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Umanistiche: SOLO UN DIO (RELATIVISTA) CI PUO' SALVARE

Rassegna stampa

Solo un Dio (relativista) ci può salvare

Gianni Vattimo

 

Si intitola «Addio alla verità» il nuovo libro di Gianni Vattimo, che raccoglie alcuni saggi di religione, etica e politica scritti negli ultimi anni, di cui riportiamo uno stralcio, dal capitolo «Un Dio relativista».

Trasformare la battuta di Heidegger nell’intervista allo Spiegel facendogli dire che «ormai solo un Dio (relativista) ci può salvare» non è solo un provocatorio gioco di parole. Heidegger stesso, se avesse potuto fare l’esperienza delle rovine che il fondamentalismo religioso - vero o preteso che sia - sta producendo nel nostro mondo, forse sarebbe d’accordo. Per mitigare il carattere scandaloso della battuta, potremmo trasformare il «relativista» in «chenotico» (che si abbassa e si umilia per amor nostro): un Dio più esplicitamente conforme all’immagine che ne possiamo avere, oggi, come cristiani.

Anche l’«ormai», nell’affermazione di Heidegger, ci sembra essenziale. Un Dio relativista, o chenotico, è quello che «si dà» a noi, oggi, a questo punto della storia della salvezza, e dunque anche a questo punto della storia della Chiesa, di quella cattolica e di quelle cristiane, nel mondo della globalizzazione realizzata. Dobbiamo sottolineare il legame con l’oggi perché, per noi come per Heidegger, il Dio che ci può salvare non è un’entità metafisica data oggettivamente come sempre uguale, che noi dovremmo solo «riscoprire», in una specie di meditazione cartesiana che ce ne dovrebbe mostrare l’indubitabile «esistenza».

Oggi possiamo porci il problema di Dio solo in questo momento specifico della storia della salvezza, e cioè in relazione a come la Chiesa e il cristianesimo si danno nella nostra esperienza quotidiana. Ora, l’esperienza quotidiana che noi facciamo della storia della salvezza ha da fare con il fondamentalismo. Non soltanto con quello dei cosiddetti terroristi islamici, ma anzitutto con il fondamentalismo che, anche come reazione alla lotta di liberazione dei popoli ex coloniali, si afferma sempre più nella stessa religione occidentale. Di fronte all’affermarsi crescente di fenomeni di secolarizzazione, la Chiesa, non solo in Italia, avanza pretese di riconoscimento della propria autorità sempre più pressanti, e ciò in nome del fatto che a essa, dalla stessa rivelazione cristiana, sarebbe affidato il compito di difendere l’autentica «natura» dell’uomo e delle istituzioni civili.

Non è esagerato dire - per quanti «aggiornamenti» ci siano stati su questo tema - che la Chiesa è ancora ferma al processo di Galileo. È vero che non cerca più di leggere nella Bibbia la descrizione del cosmo e le leggi del moto degli astri; ma parla ancora correntemente di una «antropologia biblica», a cui le leggi civili dovrebbero conformarsi per non tradire la «natura» dell’uomo. Di qui vengono le lotte contro il divorzio, l’aborto, le unioni omosessuali, e poi la diffidenza verso ogni manipolazione genetica anche solo a scopo terapeutico. E oggi le ragioni di chi abbandona il cristianesimo sono sempre più legate alla pretesa ecclesiastica di conoscere la «vera» natura del mondo, dell’uomo, della società.

A questa pretesa si lega il sempre rinnovato dibattito su creazionismo e anti-creazionismo, che è un tema analogo a quello del processo a Galileo; giacché si tratta pur sempre della volontà di affermare che il Dio di Gesù è l’autore del mondo materiale, e dunque la fonte delle leggi che lo regolano, una sorta di supremo orologiaio che, tra l’altro, ha sempre bisogno di una teodicea, perché non solo non dovrebbe poter fare miracoli, ma soprattutto dovrebbe spiegarci perché permette tanti mali nel mondo. Da questo punto di vista, le riflessioni della teologia ebraica dopo Auschwitz dovrebbero insegnare qualcosa ai teologi cristiani: non solo che Dio non può essere onnipotente e buono nello stesso tempo, ma anche e soprattutto che forse non si può più pensarlo come il demiurgo platonico, come il produttore del mondo materiale e dunque responsabile supremo del suo (talvolta pessimo) funzionamento.

Parlare di un Dio «chenotico», o «relativista», significa prendere atto che l’epoca della Bibbia come deposito di «sapere» vero perché garantito dall’autorità divina è del tutto passata. E che questo non è un male a cui cercare di adattarsi in attesa di poterlo combattere più decisamente, ma fa parte della stessa storia della salvezza. È l’incarnazione intesa come kenosis che si realizza oggi in modo più pieno in quanto la dottrina perde tanti elementi di superstizione che l’hanno caratterizzata nel passato, lontano e recente. E la superstizione più grave e pericolosa consiste nel credere che la fede sia «conoscenza» oggettiva; anzitutto di Dio, e poi delle leggi del «creato», da cui derivare tutte le norme della vita individuale e collettiva.

Vista in questa luce, la kenosis, che è il senso stesso del cristianesimo, significa che la salvezza consiste anzitutto nel rompere l’identità tra Dio e l’ordine del mondo reale. In definitiva, nel distinguere Dio dall’essere (quello della metafisica greca) inteso come oggettività, razionalità necessaria, fondamento. Un Dio «diverso» dall’essere metafisico non può più essere il Dio della verità definitiva e assoluta che non ammette alcuna diversità dottrinale. Per questo lo si può chiamare un Dio «relativista». Un Dio «debole», se si vuole, che non svela la nostra debolezza per affermarsi (contro le aspettative razionali, con il mistero a cui dovremmo sottometterci, con la disciplina ecclesiastica che dovremmo accettare) a propria volta come luminoso, onnipotente, sovrano, tremendo, secondo i tratti propri del personaggio (minaccioso e rassicurante) della religiosità naturale-metafisica. È all’esperienza di un Dio diverso da questo che i cristiani sono chiamati nel mondo della esplicita molteplicità delle culture, a cui non si può più contrapporre, violando il precetto della carità, la pretesa di pensare il divino come assolutezza e come «verità».

 

 

 









Postato il Lunedì, 08 giugno 2009 ore 00:05:00 CEST di Salvina Torrisi
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