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Umanistiche: Anterem, la rivista di ricerca letteraria

Rassegna stampa
“Anterem” è una rivista culturale, ma anche una casa editrice; entrambe, se non vado errato, sono operative da molti anni, il che basterebbe a testimoniare il favore che incontrano. Come è nata, e quando è nata, l’idea di fondare rivista e casa editrice?

Era il 1976. Il nome della rivista ancora non era “Anterem”, ma “Aperti in squarci”. Il titolo voleva fare riferimento a Rizoma di Deleuze e Guattari, volume uscito proprio quell’anno. Infatti la prima serie della rivista si chiamerà: “La parola rizomatica”. Avrà una durata di tre anni. “Aperti in squarci” nasce per una letteratura “senza generale” e all’insegna del comandamento di Kant: “Sapere aude”, osa servirti del tuo intelletto.
Sul concetto di letteratura rizomatica, vorrei ricordare le parole di Silvano Martini (1923-92) perché costituiscono un vero e proprio programma per la prima serie. Martini è il poeta con il quale ho dato il via a questa lunga avventura.
“L’albero e il rizoma sono strutture che stanno a indicare due tipi opposti di letteratura. Cos’è un rizoma? Un fusto sotterraneo di piante erbacee perenni, simile a una radice. L’albero, invece, possiede un fusto esterno al terreno, che poggia su radici e si espande in rami. La letteratura arborea è centrica. Quella rizomatica è acentrica. Nella prima tutto si svolge tra vertice e base, in rapporto di chiara concatenazione e di rigida dipendenza. Nell’altra, ogni svolgimento è base e vertice insieme, e tutti gli svolgimenti hanno la medesima importanza. La letteratura rizomatica permette qualcosa di specifico che normalmente non si dà: il collegamento di un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi della sfera vitale. Questo significa che la circolazione del senso ha una libertà illimitata”.
Tali riflessioni – pubblicate sul n. 7 (aprile 1978) della rivista – rivelavano che era svanita per noi l’idea di un centro unitario che rappresentasse un riferimento sicuro per la nostra esperienza. Da qui quello strano nome: “Aperti in squarci”.
Lo stesso anno ha preso il via la casa editrice. La prima autrice è stata Silvana Bellocchio, poeta e psicoanalista, appartenente al gruppo femminista delle Eumenidi. Il titolo del volume: La gioia precede il nostro andare. Liberazione non più emancipazione.

Secondo me, il concetto di letteratura rizomatica meriterebbe un maggiore approfondimento, o comunque un esempio, perché non credo che la maggior parte dei miei lettori, come del resto me, possano comprendere compiutamente. Ce ne dici?

La letteratura rizomatica – così com’è intesa nel loro libro da Deleuze e Guattari, e poi da noi di “Anterem” sviluppata – vuole evitare l’instaurazione di un centro egemone e si offre alla possibilità di generare innumerevoli centri di discorso. Ecco il perché di quella definizione a cui prima accennavo: “letteratura senza generale”, ovvero una letteratura fondamentalmente anarchizzata. Che cosa si propone una letteratura di questo genere? La difesa di una strenua e cosciente anarchia dei sentimenti e delle sensazioni nei confronti della realtà.
Pensiamo a questo: nel corso di ogni nostro atto siamo davanti a delle cose che mai sono date una volta per tutte. La realtà muta continuamente, in un incessante divenire. Non c’è terraferma. Non solo. Davanti a noi si forma un insieme di pulsazioni luminose, che generano costellazioni, disegni variabili sia per forma sia per intensità a seconda dell’occhio che le osserva. Ciò che vediamo non è la realtà, ma le figure sotterranee della nostra anima: quasi un olimpo rovesciato che ha più familiarità con i demoni che con gli dei. Ognuno di noi deve riuscire ad accogliere il presupposto che a lui solo e a nessun altro in sua vece spetta il compito di mettere a fuoco la realtà.
Erano gli anni Settanta, un decennio fortemente ideologicizzato. Legato a un estremismo a volte infantile. Ma l’invito che allora rivolgevamo ai nostri lettori di sottrarsi a un potere che li vuole docili a un senso precostituito – solitamente compreso tra il tintinnio delle monete e l’apatia del pensiero – lo sottoscriverei anche adesso.
Un buon esempio di letteratura rizomatica? L’Azione parallela dell’Uomo senza qualità di Musil.

Ora è comprensibile e direi che alla base c’è un pensiero filosofico, proprio perché può essere applicato non solo alla letteratura, ma alle relazioni dell’uomo con la realtà di ogni giorno. ANTEREM è un semestrale tematico che analizza il discorso poetico e ne approfondisce le diverse sfaccettature. Considerato che questo lavoro presenta caratteristiche di elevato livello, direi che la rivista si propone a un limitato numero di addetti ai lavori, finendo con il divenire elitaria e quindi accessibile a un numero ridotto di possibili fruitori. Senza pensare di fare un prodotto con caratteristiche nazionalpopolari, non è che per caso sia passata per la mente l’ipotesi di scrivere articoli adatti, come comprensibilità, a un pubblico più ampio e quindi non necessariamente specializzato?

No, quella che poni è una questione che non abbiamo mai dibattuto. Non ci siamo mai posti il problema della divulgazione. Non ne abbiamo mai sentito l’esigenza. Abbiamo sempre avvertito, invece, la responsabilità di fare ricerca letteraria (il sottotitolo della nostra rivista, non va dimenticato, è “Rivista di ricerca letteraria”) e abbiamo sempre ritenuto che la responsabilità vada cercata nell’altrimenti di una scrittura che non proceda pietrificando le cose nella “spiegazione”, nella didattica. Una scrittura che si faccia carico di un compito non più solo estetico, ma anche etico. Noi riteniamo che il nostro compito sia quello di invitare il lettore a conferirsi in assoluta autonomia il potere di interpretare il mondo e il testo, il potere di autodirigersi, il potere di sottrarsi alla scena insopportabilmente illuminata dei mass media. Il potere di concepire se stesso non solo come lettore, ma anche come soggetto criticamente capace di intervenire sul testo. Detto questo, non è che noi siamo chiusi in una torre d’avorio... Della nostra rivista tiriamo 4000 copie. E’ un caso raro in Italia per un periodico di poesia. E se i numeri dicono qualcosa, significa che non solo gli addetti ai lavori ci leggono...

Quattromila copie non sono poche e io forse sono stato indotto alla precedente considerazione dall’impostazione pedagogica che, come me, ha interessato tutti nel periodo scolastico. Nonostante mi ritenga uno che intende andare - non per partito preso - contro corrente deve essere rimasta quell’abitudine ad accettare la nozione come proposta da altri. Ovvio che, almeno tendenzialmente, approvo questo scopo di auto- dirigersi. Ma torniamo alla rivista, anche se il colloquio è piacevole pure per altri argomenti, sia pure indirettamente connessi. Rilevo che c’è un corposo numero di collaboratori, che del resto sono elencati in una delle prime pagine. Con che criteri vengono scelti? E, come funziona? Mi spiego meglio: poiché il numero è tematico, li contattate dicendo di scrivere un articolo della specie, oppure, come nel caso delle poesie, attingete dalla produzione corrente?

Per rispondere a questa domanda è necessario premettere che “Anterem” è il risultato del confronto tra ricerca poetica individuale ed elaborazione teorica collettiva. E che ogni numero si destina sì a un tema, ma vuole configurarsi anche come un’opera organica. E questo sin dal primo numero. Va da sé che la prima serie (quella dedicata alla “parola rizomatica”) privilegiasse tematiche di ordine ideologico. Alla “fabbrica” era dedicato il primo numero... La seconda serie sarà legata alle “forme dell’infrazione letteraria”... E così via. Ma di questo parleremo più avanti se lo vorrai. Per ora va detto che ogni numero è un incrociarsi ininterrotto di riflessione teorica e pratica poetica, in un intreccio di forze, pensieri, idee, problemi diversi. Con la consapevolezza che c’è un unico modo per determinare il corso della letteratura: elaborare nuove forme espressive e nello stesso tempo dare vita a strutture di pensiero adeguate a parlarne. Tutti i nostri collaboratori ne sono consapevoli. Sanno che il loro contributo andrà a far parte di un “dialogo”, in un programma di ricerca dichiarato. Questo, sia per i testi teorici sia per le poesie e le prose poetiche. Ogni numero costa da uno a due anni di lavoro. Poco o niente viene lasciato al caso. Si stabilisce un tema, che solitamente costituisce un approfondimento del tema del fascicolo precedente, e a ragionare intorno a questo tema sono chiamati pensatori di varia estrazione, che scrivono testi originali per noi. Nel caso della poesia ci rivolgiamo a quei poeti che stanno muovendosi – per quanto ne sappiamo – nell’ambito o, quanto meno, nelle vicinanze di quel particolare tema; quei poeti che nel loro mobile itinerario sappiamo che possono incrociare la loro rotta con la nostra... Delicatissima è la fase dell’ideazione del menabò. L’intento, come dicevo, è quello di dare vita a un’opera organica. Un po’ come il montaggio di un film. È necessario dunque che ogni intervento sia conseguente a quello che precede e introduca nello stesso tempo quello che lo segue. Come se si desse vita a una “vicenda”. E accade, come puoi immaginare, che manchi sempre qualcosa. E allora è necessario chiedere un intervento all’ultimo momento... o una poesia... Poiché ogni numero viene preparato con due anni di anticipo, ci troviamo a lavorare contemporaneamente su tre o quattro tematiche... Non è facile, come capirai. Ma possono capitare anche piacevoli coincidenze che ci inducono a far transitare un testo da una tematica a una contigua... Avrai capito che la nostra è una rivista molto particolare anche nel suo farsi oltre che nel suo offrirsi ai lettori. Forse unica.

Direi unica, perché se ho ben capito Anterem è un laboratorio di ricerca che, pur seguendo un filo logico, si arricchisce di volta in volta delle esperienze precedenti, che portano a innestare sulla struttura principale nuove tematiche o proposizioni maturate. Diciamo che cresce di numero di in numero nella misura in cui crescono quelli che vi scrivono. L’idea del montaggio mi piace, un montaggio che viene ad essere effettuato però dopo ogni scena, cioè dopo ogni numero. La domanda: chi decide le tematiche?

Una leggenda redazionale vuole che le tematiche nascano da sole, per partenogenesi. In realtà se tu scorri i titoli delle tematiche hai proprio questa sensazione. Prendi la Quinta serie, quella dedicata agli “Elementi della percezione”. La successione è: La poesia pensa, Antipensiero, Il perturbante, Figure del perturbante, Lo straniero, Pensare l’Antiterra, L’Antiterra, Nozione di ospitalità e così via. C’è un avanzare nella conoscenza quasi “obbligato”... Ma poi le leggende vanno sfatate. E il dato di fatto è che le tematiche vengono sempre discusse in redazione – una redazione, va sottolineato, composta interamente da poeti: Giorgio Bonacini, Davide Campi, Mara Cini, Marco Furia, Madison Morrison, Rosa Pierno, Ranieri Teti, Ida Travi – ed è proprio dalla discussione che emergono le questioni che a noi per primi fa piacere approfondire. Va detto che la discussione non obbedisce a logiche predefinite. È molto anarchica. Libera. Tanto che buona parte di questa libertà confluirà poi tra le pagine della rivista. Dando vita a una ricerca che si fonda su una tensione indeponibile che conduce dall’ascolto all’ascolto pensante, in una dislocazione che richiede una sospensione di ogni abitualità di senso. Un modo che vuole essere un leggero circondare (come salvaguardare, come custodire) non un possedere, non un rinchiudere nel concetto. Questa libertà ci ha consentito di misurarsi con tante strategie per giungere a nominare la parola “ante rem”. Il nostro è un cammino non privo di peripezie. Le cinque serie lungo le quali fin qui si articola il nostro viaggio di conoscenza corrispondono proprio alle diverse strategie messe in atto per giungere a nominare la parola inaugurale, quella parola (poetante e insieme pensante) che abbia recuperato tutto il primitivo valore, le sue native potenzialità.

Proprio da quell’ante rem prendono quindi il nome la rivista e la casa editrice, nate insieme nel 1976, se non vado errato. Fa piacere, leggendoti, rilevare che nonostante siano già trascorsi una trentina d’anni permanga immutato l’entusiasmo. Probabilmente questo dipende anche dal fatto che il tuo non è un lavoro di routine, ma è un continuo divenire, così che non vi è mai nulla di ripetitivo, tranne la continuità della sfida con se stessi nell’attività di ricerca.
Nell’ultimo numero, il 78, L’Apostrophé, la tua introduzione-editoriale inizia con “ Torniamo a parlare del principio e del suo interminabile apparire. Parliamo di qualcosa che, con una domanda, ogni volta comincia e, con l’ultima domanda, prepara il nuovo inizio.” In pratica mi sembra la filosofia e lo spirito a cui è improntata la rivista. Inoltre, alcune righe dopo, aggiungi “ L’esperienza poetica del pensiero coincide dunque con il moto nascente della lingua” e ancora “ Quella parola è la salvaguardia di ciò che la vita non dice.”. Vorresti, cortesemente, tradurre, a beneficio dei lettori, il significato delle tue parole in termini più comprensibili, magari ricorrendo anche ad esempi?

La struttura di ogni numero di “Anterem” è particolarmente complessa, così come le varie fasi ideative e progettuali che ne presiedono la nascita. Tuttavia il nostro intento è donare alla lettura un’opera che non mostri segni che rendano ardua la lettura. Eppure qualche volta accade, come nelle frasi che hai evidenziato nel mio editoriale, che il discorso teorico si faccia iniziatico. Ne sono consapevole. Ti dirò di più: questa consapevolezza fa parte quasi sempre di un disegno. Ti svelerò un segreto. In ogni editoriale viene sempre annunciato uno dei temi che saranno poi trattati dalla rivista. I lettori che ci seguono da anni ormai lo sanno. Oppure lo intuiscono, com’è accaduto a te. Ebbene, quell’ “esperienza poetica del pensiero” sarà proprio il tema che affronteremo in uno dei due numeri del prossimo anno. Di questa tematica noi abbiamo già discusso in redazione e alcuni studiosi – selezionatissimi, come potrai immaginare – stanno già lavorando. Sono dunque già in grado di dirti cosa intendiamo noi per Esperienza poetica del pensiero. Questo mi consente anche di rispondere alla tua richiesta di “chiarimenti”. Per esperienza poetica del pensiero intendiamo quell’esperienza che – di fronte al non-veduto della vita – impone una discontinuità nella riflessione, quasi un impulso a cogliere il punto d’intersezione tra la ragione del percorso filosofico e la passione del dire poetico, come accade nell’“ultrafilosofia” nominata da Leopardi. Con questa tematica intendiamo indagare gli elementi poetici con i quali il pensiero deve fare i conti quando si trova di fronte a ciò che è da-pensare e – in pari tempo –appaiono insufficienti le categorie finora conosciute. L’esperienza poetica del pensiero, scrivevo nell’editoriale citato, coincide con il moto nascente della lingua. Perché? Perchè scopriamo che non c’è sostanziale diversità tra quella parola che stiamo ascoltando e il silenzio che assedia i bordi dell’essere. Ecco perché la poesia conduce all’ascolto di noi stessi ed è così vicina a ciò che siamo. Quella parola è la salvaguardia di ciò che la vita non dice, scrivevo. Perché? Perché è una parola “delebile”, sottratta alla coscienza per mettere in essere le cose, così come annuncia la pagina rilkiana: «Terra, non è questo ciò che vuoi, / invisibile risorgere in noi?». Solo in apparenza c’è in gioco esclusivamente la poesia. Arrischiandosi nella parola autentica, gli uomini rischiano di perdere o di trovare la propria essenza.

La rivista non è aperta solo alla poesia, ma anche alla prosa, quest’ultima comunque breve e, se comprendo bene, sempre di supporto al discorso poetico. D’altra parte c’è una stretta e permanente correlazione fra pensiero filosofico e creazione poetica; anzi, se mi consenti, direi che c’è la vocazione alla filosofia della poesia. Questo non mi sorprende, perché una rivista di ricerca necessariamente procede a graduali approfondimenti che sviluppano correnti o incisi di pensiero. Una domanda che può sembrare banale: perché non affrontare anche la narrativa, o questa si presta meno della poesia a continue innovazioni espressive, cioè è più statica?

È vero che in linea di massima il lavoro di ricerca di “Anterem” ha le sue fondamenta nella poesia, e in modo più specifico, nella grande poesia europea e in quella tradizione che tiene conto di tutti quei processi interiori dove positivo e negativo, ascesa e caduta, appropriazione e rinuncia convivono indissolubilmente. Non è forse vero che la scrittura è definita dall’azione simultanea di due movimenti di senso opposto? Ecco perché il poeta nomina un permanere che è anche un andare verso, perché la parola divenga ciò che è. Le “narrazioni” che noi proponiamo alla lettura prevalentemente si riferiscono proprio a questo “itinerario della parola nel testo” (come abbiamo titolato un fascicolo di molti anni fa). Ma non escludiamo racconti per così dire “tradizionali”, con i loro personaggi, le loro trame... Esempi sono le narrazioni recentissime di Yves Bonnefoy e Pascal Quignard, oppure quelle di Gabriella Drudi e Giacomo Bergamini... Per non parlare di un fascicolo interamente dedicato a “I romanzi”. Comunque, sì, la percentuale è minima rispetto alla poesia e alla prosa poetica. Prima accennavo alla grande tradizione europea e mi rendo conto che non posso lasciare la frase in sospeso così, senza aver fatto almeno qualche esempio. La ricerca alla quale mi riferisco è quella che ha le sue radici nella Grecia arcaica dei Nomothetes e si inoltra con decisione nell’aperto a cui conducono le strade tracciate da Arnaut (le sestine), Petrarca (Fragmenta), Scève, Ronsard (Sonnets pour Hélèn), Jodelle (i sonetti), Nerval, Jean de Sponde, Hölderlin, Rimbaud (Illuminations), Mallarmé, Rilke, Ungaretti, Char, Celan, Zanzotto. Una poesia che abbraccia, per riprendere una tua bella espressione, la vocazione alla filosofia della poesia.

E’ una domanda provocatoria, ma fino a un certo punto. Viviamo in un’epoca di materialismo sfrenato, dominata da bassi istinti, una sorta di oscurantismo che progressivamente ha addormentato le coscienze e ha facilitato la supremazia dell’apparire sull’essere. I sentimenti sembrano relegati a memorie preistoriche, la cultura viene vista come un pericolo e l’intellettuale è gradualmente emarginato; si è perso il ricordo del passato, si vive un illusorio presente e sembrano cadute le speranze per un futuro migliore. In questo contesto, secondo te, la poesia può avere un avvenire?

Come non essere d’accordo con quello che affermi? I tempi che viviamo sono più del calcolare che quelli del meditare. Anziché proteggere la sua felicità, l’uomo si dà un’esistenza pietrificata; via via s’infligge progressive mutilazioni. Di fronte all’economia della sopraffazione dell’uomo sull’uomo e contro la stasi dell’intelligenza si possono scegliere varie strade. Una la indica Cacciari quando, riferendosi ai neoliberisti, afferma che «dobbiamo essere infinitamente, radicalmente e coerentemente più globali di costoro». Cosa significa? Vuol dire ricominciare da ciò che resta della comunità originaria, dove trova dimora il linguaggio, dicendo a chi è vicino che «non è solo» e prendendo sul serio le proposte di libertà e di uguaglianza e di opportunità che la Rete e la Globalizzazione consentono. Che è un po’ quello che tu fai, Renzo, con il tuo sito e con le tue periodiche newsletter. Ricominciare da ciò che siamo e da come lavoriamo andando dal locale al globale, navigando tra le comunità della Rete e ritornare nella nostra comunità originaria ampliando con ciò che viene dalle altre diversità i fondamenti della nostra cultura locale, delle nostre tradizioni, della nostra lingua. Cercando di cambiare in senso a noi favorevole questo nostro vivere. Insomma, il disagio che ci opprime, se può essere scatenato da altri, è stato tuttavia da noi accolto senza troppe difese. E col tempo è divenuto quasi una forma di vita alla quale difficilmente sentiamo ora di poter rinunciare. Essere pensati da altri alleggerisce il peso della nostra esistenza. Questo è vero. Ma lo riteniamo anche giusto?
Partendo da queste considerazioni, torniamo alla poesia, perché vorrei rispondere compiutamente alla tua domanda: c’è un futuro per la poesia? Domanda alla quale io ne aggiungerei un’altra: c’è un futuro per l’essere umano? La risposta in entrambi i casi è sì, purché ci si riferisca agli esseri pensanti e alla poesia pensante.
La possibile definizione di essere pensante è questa: un essere che non si lascia pensare da un altro essere o da una macchina. E la poesia pensante? La possibile definizione di una poesia pensante è questa: una poesia che non si lascia pensare da un’altra istanza; una poesia che in qualche modo sia il prodotto di un’esposizione e di un ascolto nei confronti delle cose senza mediazione. E questo perché la parola non abbandoni totalmente l’inquietudine dell’enigma per la quiete della ragione. Infatti, per la parola poetica non si tratta di afferrare le cose, come vorrebbe la ragione, ma di incontrarle.
Nominando la cosa, la parola poetica le assegna il suo destino. Ma nel farlo paradossalmente scava un abisso tra sé e la parola della comunicazione. Scava un solco tra sé e lo spirito del tempo. Proprio questo solco ha caratterizzato la poesia dal momento in cui gli uomini sono passati dalle parole prime, originarie, alle parole riflesse. E finché gli uomini si accontenteranno delle parole riflesse sempre ci sarà la necessità che qualcuno, il poeta, ricordi loro – magari attraverso le pagine di una rivista – che la parola non è sono uno “strumento” ma anche una “forma di vita”, per citare, insieme, una tematica di “Anterem” e Wittgenstein. In questo compito è racchiuso il futuro della poesia.


Giusto il richiamo alla produzione della Anterem Edizioni, anche perché Anterem non è solo una rivista di ricerca letteraria, ma è anche una casa editrice, è pure un premio di poesia (Lorenzo Montano), è un centro di documentazione della poesia (presso la Biblioteca Civica di Verona, è un sito web (www.anteremeedizioni.it), è una biennale di poesia ( e ogni edizioni prevede eventi poetici, artistici e musicali). Quindi non è esagerato affermare che Anterem è una struttura dinamica culturale che si realizza in diverse forme partendo dall’idea originaria. Personalmente credo che la sua funzione finisca con l’essere divulgativa e contribuisca pertanto a una crescita di conoscenza di cui ci sia da essere fieri, soprattutto in un periodo quale l’attuale, oscuro, letargico e distopico.
Non so se questa lunga chiacchierata sia riuscita a rappresentare adeguatamente il valore della rivista, ma credo che almeno siamo riusciti a far sorgere una naturale curiosità per la stessa tale da indurre a cercare di leggerla, pur nella consapevolezza che l’approccio non sarà dei più facili; al riguardo ritengo opportuno precisare che il leggere non deve essere sempre solo uno svago, ma dovrebbe rappresentare l’occasione per un accrescimento culturale e a questo scopo Anterem è dedicata.
Ringrazio Flavio Ermini per la disponibilità dimostrata e lo saluto con l’augurio che questa sua creatura continui a crescere come nei suoi primi trent’anni.


Anterem 78








Postato il Sabato, 12 settembre 2009 ore 14:27:41 CEST di Maria Allo
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