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Umanistiche: IL PIU' ALTO PARADIGMA DEL DOLORE

Rassegna stampa

Tenendo in considerazione gli aspetti che emergono dall'analisi dell'Edipo a Colono, è possibile giustificare, quasi senza alcun dubbio, la tesi che vede nell'opera un ultimo messaggio che Sofocle ha voluto lasciare ai suoi spettatori, rivolgendosi in particolar modo agli Ateniesi, esaltando da un lato una realtà idilliaca ormai perduta, la realtà di Colono, dell'Atene della sua giovinezza, facendo d'altra parte a se stesso più che agli altri un resoconto della sua vita, in parallelo con quello che Edipo fa di sè nell'opera.Lo straniero di Sofocle è un medicante vecchio e cieco, un vagabondo schedato come parricida e incestuoso ma che è meglio accogliere a braccia aperte per la sorte benigna che, secondo l´oracolo di Apollo, toccherà a chi vorrà ospitarlo e seppellirlo. Dopo la storia infanticida della barbara Medea, il nuovo ciclo di tragedie di Siracusa porta il suo viaggio nel tema dello straniero a Colono, ultima tappa di quel pietoso randagio che è diventato Edipo, l´ex re cacciato dalla sua Tebe, uno che provoca l´ira dei tuoni ogni volta che evoca i suoi incolpevoli delitti, ma che trova nel signore di Atene, Teseo, un sovrano che non conosce rimpatri forzati e centri d´accoglienza.EDIPO a Colono è firmato da Sofocle, forse il più completo dei Tragici greci. Ma non è un “bel testo”. E’ invece un paradigma della verità profonda, del disvelamento, dell’eucarestia pagana che chiude benignamente l’infelice vita del figlio di Laio, vincitore della Sfinge, parricida senza saperlo, marito della propria madre e fratello dei propri figli per volere del Fato, senza nulla sospettare. Rappresentata postuma nel 401 a.C. l’opera prosegue il racconto sancito dall’Edipo re. E assicura protezione e pace allo sventurato che, guidato dalla figlia Antigone, giunge cieco migrante a Colono, sobborgo della civilissima Atene governata da Teseo. Fino a una sorta di assunzione di Edipo, in corpo ed anima, fra gli dèi.

E poi questo Edipo sarà anche vecchio e cieco ma ogni volta che apre bocca colpisce dritto al cuore se ad incarnarlo è un vecchio mattatore come Giorgio Albertazzi, uno che magari si concede qualche gigioneria da fuoriclasse ma che tuona da par suo ad ogni battuta. Fa male sentirgli dire «non vali il mio sputo», al culmine della sua maledizione ai figli maschi che si contendono il suo trono, quasi fosse il simbolo di tutti i padri feriti. Nell´allestimento di Daniele Salvo prodotto dall´Inda, applaudito più volte a scena aperta nel debutto di domenica al Teatro greco di Siracusa (repliche fino al 21 giugno in alternanza con "Medea" di Euripide), Albertazzi recita realmente senza vedere, con tanta di benda calata calata anche, come ha confessato lo stesso attore dopo lo spettacolo, nelle scene più concitate rischia di infastidirlo. Gli fa da sostegno e da sguardo un´Antigone palermitana, Roberta Caronia, 29 anni, "adottata" da Albertazzi dai tempi di un provino per il Teatro di Roma, e poi portata nelle sue "Lezioni americane" di Calvino, ma mai impegnata nella sua città. A lei Edipo ribadisce l´umiltà dei clandestini, di chi deve presentarsi supplice nelle patrie altrui: «Antigone, siamo stranieri, dobbiamo chiedere alla gente del posto come comportarci». Il taccuino della memoria segna alcune scene di forte intensità, come l´ingresso di Teseo (Massimo Nicolini) da Settimo Cavalleggeri, con il re che irrompe a cavallo preceduto dagli armigeri e da
un incalzante ritmo di tamburo. E poi il fuoco che accende i bracieri proprio mentre in teatro comincia a fare buio, la lente marcia di Edipo verso la sepoltura, quando sotto i suoi piedi si palanca un tomba e le Eumenidi lo trascinano verso la collinetta di sale di Massimiliano e Doriana Fuksas, autori anche di una monumentale lastra concava che domina la scena. E ancora, il ratto di Antigone ad opera degli sgherri di Creonte, Edipo-Albertazzi che brandisce il suo bastone da cieco come inutile arma di difesa e una buona prova collettiva che basta a suscitare applausi sinceri e meritati per tutti: Carmelinda Gentile, Maurizio Donadoni, Giacino Palmarini, Michele D
e Machi e i corifei.  (Del Teatro)









Postato il Giovedì, 04 giugno 2009 ore 08:04:08 CEST di Maria Allo
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