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Cultura e spettacolo: Comencini raccoglie applausi, Heslov risate, Maoz lacrime

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Giornata intensa e variegata quella di oggi a Venezia. Tre registi, tre idee forti, tre modi di vedere la guerra. Che sia quella solitaria di una madre contro se stessa e una vita sospesa, quella di giovani chiusi in un carro armato, quella di un esercito hippy e surreale. Soprattutto tre modi di fare cinema con il coraggio di essere imperfetti ma diversi.

Lo spazio bianco- Concorso
Francesca Comencini è una regista forte, nei contenuti e nella struttura dei suoi film, e anche in alcune scelte estetiche che spezzano la convenzionalità che a volte coglie il suo stile. Se decidi di andare al cinema a vederla, nel momento in cui ti fai staccare il biglietto sai che incontrerai una storia e una visione inusuale. In un cinema maschilista come quello italiano, lei mette al centro le donne (persino nel "maschio" A casa nostra c'era una Valeria Golino mattatrice) e la riflessione, anche solo marginale, su un'Italia sbagliata (si pensi a Mobbing- Mi piace lavorare). Per queste ambizioni e sfide, spesso, si sente un'imperfezione di fondo, una discontinuità che ne rallenta i film troppo spesso. Qui la regista racconta il dramma di una madre matura (Margherita Buy, la Coppa Volpi potrebbe essere sua) costretta da madre natura a un parto prematuro. La sua bimba, Irene, ha solo sei mesi e deve concludere la gestazione in incubatrice. Lei, la madre sola, può solo aspettare. Il libro da cui è tratto il film è quello di Valeria Perrella, lo scopo è indagare la maternità nelle difficoltà di quello spazio bianco, raccontare una donna che non voleva essere madre, che impara ad amare e volere questo ruolo, il miracolo della vita (anche se il vero miracolo è la Napoli senza traffico del finale). In mezzo c'è anche un po' d'Italia, dalla magistrata vicina di casa che per dovere amicale e istituzionale sceglie una vita odiata di reclusione, tradita dalle istituzioni, alla gag indignata sui "figli illegittimi", dal microcosmo adorabile delle scuole serali in cui insegna la protagonista (su tutti Giovanni Ludeno e Salvatore Cantalupo) alla mamma napoletanissima Antonia Truppo. E, va detto, c'è una Buy davvero brava in un ruolo dolente e ruvido. Ma il film ha nel titolo la sua recensione. È uno spazio bianco, non concluso, in cui le intuizioni migliori rimangono sospese come la vita di quella piccola sotto osservazione, e noi non riusciamo a entrare nel film, a sentirlo, ad amarlo. C'è impegno e talento, ma non la forza di andare oltre.
Voto: 5 ½

The man who stare at goats- Fuori concorso
Grant Heslov è un esordiente. Che alla sua opera prima mette insieme, nei soli ruoli principali, Ewan McGregor, George Clooney, Jeff Bridges e Kevin Spacey. Viva l'America e il suo cinema, che ha questo coraggio, anche se va detto che il nostro si era fatto le ossa e il nome con sceneggiature di eccellente livello (una delle quali è proprio Good night and good luck del divo brizzolato) e persino con una buona carriera d'attore. Decide, con Peter Straughan, di prendere un libro bizzarro di Jon Ronson (in Italia edito da Arcana con Capre di guerra, da leggere) e portarlo al cinema, divertendo e divertendosi. E magari lasciando stoccate niente male all'America violenta e ottusa del nuovo millennio. Si parla di paranormale, spie psichiche di un'unità speciale e segreta dell'esercito americano: Progetto Jedi (e pensando all'Obi-Wan Kenobi del protagonista, si coglie la prima di tante metacitazioni autoironiche). Un insieme di uomini sotto il comando di Bridges, divenuto hippy dopo il Vietnam, formano l'esercito della nuova terra, in cui tutti hanno capelli lunghi, fiori al posto dei fucili, capacità preveggenti e un'insolita attitudine al ballo per essere militari. Ma l'ambizione di un'anima nera (ancora Guerre Stellari), un Kevin Spacey imbronciato, rovina questo sogno e crea una diaspora dell'avanguardia di quella che doveva diventare la prima superpotenza con superpoteri. McGregor è lo spettatore- giornalista prima incredulo e poi empatico, Clooney il campione di questa unità, ora outsider che si racconta. Il finale lisergico è molto politico (come il commento sull'America che si sta rammollendo, ironico sostegno a Obama), e ci fa dimenticare una seconda metà del film non all'altezza della prima, esplosiva e spesso geniale. Come molta comicità statunitense, quando vuole essere surreale e metaforica, si ingarbuglia venendo al dunque, si smorza e rischia la prolissità. Ma rimane un film speciale e insolito, anche nella bella regia. E che ci dice, come a inizio film, che «questa storia è vera più di quanto possiate immaginare».
Voto: 7

Lebanon- Concorso
Era il film più atteso del concorso. Un altro israeliano, ex militare, dopo Ari Folman, che racconta la ferita aperta del suo paese: la guerra in Libano. Dopo 20 anni di psicanalisi, rinchiude se stesso e il film in un carro armato, e non ne esce più. Idea potentissima, che fa vedere la pellicola in apnea allo spettatore, che crea una claustrofobia fisica e morale che turba. Soldati troppo giovani per uccidere e morire, proprio com'era il regista Samuel Maoz allora. Un universo in scala che ricalca, impietoso, le contraddizioni di un popolo e di una guerra. Peccato, solo, che il pur bravo cineasta si accontenti di mettere un mirino all'esterno (letteralmente, vediamo tutto dal puntatore del carro armato, quando non siamo all'interno dello stesso) e creare situazioni atroci (i terroristi, il contadino, la famiglia indifesa, il prigioniero siriano, i litigi tra commilitoni) ma senza troppi guizzi. Tutto è un po' troppo prevedibile e per quanto siano bravi gli attori, il film non è all'altezza del suo soggetto (anche perché raggiungerlo era quasi impossibile). Un capolavoro che rimane un buon film, perché si accontenta di segnare un rigore a porta vuota. Di soffocarci con le immagini "rinchiuse" senza stupirci, o affondare il colpo. E, certo, paga anche il venire dopo l'ottimo Valzer con Bashir.

da www.ilsole24ore.it









Postato il Giovedģ, 10 settembre 2009 ore 00:00:00 CEST di Filippo Laganą
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