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Umanistiche: IL REVISIONISMO IN ITALIA

Rassegna stampa

IL REVISIONISMO IN ITALIA

di Antonio Fanella*

Il termine “revisionista”, come è noto, tra la seconda metà dell’800 ed il ’900 ha assunto significati assai diversi tra loro: di volta in volta è stato l’appellativo che i marxisti ortodossi hanno attribuito alle posizioni riformiste prima di Eduard Bernstein e poi di Karl Kautsky; successivamente alla Prima guerra mondiale è stato utilizzato per indicare quei paesi, o quelle correnti delle opinioni pubbliche nazionali, favorevoli a una revisione dei trattati prodotti della conferenza di Parigi del 1919; negli anni ’20 e’30 è stato a lungo adoperato dalla dittatura staliniana contro supposti o veri socialdemocratici e poi riscoperto dalla propaganda del partito comunista cinese negli anni più duri dello scontro con L’URSS. E stato solo nei tardi anni ’80 e nei successivi anni ’90, con i lavori di Ernst Nolte (Nazionalismo e bolscevismo, Sansoni, 1989) e di Francois Furet (Il passato di un’illusione, Mondadori,1995), che il termine “revisionismo” è stato associato all’idea di una revisione delle interpretazioni storiografiche prevalenti. In Italia è stata definita revisionista (ma non dall’autore) la corposa biografia di Renzo de Felice su Mussolini, edita da Laterza tra il 1964 e il 1997, le prese di posizione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, ma anche la rilettura della resistenza in chiave non certo riduttiva di Claudio Pavone, e ancora, i contributi di Sergio Romano sulla guerra civile spagnola, di Paolo Mieli sul Risorgimento, così come le posizioni apertamente negazioniste dell’olocausto di Carlo Mattogno. Cosa accomuna dunque posizioni talvolta così divergenti? L’opposizione a quella che spesso viene definita la “vulgata” dominante nella ricerca storica, il fastidio per un paradigma da tempo definito e in cui l’interpretazione storica dei fatti, anche quando ben fondata, assume un carattere pedagogico e rituale.

Nuove chiavi interpretative: De Felice e Mussolini

Non mancano tuttavia coloro che puramente e semplicemente intendono “rovesciare” le interpretazioni dominanti per sostituirne altre più omogenee alle proprie idee politiche, coloro che dunque contestano presunti o reali presupposti ideologici nella storiografia “ufficiale” rispetto ai temi dell’unità d’Italia, o della guerra e della Resistenza, ma che in fondo perseguono lo scopo di sostituire un’interpretazione ideologizzata di segno opposto.Sicuramente diverso è risultato essere l’approccio seguito da Renzo De Felice fondato sulla ricerca di nuove fonti documentali, sull’uso di strumenti di interpretazione socio-psicologici o tratti dalle opere di George Mosse, che lo mettono in grado, al di là di alcune debolezze nella sua analisi (per esempio sulla funzione modernizzatrice del fascismo), di tracciare un quadro di ampio respiro e ricco di sfumature del fascismo e del suo capo. Emerge dunque la differenza tra un revisionismo parziale o radicale, fondato sulla reinterpretazione di dati, fatti, documenti, già conosciuti e una storiografia, revisionista o meno, che persegue un approfondimento delle questioni trattate attraverso la ricerca di nuove e più complete fonti documentali. In quest’ultima accezione il lavoro dello storico è revisionista per definizione, in quanto l’esito del suo lavoro sarà, se non determinato, quantomeno fortemente condizionato dalle nuove fonti documentali reperite.

Cefalonia

La fine della guerra fredda, la crescente disponibilità di fonti di archivio precedentemente inaccessibili o secretate (nella vecchia URSS, ma anche negli USA, in Germania e nella stessa Italia) i progressi metodologici della ricerca storica., con l’allargamento a campi d’azione in precedenza ignorati o sottostimati, la fine di alcune interdizioni politiche che hanno a lungo “frenato” le ricerche, aprono nuovi spazi a una ricerca storica post-ideologica e metodologicamente qualificata. Ci sono almeno due ambiti tematici rispetto ai quali uno o più dei fattori in precedenza elencati hanno permesso alla ricerca storica di effettuare alcuni, sia pure parziali, salti di qualità e di elaborare delle ricostruzioni del passato molto più ricche e attendibili di quelle risalenti ad un periodo neanche tanto lontano: la questione dell’eccidio di Cefalonia nel settembre 1943 e quella delle foibe e dell’esodo di 300.000 istriani di lingua italiana negli anni 1945-1955. Nel primo caso un evento a lungo ignorato dalla storiografia ufficiale per vari motivi di ordine prevalentemente politico, è stato riscoperto e studiato, producendo una non trascurabile quantità di ricerche e testimonianze (come per esempio quella di Giorgio Rochat e Marcello Venturi La Divisione Acqui a Cefalonia, 1993, Mursia o l’altra sempre di Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, 2001, Mondadori, oppure G.E. Rusconi, Cefalonia, 2004, Einaudi) che hanno permesso, al di là delle diverse valutazioni sul numero effettivo delle vittime e sul ruolo del gen. Gandin, di mettere a fuoco uno degli episodi più importanti di quella sorta di proto- resistenza all’occupazione tedesca praticata da alcuni reparti militari nei giorni immediatamente successivi all’armistizio dell’8 settembre ’43. Essa, unitamente ad analoghi combattimenti svoltisi a Barletta, a Piombino e in Corsica, costituisce un relativamente nuovo e promettente campo d’azione per la ricerca storica.

Rileggere con equilibrio: le foibe

Nel secondo caso, una serie di eventi, per gran parte del secondo dopoguerra poco conosciuti dal grande pubblico, fortemente minimizzati se non negati a sinistra e altrettanto enfatizzati a destra cominciano a essere oggetto di una faticosa rielaborazione che ha prodotto la nascita di una commissione mista di storici italo-croata e una serie di ricerche tra cui quelle di Gianni Oliva (Foibe, 2003, Mondadori; Profughi, 2005, Mondadori) che da un lato indagano su uno dei più tragici capitoli della storia italiana, dall’altro non nascondono affatto le atrocità e le responsabilità del “fascismo di confine” e del regime nella politica di repressione e di snazionalizzazione slavofoba portata avanti dagli anni ’20 fino al 1943. Un’impostazione, per intenderci, simile a quella, attualmente maggioritaria in area tedesca, che vede al centro della ricerca storiografica temi come quello della fuga verso occidente delle popolazioni civili tedesche in Prussia orientale nell’ultima fase del conflitto (Guido Knopp, Tedeschi in fuga, 2001, Corbaccio) o dei terribili e reiterati bombardamenti condotti dalla RAF negli anni ’43-’45 su una miriade di città grandi e piccole (vedasi Jorg Friedrich, La Germania bombardata, 2002, Mondadori), senza per questo indulgere in quello che lo storico torinese Angelo D’Orsi definisce “rovescismo”, cioè nella pura e semplice inversione dei ruoli tra le parti in causa, cioè senza la minima rivalutazione del regime hitleriano, giudicato comunque il principale responsabile delle disgrazie del popolo tedesco. Che sia questa la strada anche per una storiografia italiana rinnovata e post-ideologica?

*Docente di Storia e Filosofia in un liceo scientifico romano









Postato il Mercoledì, 25 marzo 2009 ore 00:05:00 CET di Salvina Torrisi
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