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Didattica: I BISOGNI DEI BAMBINI E I BISOGNI DEGLI INSEGNANTI

Opinioni
I bisogni dei bambini e i bisogni degli insegnanti

di Andrea Muni *
03.09.2009




I bisogni non esistono, così come non esistono i bambini e come non esistono gli insegnanti. Non esistono gli insegnanti: esiste questo insegnante in un questo luogo e in un questo momento, con la sua storia e nella sua particolare situazione. Esiste quest’altro insegnante, e quest’altro, e quest’altro ancora, tutti diversi l’uno dall’altro. Esiste un bambino, qui ed ora, che in questa situazione fa qualcosa. Ne esiste un altro, e un altro, e un altro ancora, ognuno differente dall’altro ma anche differente a se stesso nel passare da una situazione all’altra, da un contesto all’altro. Stiamo attenti alle generalizzazioni, alle astrazioni che si allontanano dalla realtà storica, concreta e particolare delle persone, delle cose e delle situazioni.

“Di cosa hai bisogno?”. “Io ho bisogno di questo”, “io ho bisogno di quest’altro”. “Io ho bisogno di riposarmi”. “Io ho bisogno di una vacanza”. “Io ho bisogno di aiuto”. “Io non so di cosa ho bisogno per essere felice. Ho bisogno che qualcuno mi dica di che cosa ho bisogno per la mia felicità”. Mi trovo sommerso da frasi come queste, che mi rumoreggiano nelle orecchie come mosche e zanzare. Ma cos’è un “bisogno”? è un’astrazione, una categoria astratta, una parola vuota. Il bisogno è sempre un bisogno-di-per. Ad esempio: “io, a certe condizioni, ho bisogno di bere una certa quantità di acqua con una certa frequenza per sopravvivere alla morte biologica del mio corpo”. Ho bisogno di acqua per sopravvivere. Allo stesso modo, posso avere bisogno di qualche euro per comprare un biglietto per il cinema.

Che senso ha, allora, dire: “di cosa hai bisogno?”, o decidere: “tu non hai bisogno di questo. Hai bisogno di quest’altro”? Ha senso solo se, nel pensiero di chi parla, sia chiaro il per, non detto. Cioè, ha senso solo se io, che parlo, ho in mente cosa tu vuoi, o meglio cosa tu devi volere, in relazione a cui ti sto dicendo: “tu hai bisogno di questo”, trattenendo nella mia mente la continuazione necessaria: “per quest’altro”, e nascondendo nel mio pensiero “che io ho deciso per te”.

Eh, già. Chi parla così, si prende, ogni volta che parla in questo modo, il potere e il diritto di decidere sugli altri, di stabilire non tanto di cosa abbiano bisogno (che, detto così, non vorrebbe dire proprio niente), ma di cosa debbano, o possano, volere (voler essere, voler fare o voler avere). Io decido la finalità delle tue azioni, decido l’oggetto della tua volontà, e di conseguenza ne stabilisco il mezzo o lo strumento ai miei occhi più adeguato. “Tu hai bisogno di questo”. Fa ridere quando si maschera di domanda: “Tu hai bisogno di questo?”, “Di cosa hai bisogno?”. “Hai bisogno di qualcosa?”. Che falso e ipocrita interessamento! Sì, certo: “Non lo so: per cosa dovrei avere bisogno di questo? Tu mi stai chiedendo di cosa ho bisogno per cosa? Certo che ho bisogno di qualcosa per raggiungere qualcos’altro, ma tu in relazione a quale altro mi stai chiedendo se ho bisogno di qualcosa?”.

Invece, alcuni psicologi si inventano la possibilità di uso generalizzato e generico di questa parola, “bisogno”, che di per sé ha bisogno di essere contestualizzata, storicizzata, di prendere un corpo particolare in un una situazione concreta, se vuole essere una parola piena, e non rimanere una parola vuota. Alcuni psicologi si immaginano la possibilità di usare questa parola e la usano, sempre e dappertutto.
Lascio stare i Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel del 1821, che meriterebbe un discorso a parte. Penso piuttosto al Decroly (1871-1932), il famoso medico neuropsichiatra belga che, rifacendosi a Spencer e Darwin, in uno scritto del 1921 aveva già parlato molto chiaramente di centri d’interesse e bisogni primordiali. Penso anche al  Murray (1893-1988), che nel 1938, con Exploration in Personality, pensava di aver chiarito la specificità del bisogno in chiave psicologica inventando una tassonomia dei bisogni, un elenco di bisogni umani. Penso ai noti lavori degli anni Venti e Trenta del Malinowski e alla gerarchia dei bisogni del Maslow, lo psicologo statunitense (New York 1908- California 1970) che nel 1954 aveva pubblicato il suo libro di successo Motivation and Personality, tradotto in italiano Motivazione e Personalità.
Chi scrive una teoria dei bisogni finisce con l’ordinare, il classificare, l’interpretare questi ipotetici bisogni secondo un suo criterio, una sua opinione del tutto personale, in modo funzionale a se stesso. Il fatto che questo o quel teorico dei bisogni dia questa o quella spiegazione non implica che questa spiegazione corrisponda alla realtà. Alla fin fine queste teorie, ed altre simili, hanno trovato un po’ di spazio in ambiti pratici, applicativi dell’economia o della medicina. Quegli stessi ambiti medici che riducono l’“io” al suo corpo, astrattamente inteso, un corpo da manuale s’intende, e che si rifanno a teorie dell’intelligenza come capacità di adattamento all’ambiente e della sanità mentale come comportamento funzionale al raggiungimento di un benessere materiale del cervello. Quegli stessi che, se qualcuno non volesse adattarsi o comportarsi secondo schemi mentali lineari e facilmente classificabili all’interno di un sistema categoriale dato per buono, lo prenderebbero per malato e si prenderebbero tutto il diritto di curarlo. Se qualcuno non rientra nei casi previsti dai manuali di medicina, dovrebbe esser considerato come un caso medico grave. È un sogno delirante. Ma a questo punto il delirio, la dissociazione, la psicosi, la malattia insomma, di chi è, del malato o del medico? Chi stabilisce cosa è malattia? E chi decide il confine tra sano e malato, giusto e ingiusto, buono e cattivo, accettabile e intollerabile?
Il malato di mente mangia troppo o troppo poco. Dorme troppo o troppo poco. Non ha un equilibrio. Magari non è calmo e tranquillo ma è agitato e violento, anche se la violenza si esprime solo con le parole. Ha comportamenti di dubbia o difficile interpretazione, non funzionali al benessere del suo organismo biologico, non appropriati al suo adattamento all’ambiente. Non si adatta ai suoi contesti, alle sue situazioni. Non sta bene dove sta. Reagisce. Protesta. Esce dal coro. Non si inserisce bene nel suo ambiente. O, meglio, qualcuno pensa che lui non si inserisca bene, non si adatti. E se il problema fosse proprio nell’ambiente, cioè fosse fuori della sua mente, e il malato facesse bene a ribellarsi a questo ambiente, a questo fuori che non è dentro di lui? E se il malato non volesse scendere a compromessi con qualcosa, di questo ambiente, che proprio non gli piace, non si sente di condividere, di assimilare, di far suo? Non potrebbe aver ragione? No. Lo si prende, gli si dà qualche calmante, qualche correttivo dell’umore e lo si prende in cura finché dirà: “va bene, va bene, avete vinto, questo ambiente mi piace, mi piace, mi piace, e vi prometto che non mi ribellerò più”. Ottima tecnica per imbavagliare la gente e legarla. Ottima tecnica per incarcerare un “io”. Molto raffinata.
Oggi, nelle scuole, si parla a non finire di bisogni: educativi, formativi, cognitivi, sociali, relazionali, affettivi... Non dico che, qui ed ora, Mario non abbia uno o più bisogni cognitivi, sociali, relazionali e affettivi. Dico solo: lasciamolo libero di avere i suoi, non imponiamogli i nostri, quelli che qui ed ora noi immaginiamo lui debba avere. Non proiettiamo in lui il nostro “io”, quasi che debba essere un nostro specchio o un’immagine a nostra somiglianza. Il pericolo, il rischio, sempre dietro l’angolo, non è da poco: è quello di, prima, mettere una maschera al nostro “io”, dopo, mettere all’altro questa maschera del nostro “io” che ci siamo costruiti. Illudendoci che questo sistema di maschere non sia falso e violento, ma sia vero, e giusto, e buono, e bello.

* Andrea Muni è insegnante di scuola elementare statale. Ha scritto “Cose che gli insegnanti non dicono”, Armando, Roma 2009.








Postato il Venerdì, 18 settembre 2009 ore 00:00:00 CEST di Silvana La Porta
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