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Voce alla Scuola: DOMANDE SULLA CONDIZIONE UMANA DEGLI INSEGNANTI E DEGLI STUDENTI

Opinioni

Domande sulla condizione umana degli insegnanti e degli studenti

Modalità dell’esistere nella scuola e nel mondo

 

 

I. Ricchezze e povertà del mondo della scuola

 

Il deserto dell’Africa. Desiderio di acqua. Cataclismi. Desiderio di sicurezza. Rivolte, guerre e stragi. Desiderio di pace. Il desiderio nasce da una mancanza. Come si può desiderare qualcosa che già si ha o che già si è? La mancanza è un male? Il desiderio è buono?

 

Presenza-assenza: e in mezzo? Cosa c’è nel “tra” la presenza e l’assenza? E nel “dentro”? L’assenza si fa presenza. Si fa sentire. E produce. Produce desiderio. Desiderio di altro da sé. La presenza si fa assenza. Non si fa sentire. E non produce. Si nasconde. Lascia parlare l’altro da sè.

 

I problemi delle povertà materiali del mondo, dei gruppi e dei singoli. Persone senza soldi, senza acqua, senza alimenti, senza casa, senza vestiti. E, d’altra parte, persone che hanno tutto. Ma che non sono niente. Che usano le proprie cose per coprire il proprio niente. Che coprono col proprio tutto il proprio niente. Che usano i propri averi come maschera sopra il proprio volto. Che si identificano nelle proprie cose. Che, tolte le proprie cose, non saprebbero più chi sono. Che vivono per le proprie cose. Vivono per avere. Sono quello che hanno. Se non hanno niente, non sono niente.

 

Persone senza lavoro. D’altra parte, persone che sono il proprio lavoro, che si identificano in esso. Il lavoro, come pure il denaro, non è forse uno strumento, un mezzo? A volte diventa un fine. Non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare. E così pure non si mangia per vivere, ma si si vive per mangiare; non si ha per vivere, ma si vive per avere. E cosa significa “vivere”? Vivere “umanamente”?

 

Persone che desiderano essere “importanti”. “Importanti” per chi? Per cosa? Persone che desiderano essere “utili”. “Utili” a chi? A cosa? Persone che coprono il proprio vuoto con l’esercizio della propria intelligenza, della propria tecnica, della propria forza. Persone che riempiono il proprio niente con il proprio fare, con il proprio agire. Persone che finiscono con l’essere quello che fanno, la cui identità finisce con l’essere il proprio agire. Ma cosa significa “essere”? Tolto il proprio fare, il proprio agire, cosa resta? Il fare non è forse un aspetto visibile dell’essere? L’agire non è forse una voce dell’essere? Ma l’essere non può forse anche essere senza voce? O decidere di non parlare? Pur continuando ad essere? L’essere non può forse avere anche degli aspetti non visibili? Non può forse decidere di non mostrarsi? Pur continuando ad essere? Non ci interessa. Ci interessa l’utile. Il resto non è utile e, quindi, non ci interessa.

 

Persone che vivono. Nascono, si sviluppano, muoiono. Che senso ha la vita umana? Persone che amano. Amano chi? Amano cosa? Amano come? Amano perché? Cosa significa “amore”? E come è una persona senza amore? Si può vivere per amore o vivere per amare? Si può amare un “tu” che non sia in qualche modo specchio, ombra, maschera o proiezione del proprio “io”? Ci può essere un “io” senza un “tu”? L’ “io” può esistere senza passare attraverso un “tu”? Chi sono “io”? Chi sei “tu”? “Amore”. Ha senso parlare di “amore” all’interno di un mondo fisico, chimico, biologico regolato da leggi naturali di causa-effetto, da relazioni causali di tipo necessario? Questa parola, “amore”, non presuppone forse una realtà che supera le logiche dell’intelligenza, dell’utile e del necessario?

 

Persone che imparano, persone che insegnano. Ciascuno di noi non sa forse quello che ha imparato, e non agisce forse in relazione a quello che sa? Cosa fa, come agisce, momento per momento, questo o quell’insegnante, per questo o quello studente; come si interpreta, come si vive momento per momento questo o quell’insegnante, questo o quello studente? Quali modalità dell’amare e del desiderare possiamo osservare o ipotizzare nelle scuole? Al di fuori delle logiche e dei linguaggi dell’utile e del necessario, rimane qualcosa nelle scuole? Si riesce, in qualche modo, a fare salva la libertà di chi impara e di chi insegna? La mente di chi impara e di chi insegna, la mente di ciascuno di noi, agisce all’interno di leggi necessarie oppure le supera? È possibile una metodologia di apprendimento e di insegnamento diversa da quelle del premio e del castigo, della carota e del bastone? Fino a che punto?

 

I poveri bussano alle porte dell’opulenza. Problemi nelle distribuzioni delle ricchezze. Ma quali povertà, quali ricchezze? Chi è il povero, chi è il ricco? Siamo come animali d’allevamento o da sfruttamento? Viviamo in un mondo in cui non è possibile essere se non sfruttatori o sfruttati, dominatori o dominati, vincitori o vinti, padroni o servi?

 

Africa, Sud-America, Asia. Tecniche di agricoltura e di allevamento, tecniche di lavoro più produttive, di maggiore efficacia ed efficienza. Tecniche. Tutto è nelle mani delle tecniche? Tutto diopende dalle tecniche? Le tecniche sono diventate padrone del mondo e “dio” per tutti e per ciascuno? Le tecniche mediche, ingegneristiche, agrarie, industriali; perfino le tecniche psicologiche di controllo e dominio della mente, della vita delle persone.

 

Così le psicologie sperimentali, da laboratorio, applicate nell’ambito pedagogico-didattico in forma di tecniche: e giù teorie e pratiche curricolari, programmazioni e progettazioni didattiche, educative, formative, piani delle offerte formative; giù schemi e controschemi per classificare, ordinare, pianificare, razionalizzare, calcolare, misurare, valutare, prevedere, prevenire, controllare, velocizzare i processi di apprendimento. E giù manuali ad uso degli insegnanti, guide all’insegnamento, libri su libri, riviste su riviste. Tutti scopiazzati gli uni dagli altri. Tutti dati per veri, da non iettere in Discussione, quasi fossero libri sacri.

 

Eccg la religione del curricolo e del programma. Eccoil dio dei curricoli e dei programmi. Molto rassicuraftd. E tutti dietro. Tutti adepti di qtesta forma di cultk in cui, a ban vedere, il sacrificio umano è tranq5illamente praticato, dato che il curricolo e il programma finiscono con l’uccidere la libertà del pensiero sia di chi impara che di chi insegna, finiscono con il mettere a morte la stessa umanità di chi impara e di chi insegna, anzi finiscono con l’ammazzare tutti i soggetti della scuola oggettivizzandoli in cose, in macchine, in ingranaggi e meccanismi fisici e chimici, facilmente spiegabili e utilizzabili per mezzo di diagrammi, grafici, formule, mappe concettuali. E giù numeri e percentuali.

 

La pedagogia e la didattica si fanno Metodi e Tecniche di controllo e di programmazione delle menti degli studenti, quasi fossero computer da programmare, da riempire e da rendere pronti all’uso. Le menti degli studenti vengono viste come computer, e l’insegnante si fa programmatore e tecnico informatico, ingegnere e operaio. In questa prospettiva, vengono somministrate prove di valutazione “oggettive”, il cui punteggio viene tirato fuori con la calcolatrice. La ricerca psicologica stessa viene risolta in ricerca medica, in biologia e chimica del cervello, comparabile agli studi sugli animali. Sono le rozze, barbare ingenuità di filosofie illuministiche e positivistiche non ancora definitivamente morte. Il senso magico e superstizioso dell’illuminismo e del positivismo si trascina ancora oggi nelle nostre scuole.

 

Ma tutte tecniche, mediche, ingegneristiche, agrarie, industriali e psicologiche, sia singolarmente intese che nel loro insieme, non sono in grado di rendere felice nessuno, non lo sono mai state nè mai lo saranno. Oggi non viviamo con più felicità o con più amore di quanto si viveva tremila anni fa. Le scoperte scientifiche e le invenzioni tecniche ti fanno girare come una trottola, ti fanno girare intorno a te stesso, ti fanno girare la testa, e tu ti muovi, ti muovi, ti muovi fino a cadere a terra. Giro giro tondo, cade il mondo.

 

L’intelligenza tecnica umana non dà felicità, nè amore, nè niente di importante e significativo. Hitler e i nazisti avevano una grande intelligenza tecnica, tanta da far paura. Erano forti della loro intelligenza tecnica. L’intelligenza che produce medicine è la stessa che produce armi. L’intelligenza che aiqta è la stessa che ruba e che imbroglia. L’intelligenza che guarisce è la stessa ch% uccide. L’intelligenza che produce è la stessache distrugge.

 

L’intell)genza delle cose materiali agisce in un ambito totalmente, radicalmente differente da quello propriamente umano. Perfino l’istruzione, intesa come addestrame.to tebnico, come Insegnamento relativo alle cose, che si può ottenere be.issimo anche per mezzo di macchine come i computer, i televisori, le radio, i registratori, è del tutto inutile alla felicità e all’amore umani. Certamen4e il benessere non coincide con la felicità nècon l’amore. In ogni cas/, tutte le scoperte scientifichE e le invenzioni tecniche non sono né sufficienti né ndcessarie alla felicità o all’amore. Tutto quello che, nella storia dell’umanità, è stato scoperto o inventato, tutto quello che si lascia passare per sviluppo e progresso, niente aggiunge, niente cambia nel cuore di nessuno. Le cose sono cose, i pensieri sono pensieri. Vanno per strade differenti.

 

L’ “amore”. Anche l’ “amore” a volte viene inteso in modalità tecnica, come qualcosa di misurabile nell’ambito di criteri utilitaristici. L’ “amore” è sempre anche un “voler bene”. Ma quale “bene”? Il bene che si può comprare con i soldi? Il bene che possono offrire le varie tecniche mediche, ingegneristiche, agrarie, industriali; il bene che alcune tecniche psicologiche dicono di poter dare? Un bene cosificato, di consumo, che si può usare e sfruttare? Ma un bene che, per sua stessa natura, di per sé non è in grado di renderti felice, nè di renderti capace di amore, è un bene?

 

 

 

II. Che fare?

 

Ci sono persone che muoiono per la fame, per le malattie, per le guerre, per i delitti, perfino per la tristezza, per la mancanza di voglia di vivere. Che fare? Non è risolvendo questi problemi che si risolve il vero problema, che è propriamente esistenziale, relativo alla condizione umana in quanto tale. Non è eliminando la fame, le malattie, le guerre o i delitti che si rendono felici le persone, nè capacoi di amore. Con questo non voglio dire che non dobbiamo preoccuparci della sopravvivenza, dei beni materiali necessari alla sussistenza ed a una sussistenza dignitosa.  Voglio però dire che una persona può anche morire felice, amando ed essendo amata.

 

Una persona può essere vittima della fame, della malattia, della guerra, del delitto e nonostante questo può essere felice ed amare; mentre una persona che non solo non soffre né la fame, né la malattia, né la guerra, né il delitto, ma addirittura si trastulla nel lusso di ogni comodità, non per questo è sicuro che sia felice e che sperimenti la realtà dell’amore, proprio perché il benessere non è una garanzia di un reale “star bene”, “star bene” con se stessi, con gli altri e con il mondo.

 

Leggo che l’ “umanesimo” e l’ “umanitarismo” non sono ancora morti. Ne deduco che il culto dell’uomo è ancora vivo. Alcuni continuano a credere che l’ “uomo” sia fine a se stesso, un “uomo” inteso come “cosa” o “macchina”, un “uomo” i cui desideri sono relativi al benessere materiale, alle cose. Poi ti ritrovi davanto ad un ricco o ad un intellettuale depressi, tristi, suicidi e giri pagina, continui a inseguire anche tu il benessere materiale tuo proprio o di qualcun altro a cui tu pensi di voler bene (il suo benessere materiale). Alla fin fine, quando ti si parla dell’ “uomo” è per dire “lupo”.

 

Le politiche, ingenue quanto pericolose, dell’ “umanesimo” e dell’ “umanitarismo”, si illudono che cambiando le forme o le modalità di governo possa servire a qualcuno; non si rendono conto che ciò che conta, in politica, è la realtà esistenziale di chi governa, sia esso uno o siano pochi o siano molti o siano tutti. La politica “umanistica” o “umanitaria” si arma delle tecniche dell’intelligenza umana e si illude di trovare in esse la risposta ai “bisogni” dell’ “uomo”. In realtà, non fa altro che imbavagliarli e metterli a tacere. Perché questi “bisogni” non sono “cose”, come l’ “uomo” non è una “cosa”. Oltrepassano le realtà sensibili. Superano il mondo fisico, chimico, biologico, sociale. Si aprono su altro, sul quale l’intelligenza tecnica non ha possibilità di azione. Una religione dell’ “uomo” e per l’ “uomo”, finisce con l’essere una religione di lupi, di serpenti, di zanzare, di ragni in cui finiamo col mangiarci a vicenda. Al posto delle Chiese si vogliono ragnatele. Razionalissime, geometricissime, logicissime, utilissime, meravigliose ragnatele. Sì, perché chi, o cosa, è questo “uomo”?

 

Cosa è necessario e sufficiente alla felicità e all’amore, non si sa. Sfugge alle logiche umane, oltrepassa le possibilità di controllo tecnico, supera i criteri di misura, di osservazione, di sperimentabilità, non si fa vedere, non si fa sentire, non si fa toccare, resta in una trasparenza o in uno sfondo delle cose che non si lascia prendere, afferrare, dominare, cosificare. E tutte le nostre psicologie, tutte le nostre tecniche psicoanalitiche o psicoterapeutiche sono psicologie senza amore e senza felicità, psicologie incapaci di dare amore e felicità, psicologie che si accontentano di dare false consolazioni, false equilibrazioni, false soddisfazioni, spiegazioni incomplete e parziali, limitate a quanto non solo non è sufficiente, ma neanche necessario.

 

E allora, che fare? La domanda suona sul “fare”. Non sull’ “essere”. E sul “che”, ovvero sul “cosa”. Non ci si chiede: “Come essere?”. In quale modalità dell’esistenza vivere, in quale modo dell’esistere stare, in quale atteggiamento interiore camminare, verso quale fine dirigerci, verso quale realtà aprirci, chi o cosa essere, e come esserlo?

 

Dipendenze e fughe. Verso chi, verso cosa, perché? “Disadattamenti”. Che bella parola! Come dire: “Tu devi adattarti, per forza”, “tu non puoi e non devi mettere in discussione le situazioni nelle quali ti trovi, le cose che osservi intorno a te”. Ti si indica la felicità nell’adattamento. Meglio ti adatti, più sei felice. Se non ti adatti, soccombi, diventi vittima, e ne soffri. Questo ti si dice. Ti si insegna ad adattarti. Adattarti alle cose che ti circondando, alle situazioni in cui ti trovi. Mimetizzati nel tuo ambiente, pronto a uccidere.

 

Si cerca un “buon” lavoro. Si cerca un “buon” stipendio, un “buon” orario di lavoro (meno lavori, meglio è), un “buon” tipo di lavoro (più è facile, meglio è; più è prestigioso e stimato, meglio è). Poi si finisce con l’identificare la persona con il suo lavoro. E si finisce col pensare, implicitamente, che chi non ha, o non fa, un “buon” lavoro, non è una “buona” persona, non ha niente da dire, non la si ascolta, non ha niente da insegnare, se non in via negativa: “non fare come lui”, “non fare così, se non vuoi diventare come lui”, “se non studi, se non ti impegni, finirai come lui”.

 

Nelle scuole, gli insegnanti finiscono col trasmettere, esplicitamente o implicitamente, valori etici e morali di questo tipo. Finiscono col diventare strumenti di controllo sociale e di inculcazione nelle menti dei bambini di questa mentalità tecnicistica, utilitaristica, vuota di felicità, di amore, di umanità. Non sempre. Ma a volte sì. Per il resto, la scuola, per molti anni, è obbligatoria. Fino all’età di sedici anni, tu sei obbligato, costretto a lasciarti somministrare queste iniezioni violente di presunte “verità”. Ti si insegna a pensare come i tuoi insegnanti, i quali a loro volta hanno imparato a pensare come i loro insegnanti, tutti ripetitori meccanici gli uni degli altri. Non tutti. Ma alcuni sì. Ripetitori, copiatori, imitatori, obbedienti seguaci di obbedienti seguaci.

 

 

III. Siamo tutti uguali?

 

Davanti a noi stessi e al mondo, siamo tutti uguali. È la nostra condizione esistenziale, interiore, a renderci uguali. Per quante cose ci possano arricchire e distanziare da chi è nella miseria e a stento sopravvive, ci si sperimenta momento per momento sempre con la stessa realtà interiore, con lo stesso “io”, e ci si accorge sempre più persi nelle proprie cose, dipendenti da esse e nascosti a se stessi dalle cose, ci si accorge di desiderare sempre più cose e sempre migliori cose e si ha sempre meno tempo o capacità di amare e di sperimentare quella felicità che non c’entra assolutamente niente con le cose che si comprano, si usano, si consumano, e che non bastano mai, quella felicità che prescinde dalle cose o le supera, le oltrepassa, le attraversa.

 

C’è sempre meno silenzio. C’è sempre più rumore, e confusione. Le musiche, le parole, perfino le cose assordano e instupidiscono. Perfino gli insegnanti, delle scuole di qualsiasi ordine e grado, sono sempre più incapaci di silenzio, di stare in silenzio, di dare esempio di come si possa stare in silenzio e di dare spazi di silenzio agli studenti. Si parla, si parla, si parla, senza nemmeno ascoltarsi. Si parla tanto per parlare. Si riempie il proprio nulla di parole. Vuote. Quando l’insegnante ti parla, tu senti entrare nelle tue orecchie le sue parole come un trapano. L’insegnante, più che parlare, trapana. Usa trapano e martello, per costruirti una testa da manuale.

 

Le parole diventano vestiti del nulla. E ci si stufa subito del vestito che si è dato al proprio vuoto, subito gliene si fa un altro, e un altro, e un altro ancora; magari sempre uguali; e questi vestiti per certi aspetti sembrano ragnatele, dove al posto delle mosche si vogliono catturare e mangiare le persone e le cose. Si vuole avere. Avere tutto. Le cose, le persone. Possedere. La fame è senza fondo. “Mio”. Dove la “M” nasconde, e annulla, l’ “io”. La domanda è sulla modalità dell’ “io”. Del “mio” io, del “tuo” io, del “nostro” io, e di un “semplicemente” io. Un “io” insegnato, un “io” imparato, un “io” comunicato, trasmesso, corretto o rinforzato (bastone e carota). La domanda è sulla condizione esistenziale di questo “io” e sulle sue modalità di esistenza, visibili o nascoste.

 

Mi piace ricordare un passo di una poesia lirica della letteratura quechua del periodo coloniale:

 

Mamayri runayawasqa // Para, phùyuj sunqollanpi, // Phuyu jina muyunàypaj, // Para jina waqanàpaj.

 

Mia madre nel mezzo delle nubi // E della pioggia mi ha concepito, // Per vedermi vagare come le nubi, // Per vedermi piangere come la pioggia.

 

(Arawi, colecciòn Méndez, in Adolfo Caceres Romero, Nueva historia de la literatura boliviana, vol. I: literaturas aborigenas: Aimara, Quechua, Callawaya, Guarani, Editorial Los Amigos del  Libro, La Paz-Cochabamba 1987, pp. 169-70, traduzione italiana mia).

 

Mi piace ricollegarlo con un altro passo di un’altra poesia della letteratura callawaya del periodo repubblicano:

 

Manacha yacharqancuchu // phuyu jina muyunaita // manacha yacharqancuchu // para jina waqanaita.

 

Non avranno previsto // che sarei andato a vagare come la nube // non si saranno immaginati // che sarei andato a piangere come la pioggia.

 

(Wajcha wawa, in Adolfo Caceres Romero, Nueva historia..., cit., p. 327, tr. it. mia).

 

Il tragico può essere vissuto nel pianto, e il pianto è come pioggia: può trasformarsi in alluvione, oppure innaffiare il terreno e farlo fiorire; può essere una mano della morte o una mano della vita. In un mondo tragico anche le scuole si fanno teatro tragico della vita, gli insegnanti e gli studenti si fanno attori di un teatro tragico. Ma il tragico è al tempo stesso comico. Le stesse cose, viste in prospettive differenti e complementari, possono fare piangere come pure fare ridere. La condizione esistenziale di vita di tutti e di ciascuno è tragica e, al tempo stesso, comica.

 

 

IV. Di cosa possiamo fare a meno, e di cosa no

 

“Sei bravo. Sai fare tante cose, le sai fare bene e in modo veloce”. “Non sa fare niente. È inutile”. Saper fare. In modo veloce. Tu sei il tuo fare. Nel momento in cui, per qualsiasi motivo, tu non fai, volentieri ti si vuole morto. Gli anziani, i malati, gli sfortunati della vita vengono interpretati come inutili, non li si vuole. Il lavoro, da mezzo e strumento, diventa fine a se stesso: si finisce per vivere per lavorare, e non per lavorare per vivere.

 

Perfino la religione è vista o come un di-più, un lusso, non necessario e non sufficiente, di cui si può benissimo fare a meno; oppure come un aiuto alle altre cose della vita, in un’interpretazione utilitaristica della religione, in una visione magica e superstiziosa del mondo: ovvero, una religione in cui si crede in un Dio che ti aiuti nel tuo benessere materiale, nella salute, nel lavoro, negli affetti, o quanto meno, a titolo consolatorio, che ti dia almeno il paradiso quando sarai morto, che ti ripaghi delle tue insoddisfazioni almeno in un’altra vita. Una religione comoda o scomoda, ma in ogni caso non sufficiente né necessaria.

 

“Fai questo, fai quello; non fare questo, non fare quello; hai fatto tanto, hai fatto poco; hai fatto veloce, hai fatto lento; hai fatto tutto, non hai fatto niente”. Così nelle scuole, come nelle case e nelle strade. “Questo insegnante è bravo: ha molti titoli, ha scritto molti libri, ha partecipato a molti convegni”. Già. Sei bravo nella misura in cui produci. Magari hai scritto solo centinaia di pagine copiate da altri libri. Magari hai scritto sciocchezze. Però hai scritto. E, quindi, sei bravo. Chi, invece, se ne sta pazientemente a fare ricerca libera, disinteressata, ma non si rende visibile e controllabile attraverso cose che si possono vedere, toccare, misurare, valutare e giudicare, è un inutile, un cattivo insegnante. Quante pagine ha fatto leggere agli studenti? Quante cose hanno imparato? Sono cose utili? Avranno successo nella continuazione dei propri studi e nella propria vita?

 

Il mondo si fa mercato, e le persone si fanno merci e commercianti. Commercianti di alimenti, di vestiti, di oggetti, ma anche di tecniche di produzione, di pensieri, di valori etici e morali; perfino commercianti di amore, di felicità e di verità. Tutti ci facciamo commercianti e merci. Gli insegnanti sono merci utili a produrre altre merci utili, i loro studenti. Gli insegnanti sono pagati per trasformare gli studenti che gli si affida in nuovi produttori, in nuove merci, in cose utili. Un po’ come se le menti dei loro studenti fossero dei computer e loro fossero dei programmatori e dei tecnici di questi computer. Un po’ come se fossero degli addestratori di animali da lavoro. E come capobranchi di lupi affamati. In un mondo in cui si è tutti contro tutti, in gara a chi ha di più e meglio, in cui ci si butta tutti addosso a un osso, pronti a eliminarsi a vicenda. Questo teatro viene coperto con una maschera, quella delle buone maniere, attraverso cui si addomesticano le bestie in competizione tra loro.

 

Le scuole si fanno scuole di sopravvivenza e di sopraffazione o di riscatto. Scuole di lupi, di zanzare, di ragni. L’insegnante-ragno ti insegna a costruire le tue ragnatele per catturare le tue mosche e mangiartele. Lo studente-ragno, angelicamente mascherato, impara il metodo e la tecnica della ragnatela per prendere e mangiare le prede. Le ragnatele sono quelle concettuali: ragnatele di parole, di linguaggi, di teorie, con le quali cercare di sopraffare chi, incapace di fare il ragno, si ritrova costretto a fare la mosca.

 

Ti si mette in una scuola con la speranza che ti aiuti a non essere da meno degli altri nella gerarchia spietata dei ruoli e delle funzioni sociali, nella corsa al lavoro più remunerativo. Tu sei lì per corrispondere alle aspettative di chi ti ha messo lì e ti vuole in un certo modo. Tu sei messo in una gabbia insieme ad altri, in cuii sarete tutti come polli di allevamento e lupi pronti a godere gli uni degli insuccessi degli altri; tu da quella gabbia non puoi uscire. Ne uscirai quando, finito il percorso scolastico, andrai a cercare lavoro. E lì si vedrà se sarai stato addestrato bene, sufficientemente armato, se sarai in grado di procurarti il tuo osso del benessere materiale, di riempirti la pancia e il portafoglio, di farti rispettare e obbedire oppure se ti lascerai calpestare e sopraffare da altri, costretto in un rapporto di dipendenza, sudditanza e servilismo. Le scuole in cui i valori etici e morali sottointesi sono quelli del successo, della ricchezza, del benessere, del prestigio, dell’utilità. Non tutte le scuole, forse. E ci saranno degli insegnanti che faranno eccezione.

 

Questo però non toglie che il quadro generale è questo. È un quadro dove in primo piano, e sullo sfondo, si vede uno spettacolo orrendo, un inferno, una macelleria, la macelleria delle guerre, delle guerriglie, dei delitti; dove solo qua e là, nei chiaroscuri nascosti nel sangue, si scorge qualcosa di diverso. Sbrana, o sarai sbranato. Difendi il tuo osso. Con i denti e con le unghie, se necessario. Ma usando, se possibile, le buone maniere e rispettando, se possibile, le leggi. L’osservanza delle buone maniere e il rispetto delle leggi risultano, in genere, il modo più sicuro di difendere il proprio osso e di sbranare. Nascondi il tuo ghigno in un sorriso, nascondi il tuo coltello dentro la giacca, vela il tuo sguardo feroce di gentilezza, di pacificità, di affettuosità, di bontà. Non vomitare di fronte a tutto lo schifo che vedi intrno a tu, ma godine; non far sapere le tue fami profonde, ma mostra un volto angelicato.

 

Proclamati umanista e umanitario. Dichiara valori etici e morali belli e buoni. Nascondi la tua fame in belle e buone parole. Sappi adattarti agli ambienti in cui ti trovi, mimetizzarti e padroneggiare il tuo territorio. Cerca amici in chi può aiutarti. Mostrati amico a chi pensi possa esserti utile. Mostrati utile a chi vuoi avere dalla tua parte. Chi vedrà in te qualcosa a lui utile, potrà esserti amico. Sii furbo. Perché o domini o sarai dominato, o sfrutti o sarai sfruttato, o sei padrone o sei servo, o sei vincitore o sei vinto, o riesci a tenere il passo o rimani indietro. Questo è quello che, implicitamente, viene insegnanto in molte scuole, da molti insegnanti.

 

 

V. Domande sull’identità delle scuole

 

Scuole come caserme? Uno stato vessatorio, feroce, vuole insegnanti come addestratori militari? C’è il culto del metodo del premio e castigo? Scuole di poliziotti, di carabinieri, di soldati e di guerrieri? Scuole di comando?

 

E noi, che oggi siamo adulti, come siamo diventati quello che siamo? Come abbiamo imparato le cose che oggi sappiamo, e sulla base delle quali oggi, giorno per giorno, momento per momento, decidiamo chi essere e cosa fare? I nostri insegnanti come ci hanno insegnato? Siamo stati liberi in ciascun momento del nostro imparare? O siamo stati costretti, obbligati a diventare quello che oggi siamo? Le nostre scuole sono state scuole di polli per polli, scuole di lupi per lupi, scuole di ragni, di zanzare, di serpenti? Sono gabbie di pappagalli? Sono centri di addestramento da circo? Sono vasche per piragna?

 

E noi, che oggi siamo insegnanti, come insegnamo ai nostri studenti? Continuiamo a fare quello che i nostri insegnanti hanno fatto con noi? Lasciamo liberi i nostri studenti? In quali valori etici e morali crediamo, e quali insegnamo? Quali contenuti mangiamo e facciamo mangiare? Verso dove camminiamo, e verso dove facciamo camminare? Il nostro passo è un passo da soldato? Un passo da cacciatore? Un passo da ladro? Il nostro pensiero, e il pensiero dei nostri studenti, è un pensiero rapace, predatore, cacciatore? Diamo ai nostri studenti spade e scudi? Li vogliamo forti quanto basta a sopraffare e non essere sopraffatti, a imporsi sugli altri, a primeggiare?

 

In quale modalità del linguaggio ci ritroviamo nelle nostre scuole? In una modalità tecnica e sempre orientata al portafoglio? O nella modalità libera, aperta, disinteressata delle nuovole del cielo, che momento per momento mostrano un’infinità di significati e momento per momento cambiano forma, giocano, danzano, cantano? Siamo insegnanti-bestie angelicamente travestiti, oppure insegnanti-nuvole? La nuvola si specchia nel mare, nel lago, nel fiume. La nuvola fa ombra sulla superficie della terra. La nuvola si fa pioggia, e neve, e grandine, e nebbia, e tuono, e fulmine. La pioggia può innaffiare il terreno e lasciarlo fiorire in fiori e frutti; o può dare luogo ad alluvioni, innondazioni. La pioggia può essere una mano della vita o una mano della morte. Nel riso o nel pianto, nel piacere o nel dolore, la pioggia piove. Le tue parole, insegnante, sono come pioggia? O sono come pietre, come sassi, come cemento, come ragnatele? Le tue parole sono nella modalità dell’ingegneria del pensiero o in quelle di un’agricoltura spontanea, naturale, senza meccanica e senza chimica?

 

Insegnante-serpente, strisci e fai strisciare. Tu e i tuoi studenti siete sempre pronti a mordere, avvelenare, catturare e mangiare le vostre prede. Insegnante-lupo, la tua è una scuola di furbizia e di ferocia. Insegnante-pollo, ti ingrassi e fai ingrassare. La tua scuola è un pollaio che piace ai lupi. Insegnante-zanzara, tu sai nasconderti e succhiare il sangue e sai insegnarlo. Insegnante-mosca, su cosa tu ti posi? Cosa ti piace mangiare e dare da mangiare? Insegnante-coniglio, da chi, o da cosa scappi? Una scuola di conigli, una scuola per conigli, piace ai predatori.

 

L’insegnante-muratore sa fare muri e distruggerli, e questo insegna ai suoi studenti. Le scuole dove ti si insegna a murare la realtà è una scuola che ti cementifica la mente. L’insegnante-medico vede dappertutto malattie e ti insegna a evitarle o a curarle. Le scuole dove ti si insegna a disinfettare il mondo è una scuola morta, che ti insegna a trasformare il tuo mondo in un laboratorio, in una clinica, in un ospedale e in cimitero. Nelle tue mani, siringhe e bisturi, pastiglie e garze. Tu vedrai il mondo attraverso il miscroscopio e le radiografie. Le analisi chimiche non ti faranno vedere le persone che incontri. Lo studio anatomico non ti farà sentire parole. Tu vedrai una realtà da manuale nella realtà che ti circonda, e parlerai come un manuale, ti aprirai e ti chiuderai come un manuale. Dopo un po’ di anni, il manuale sarà vecchio e buttato via.

 

La luna riceve la luce dal sole e la comunica al mondo. L’insegnante-luna, tutto quello che ha ricevuto lo comunica agli studenti. Ma non è luce sua propria. Comunque è luce discreta, debole, non acceca, non brucia, non è invadente. L’insegnante-luna fa vedere qualcosa, nel buio. Lascia guardare, nella notte. Mentre i fiori dormono nella notte, la luna pazientemente aspetta il sole.

 

Il fiore che nasce perché il vento l’ha portato in un terreno dove la nuvola porta la sua pioggia, nasce fiorisce e muore. L’albero dura più a lungo, ma anch’esso muore. E la morte rimane sempre aperta sulla vita. L’insegnante-fiore sa morire per dare spazio ad altri fiori. L’insegnante-albero sa stare in silenzio lasciarsi dire dal vento. L’insegnante-vento sa stare fuori dalla finestra e dalla porta di chi vuole stare in silenzio e cantare da solo, senza lasciarsi portare il riso e le lacrime dal vento, senza lasciarsi disperdere nel vento. Il fiore non chiede di essere guardato, non chiede di essere ascoltato, non chiede di essere imitato. Il fiore non si mostra né si nasconde. Il fiore vive e lascia vivere, si apre e si chiude, sempre a metà tra la terra e il cielo. Il fiore parla solo a chi lo ascolta, si mostra solo a chi lo guarda.

 

Che insegnanti siamo? Quale linguaggio parliamo? Ci lasciamo parlare da un linguaggio forte, di fronte a cui mettersi in ginocchio; o ci lasciamo parlare nella modalità inginocchiata di chi, umile, non finisce mai di umilarsi sempre di più? Siamo capaci di stare in ginocchio e di mescolarci alla terra fino a nasconderci fra i fiori dei campi? Siamo capaci di stare a scuola nella modalità dei fiori? Le nostre sono scuole dei fiori, scuole per fiori? Siamo capaci di essere nella modalità del lascirsi dire, del lasciarsi piovere, del lasciarsi disperdere nel vento?

 

 

VI. Una scuola in ginocchio

 

Guarda. Nel cielo. Le stelle. Ascolta. La luna. Nel cielo. Si specchia. Nel mare. Dove nuotano i pesci. Guarda. Intorno a te. Gli alberi. I fiori. Chiusi. Che dormono. Senti. Il profumo. Delle piante. L’umidità della terra. La voce del vento. Tu sei lì. Girati. Dietro di te. Il cemento. I palazzi. Le strade. I ponti. Le automobili. Il rumore. Chiudi gli occhi. Chi sei? Dove ti trovi? Da dove vieni? Dove vuoi andare? Sei un insegnante. Come lo sei diventato? Cosa vuoi insegnare, e come? Non senti il peso del tuo ruolo? Non senti la pesantezza del tuo linguaggio? Non senti il bisogno di parole sempre nuove, sempre aperte, sempre diverse? Non ti senti in difficoltà nello scegliere le parole, nel dare una voce ai pensieri che vivono dentro di te, nello stare in silenzio e nel lasciare parlare il silenzio, nel lasciar stare in silenzio gli studenti? Come far ascoltare il silenzio? Come far sentire, dentro tanto rumore, il silenzio che infinitamente parla? Come insegnare a lasciare le armi del pensiero tecnico, come insegnare a lasciar stare le cose là dove stanno, a non imporre alle cose l’ordine dei nostri desideri, a non parlare con la forza dell’intelligenza, ad abbassarsi, a stare nella modalità dell’abbassamento, della povertà della terra?

 

Guarda. Ascolta. Senti. Io mi sento in ginocchio. Come nuovola voglio ripararti dal sole che acceca e che brucia. Come fiore voglio stare nel campo. Come pioggia voglio piovere dove la terra è asciutta. Come stella voglio nascondermi fra miliardi di stelle nel cielo della notte. Come terra voglio stare. Lasciarmi camminare sopra. Lasciare che altri siano al posto mio. Il mio essere insegnante è un essere nuvola, fiore, pioggia, terra. Io non ho nulla da insegnare. Solo quello che vedo, ho da insegnare. Quello che ascolto. Quello che sento. Posso comunicarlo solo facendo silenzio, togliendomi di mezzo. Nel silenzio posso lasciar parlare le cose del mondo. Posso far indirizzare lo sguardo nei luoghi del silenzio. Posso insegnare ad ascoltarli. Posso insegnare a vedere nei luoghi nascosti. Posso insegnare a vedere. E ad agire nella modalità libera del pensare. E a non essere lupi, serpenti o ragni.

 

ANDREA MUNI






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Postato il Domenica, 02 agosto 2009 ore 00:00:00 CEST di Silvana La Porta
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