto si focalizza in una frase –ancora una volta messa tra parentesi– che dà il senso complessivo di questa scena drammatica (nel senso etimologico del termine): «un grande re conosce gli uomini a prima vista». Ecco il senso dell’insistenza sulla povertà esteriore di Democede, dell’omissione del particolare della tortura fatta balenare al prigioniero per estorcergli la verità: il tutto va ridotto alla dialettica dell’incontro fra grandi personalità, che non si lasciano certo condizionare dalle apparenze. De hoc satis.

 

 

Il racconto, inoltre, per sua stessa natura, si autoriproduce. Un nome tira l’altro, una vicenda trascina con sé una seconda vicenda, che a sua volta ne fa nascere una terza, e così via, fili numerosi di una trama che però non viene mai persa di vista. Rimaniamo nel primo capitolo: la lettera di Amasi a Policrate, con cui esso si apre, è il leit motiv da cui si dipartono le storie di Anacreonte e Ibico, di Democede e Dario, e Atossa, di Amasi e Ladice e così via.

 

Concentriamoci sui protagonisti, Amasi e Policrate: l’oriente mistico e l’occidente materialista? Non solo. L’aneddoto (perché forte è il gusto della narrazione aneddotica nell’opera di Erodoto) diventa spunto per una riflessione più ampia. Sulla felicità, certo, ma soprattutto sul senso del peras, del limite. Qui Erodoto coglie uno spunto che sarà poi bene sviluppato dalla filosofia accademica e aristotelica. Il peras, il limite: ma la riflessione è –come ci fa giustamente notare il preside Sciacca– di natura non filosofica, bensì antropologica (se han senso queste divisioni). Il peras come tabù, l’anello (un altro, come quello di Gige) come elemento sacrificale. Il tutto in uno schema che richiama la teoria del desiderio mimetico mirabilmente illustrata da René Girard nel suo “Menzogna romantica e verità romanzesca” . Che tipo di rito richiede un anello? Certo, al giorno d’oggi, in una società che tra il sacro di certe offerte materiali ai santi e il profano di un consumismo per cui tutto è quantificabile nella scala di valori venali, questo genere di offerta ci stupisce poco o nulla. Ma nella Samo del VI secolo, malgrado un’ostentazione della ricchezza tutt’altro che secondaria (che non poteva certo piacere ai più sobri Greci continentali), l’offerta dovette sembrare quanto meno dissonante dalla finalità per cui era fatta (e cioè stornare un destino di infelicità dal sacrificante). Ecco perché l’evento colpisce Erodoto, il nostro Autore e di rimbalzo, anche tutti noi.  Nel sacrificio dell’anello cogliamo una chiara trasposizione metonomica, come ci informa il preside Sciacca: nel commentare questo gesto, Policrate tende ad identificare la felicità con la ricchezza materiale (solo lui? Solo nella Samo del VI sec. a.C.?).

 

Il metodo di lavoro del preside Sciacca trova così un’esemplificazione altamente significativa. Le parole di Erodoto si alternano alle riflessioni dell’Autore, in un continuo gioco di specchi che giustifica a pieno il titolo dell’incontro di stasera. Il tutto arricchito da una fresca vena narrativa che a tratti rivaleggia con quella dello storico di Alicarnasso. Se Erodoto ha il gusto della scenografia, il preside Sciacca ha invece quello del dettaglio che, come già ho detto, chiarisce l’insieme. L’anello di Policrate diventa il fulcro della narrazione, ci ipnotizza al di là del luccichio dello smeraldo (o sardonica) del suo castone. C’è un particolare che Erodoto tace e Sciacca evidenzia: il silenzio. Quando Policrate si vede recapitare l’anello dai cuochi, subito scrive ad Amasi. Nulla dice Erodoto del silenzio che certamente cadde nelle sale del palazzo. Ce lo rivela, con indubbie doti narrative, Alfonso Sciacca. Ecco come descrive la scena (anzi, come la “filma”):

 

 

«L’assenza dell’urlo della disperazione, così usuale nelle tragedie ateniesi, ha la forza dell’implosione e rende ancora più desolante l’avvertimento dell’inappellabile condanna».

 

 

Tutta la vicenda di Policrate sembra dominata dal silenzio. Silenzio dopo la restituzione dell’anello, silenzio dopo il taglio dei capelli di Smerdies. Sembra quasi che Policrate non sia padrone delle parole come lo è invece dei beni materiali, e il silenzio diventa quindi eloquente metafora dell’inferiorità dello stolto nei confronti del saggio.

 

E anche quando l’analisi razionalista prende il sopravvento, e l’episodio di Amasi e Policrate viene riportato alla dialettica politica delle talassocrazie mediterranee, rimane sempre la fascinazione del racconto che colpisce il nostro orecchio. Forse anche noi vogliamo ascoltare ciò che ci “aspettiamo” di sentire, come dice il Marco Polo calviniano a Kublai Khan? O forse è questo che Erodoto ci vuole fare credere?

 

 

 

L’altro capitolo su cui mi soffermerò –brevemente, vista l’ora– è il quinto, quello dedicato a Cambise e alla vicenda del finto/vero Smerdi.

 

Il capitolo presenta il consueto incipit filosofico, che fa da pendant con quello del capitolo precedente, affrontando entrambi un problema gnoseologico, cioè quello della verità. La verità è ciò che appare o bisogna andare oltre le apparenze (e ancora, la verità è solo nel comune sentire o può stare anche nel paradosso)?

 

La storia del doppio è uno dei temi più ricorrenti nella narrativa di tutti i tempi e le latitudini. Inevitabile che anche Erodoto presenti la sua riflessione, partendo ovviamente da un dato storico, l’episodio di Smerdi. Quest’episodio, sia detto per inciso, è stato analizzato in un famoso saggio da Jean-Paul Vernant, da un punto di vista antropologico, secondo uno schema usatissimo dagli archeologi e storici francesi, quello dello strutturalismo antropologico.

 

Tuttavia, il preside Sciacca, per quanto abituato ad una lettura antropologica del testo antico, non è strutturalista e anziché ingabbiare il racconto in un’arida sequenza di presunte oggettività, preferisce tessere attorno al dato storico il manto della narrazione, sinuosa e avvolgente come quella del modello erodoteo, e della riflessione moralista, come appunto si può ritrovare in Montaigne. Tutto ciò, ovviamente, è dettato non da un limite delle conoscenze (che non esiste), bensì da un diverso approccio metodologico. Che non manchino al nostro autore chiavi ermeneutiche più vicine al dibattito filosofico moderno è d’altra parte testimoniato dalla citazione –non si sa fino a che punto involontaria – del famoso giudizio di Baudrillard pronunciato poco dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Diceva infatti il filosofo francese che non è necessario che il fatto esista in sé per essere ritenuto reale; bisogna che esso sia rappresentato mediaticamente, viva in quell’universo che il filosofo recentemente scomparso definiva “iper-realtà”. Tale giudizio viene riecheggiato dal preside Sciacca quando afferma che «La notizia di un evento, benché inesatta, assai spesso rende quell’evento vero». Mi pare che siamo sulla stessa lunghezza d’onda.

 

 

Anche questo è un atteggiamento umanista, a ben pensarci: leggere molti libri senza sfoggi di citazioni; insomma, la direzione opposta del pensiero post-moderno. Inoltre, il tessuto filosofico, così come quello antropologico, cedono il passo alla preoccupazione narrativa.

 

Ciò che importa, infatti, è il RACCONTO. E il racconto si materializza nella parola, benché essa di per sé non sia garanzia di verità. Le parole, in questo caso, sono quelle del dialogo tra Cambise e il ministro Pressaspe (e, più in là, tra Dario e i congiurati). Siamo di fronte all’ennesima prova della vena drammatica di Erodoto, che com’è noto ebbe modo di frequentare i teatri ateniesi (fu infatti amico di Sofocle).

 

Nel dialogo tra Cambise e Pressaspe (come in tutti i dialoghi) non esiste solo il detto, ma anche il non detto. Sembra quasi di sentire Mattia Pascal (altro celebre doppio) nelle domande: «La verità, la verità, la verità: cosa mai essa è? Dove mai essa è?». Il relativismo gnoseologico non è, nella riflessione che fa il nostro Autore, lo strumento con cui si sgretola il fragile tessuto delle nostre conoscenze (o presunte tali), bensì il tarlo che ci spinge a inseguire pervicacemente la verità, pronti a buttarci verso l’ignoto come Empedocle nel cratere dell’Etna, tanto per sfruttare un paragone presente nel nostro libro.

 

L’episodio del falso Smerdi è uno dei punti in cui la riflessione a posteriori tende  a farsi centrale, senza tuttavia interrompere mai il flusso della narrazione. Ritornano temi di riflessione già noti: il potere e i suoi meccanismi, la riflessione sulla democrazia come qualcosa che viene da un’élite e non dal basso, la verità e la bugia i cui labili confini diventano ancora più incerti se è in ballo la conquista del potere, la meschinità di chi capisce di essere inadeguato a comandare.

 

La cifra stilistica del preside Sciacca è –lo ripeto ancora una volta– quella di far partire numerosi fili dall’ordito senza disgregare l’unitarietà della trama, lasciandoci al contempo il gusto della scoperta che però si muove lungo sentieri predeterminati dall’Autore stesso.

 

Qui sta il pregio del libro: nel farci diventare, anche noi, interlocutori di questa conversazione con Erodoto, o meglio attori di quella che sarebbe più corretto definire, mi si passi il neologismo, novellazione. Il capitolo su Smerdi, con il suo tema del doppio e della specularità, è paradigmatico dell’intera struttura dell’opera, e perciò mi sembra il più riuscito del libro, non solo perché ci seduce come gli altri, ma perché, più degli altri, ci fornisce le chiavi di lettura del testo.

 

 

Diceva Arnaldo Momigliano che

 

 

«Tucidide e Tacito, gli scrittori della saggezza politica, possono essere accettati facilmente. Erodoto, per essere accettato, deve essere discusso. Facendosi discutere, egli contribuisce al metodo della storiografia moderna».

 

 

Io credo che Alfonso Sciacca non abbia messo in discussione Erodoto, quanto piuttosto abbia cercato la discussione con Erodoto. Egli ha cercato, nelle pagine dello storico di Alicarnasso, la fiamma vitale della storia che si fa narrazione, che a sua volta apre la porta verso la riflessione. Nel corso de “Il filo della trama”, l’Autore dà anche dei giudizi su Erodoto, ma più sul narratore che sullo storico. Afferma infatti che «Erodoto costrisce una ragnatela di episodi e ne governa la trama con l’esperta abilità di un regista cinematografico». O ancora: «la trama narrativa del nostro scrittore riproduce il ritmo circolare della vita». E infine: «Il metodo storiografico di Erodoto consiste nella ripetizione delle forme». Tutti giudizi da fine conoscitore della letteratura classica qual è il preside Sciacca, come sanno bene coloro che hanno avuto la fortuna di essere stati suoi allievi. Questi giudizi, a ben riflettere, possono essere applicati anche al libro del preside Sciacca. Con un’avvertenza, però: qui non c’è la supremazia dell’arte sulla realtà. Un libro come questo non nasce da mero esercizio letterario, bensì incide nella carne viva del momento storico e sociale in cui viviamo. Tutto viene riportato al significato concreto dell’esistenza reale, non rimane un vuoto simulacro di cose apparenti. La lezione erodotea si è sposata –ed è meraviglioso il frutto di tale unione– con l’attitudine, tipica di certa letteratura occidentale, alla riflessione moralistica. Ancora una volta non può non venire in mente la lucida riflessione di Michel de Montaigne. Il filo della trama ordita dal preside Sciacca non si spezza né può mai farlo, perché composto da fili più sottili intrecciati tra loro: il filologo, , il moralista, lo storiografo, ma soprattutto il narratore.

 

 

Dice il nostro Autore che la stesura di questo libro lo ha accompagnato per lunghi tratti della sua vita, per poi finrlo e farsene un regalo per i suoi 70 anni. Io credo invece che il regalo più bello lo abbia fatto a tutti noi lettori, non solo a se stesso.

 

 

 

Salvatore Valastro

 









Postato il Sabato, 24 ottobre 2009 ore 14:18:09 CEST di Filippo Laganą
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