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Umanistiche: Gezim Hajdari, poeta migrante

Rassegna stampa
D. Gezim Hajdari, possiede una forza poetica che ha dell’incredibile, sia per ciò che concerne la costruzione del registro e del timbro nei suoi versi, sia per l’aspetto strettamente legato al messaggio poetico. Prendiamo ad esempio la raccolta Stigmate / Vragë, un luogo dove vengono individuate da Cristina Benussi nella prefazione a volume edito da Besa, delle categorie come l’Esilio, l’Addio, l’Identità persa proprie della sua poesia. A nostro avviso c’è molto ancora, e in più profondità, e specificamente un lavoro sull’elaborazione della separazione e del lutto. Sono questi i Suoi punti di riferimento nella scrittura poetica?

R. La mia scrittura poetica non è solo un lavoro sull’elaborazione della separazione e del lutto. Sarebbe molto limitato. Anche se lutto e separazione appartengono al sentimento dell’uomo e, come tali, sono cose profondamente umane. Del resto il lutto non è segno lugubre perché in ogni cosa che amiamo si preannuncia la perdita, lo svanire, la distruzione della stessa. Lutto e separazione sono segni d’amore e significano nostalgia nei confronti delle cose che non permangano, ma ci lasciano, che si separano dolorosamente da noi. Non si può accompagnare un caro defunto al cimitero del mio villaggio, senza che se ne enumerino prima le virtù nei compianti funebri. Forse è questo lo scopo della poesia stessa. La nostra separazione è trascendentale, è iniziata con Adamo ed Eva. Tutto questo rapporto: tra vita e transitorietà delle cose, amore e separazione, si trasforma in forza e sublimazione che solo una vera poesia può trasmettere. Separazione per un poeta migrante non vuol dire semplicemente: incurvarsi sotto la nostalgia per le radici, per i confini, per la lingua. Aiuta l’uomo a diventare più umano, si conosce meglio se stessi e ognuno riesce a comprendere meglio il mondo, stabilizzando un colloquio nuovo con l’Alto e con gli uomini, quindi la separazione - nello stesso tempo - diventa salvezza per il poeta e la sua arte.
Separazione, lutto, nostalgia e dolore hanno alimentato la grande poesia di tutti i tempi, sia quella lirica che epica. D’altronde tutta la grande poesia del passato non è stata altro che “separazione” e “lutto”: da Omero a Virgilio, da Dante a Foscolo a Hikmet a Neruda, da Yosuf a Darwish… Un esempio straordinario sono i canti epici albanesi: Giorgio Elez Alìa (Gjergj Elez Alisa) oppure Costantino (Kostandini) e Doruntina (Doruntina). Tutte le grandi religioni sono formate sull’esperienza della separazione e del dolore.
Quando torno in Albania sento la nostalgia non solo della mia Darsìa, ma anche quella dell’Italia, dell’Africa, dell’Asia, dell’Oriente, di tutti i luoghi e le persone che ho conosciuto per il mondo. La grande arte non è altro che cognizione della separazione. L’unico tassello che riempie le distanze della mia separazione dai luoghi diventa il mio corpo tremante appeso che suona. E’ proprio questo dolore che manca alla poesia e all’arte di oggi.
La geografia dei miei temi poetici è più ampia, va oltre l’Esilio, l’Addio e l’Identità, Parte dai Balcani per attraversare l’Europa, l’America, l’Oriente e l’Asia., ma anche il Paradiso e l’Inferno, il passato e il futuro, se lo avremo.. Quindi abbraccia vari aspetti antropologici, letterari, sociali, politici ed etici, insomma, un percorso che tenta- con il passare del tempo - di diventare una enciclopedia umana.

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D. Nel suo libro Spine nere / Gjëmba të zinj, elemento riscontrabile a tratti anche in Maldiluna / Dhimbjehene, sembra incentrare il canto del suo corpo poetico, in un dialogo fitto, intenso, portato avanti dal poeta con alcune entità che oserei definire fantasmatiche, provenienti da un passato che ha lasciato tuttora delle cicatrici profonde sulla Sua pelle. Interlocutori che sembrano non darLe tregua. La lotta con il Suo passato sussiste ancora?

R. Non sussiste nessuna lotta in me con il passato. A volte sembra che tutto sia stato inutile, un inganno, un’illusione. L’unica cosa che resta della vita sono proprio i ricordi di un passato, di quel passato che non torna più. Ma quel passato abita in me, sono io stesso insieme alle mie cicatrici e alle mie stigmate che hanno segnato per sempre il mio presente, in cui si genera il mio verbo poetico. L’unico gesto possibile è quello di morire per vivere diversamente.

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D. In Muzungu – Diario in nero, pare ci sia stata invece una vera e propria scelta radicale, attribuibile ad un desiderio di cronaca poetica dall’ “Inferno” del Continente Nero. Un narrare che diviene giornalismo, poesia di lotta civile. Esiste secondo Lei, a tutt’oggi, la necessità di una poesia, di una narrativa d’impegno civile? Potrebbe darci una definizione d’impegno civile nella poesia e in letteratura?

R. In Muzungu: Diario in nero (un libro reportage sull’Uganda) ho cercato di recuperare la tradizione orale del passato. Gli antichi – pur essendo analfabeti – raccontavano storie in una maniera straordinaria. In Occidente questa tradizione si è persa, non si racconta più. Oggi un’opera letteraria si costruisce dentro le stanze dell’industria culturale dagli impiegati. La prosa di oggi è saggistica, psicologia, editing, marketing, denaro.
Per quanto riguarda l’impegno della poesia e della letteratura nelle vita quotidiana, è un tema che ha suscitato - e suscita tuttora - una grande discussione tra gli addetti ai lavori. Per me – questa questione - non è mai stata un problema. Sono i poeti e gli scrittori bestseller della grande industria culturale, i balbuzienti che cantano alle piccole fobie quotidiane a mettere in dubbio un tale ruolo fondamentale per la letteratura. Se facciamo riferimento alla storia, notiamo che tutti i capolavori della letteratura sono stati delle opere “impegnate”. Basti pensare all’ Iliade e all’Odissea di Omero, alla Divina commedia di Dante, a Guerra e pace di Tolstoj, all’Uomo che ride e ai Miserabili di Hugo, all’Aarcipelago gulag di Solzenicyn, ai drammi di Brecht, ai romanzi di Pasolini…. I più grandi poemi epici e romantici albanesi e quelli balcanici (nei secoli più spaventosi) sono riusciti a mantenere vivo il sentimento dell’identità nazionale, tramandando di generazione in generazione la lingua, la memoria e i valori orali dei loro popoli.
La poesia e la narrativa del passato hanno salvato l’uomo dalle catene della schiavitù, guidandolo verso la libertà, perché hanno cantato ai grandi sentimenti umani, alle sconfitte, alle vittorie, ai dolori e alle speranze, alla bellezza dell’anima umana.
Tutto è impegno, anche amare una donna è già un impegno morale e civile.
Gandhi sconfisse gli inglesi con la non violenza, con la parola, quindi con la poesia. Abbiamo più che mai bisogno di una letteratura “impegnata”. Se in Occidente esiste un benessere sociale, nel resto del mondo più di un miliardo di persone muoiono per un bicchiere d’acqua oppure per un’aspirina. E’ in bilico il destino del pianeta terra. Ovunque, distruzione, guerre sporche, guerre dimenticate, fame, malattie, sfruttamento dell’uomo, inquinamento, sconvolgimenti genetici, la crisi del pensiero filosofico, scontri di civiltà (inventati in nome degli interessi geo-politici), fenomeni di razzismo e di antisemitismo, mutilazioni, corruzione, traffici loschi, gare di armamenti nucleari, armi di distruzione di massa… un nord sempre più ricco e un sud sempre più povero.
Come può stare tranquillo, un poeta chiuso nel suo studio a cantare alle mosche sul vetro della finestra? Essere poeta oggi vuol dire cantare anche a tutto questo lutto e a questo dolore provocato dall’uomo stesso, in nome della brama di denaro e della “volontà di potenza”. Fare il poeta oggi non è un hobby, ma una missione. Vivere il “mestiere” della scrittura profondamente, come il missionario dedica la propria vita totalmente al suo credo e alla sua missione. Il mio impegno di poeta migrante ha mille significati: scrivere sia in albanese che in italiano per far avvicinare le sponde, le culture e i popoli della costa adriatica. Insisto, non attraverso l’integrazione, che è una parola pericolosa che devasta le differenze, distrugge le usanze, le lingue e impoverisce le culture e le società odierne, ma attraverso l’interazione, come scambio e arricchimento reciproco. Dobbiamo cominciare proprio dalle parole che sono fondamentali, perché attraverso la parola si materializza il pensiero e si nasconde il carattere di un popolo. E’ per questo che attraverso la mia opera letteraria insegno a tutti ad essere migranti e stranieri, l’arte del dialogo per una nuova convivenza planetaria, creando una nuova poesia che porta il segno e il timbro del tempo in cui viviamo e resistiamo ogni giorno per esistere.

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D. Gezim Hajdari, sappiamo che Lei viene costantemente invitato non solo a livello nazionale, ma anche internazionale, a tenere conferenze, dibattiti su temi riguardanti la Sua poesia, ma anche sulla letteratura e poesia albanese. In che condizioni versa oggi, a parer Suo, lo stato di “salute” della Poesia Italiana?

R. Esiste un fenomeno strano quando si parla della poesia contemporanea italiana. Alcuni studiosi – e giustamente - si lamentano della grave crisi che sta attraversando la poesia oggi, ma quando loro stessi prendono la penna per scrivere, propongono come esempi da seguire per i lettori gli stessi poetucoli!
Penso che il male abita all’interno delle case editrici, che se ne fregano della poesia. Non a caso redattori per la poesia, presso le grandi case editrici sono certi impiegati, che non hanno nulla a che fare con la poesia, in alcuni casi sono gli stessi che si occupano sia per la prosa che per la poesia. Ma c’è di peggio, nella maggior parte, quelli che giudicano i manoscritti poetici sono dei ragazzotti che si spacciano per poeti. Da qui nasce la penalizzazione, il ricatto, lo scambio di favori, la manipolazione dei premi letterari. Spesso i redattori-poeti, che lavorano presso i grandi editori, scambiano favori con i membri o i presidenti delle giurie in cambio di un premio letterario. E’ un cerchio vizioso e squallido. E’ per questo che non si legge più poesia oggi, è per questo che si allontanano gli appassionati dalla poesia, è per questo che i grandi editori spesso non pubblicano la vera poesia italiana che abita fuori dai salotti ufficiali, ma riempiono gli scaffali delle librerie con una poesia patologica, malata, depressa, sterile che non dice nulla, che è solo un gioco di parole assurde e fa venire il mal di testa.
La mafia italiana non esiste solo nella finanza, nell’imprenditoria, nel calcio, nella politica, ma anche nella cultura italiana, anzi, direi che è la mafia più pericolosa e più dannosa. Essa distrugge giorno per giorno la poesia italiana e non solo. La cultura italiana si trova da tempo nelle mani della mafia. Spesso concorsi di vari tipi e premi letterari si trovano nelle mani di alcune signore o di signori che li gestiscono come se fossero proprietà privata. Con i soldi pubblici – stanziati per promuovere la letteratura - questi signori hanno fatto fortuna, acquistando case, appartamenti, investendo nelle banche, ricevendo in cambio gloria e fama, mandando avanti la mediocrità. Tutto questo con la benedizione del potere politico. Non c’è nulla da fare, chi osa denunciare per cambiare le cose, viene schiacciato, boicottato, condannato al silenzio. Sono gli stessi che fecero impazzire impietosamente Dino Campana.
Ormai è cambiata anche la figura classica e tradizionale del poeta e dello scrittore. Oggi s’improvvisano poeti: gli avvocati, i giudici, i notai, i presidenti dei tribunali, i giornalisti della Rai, i comici, i giornalisti dei quotidiani, i segretari della presidenza dei comuni, i commercialisti, gli onorevoli, i senatori, per non parlare dei membri della Pd 2… Il terreno dove l’industria culturale stimola e pesca la letteratura di oggi si estende tra i mafiosi, i pentiti, gli indagati, i scomparsi, i latitanti, i malati depressi, i criminali, gli stressati, gli scomunicati, i drogati… Intanto i “letterati” giudici, psicologi, psichiatri, criminologi.… stanno facendo affari d’oro sulle disgrazie degli altri.

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D. Progetti per il futuro?

R. Tornare sulla mia collina, in Darsìa, nel mio paese natale per dedicarmi all’agricoltura. Ogni domenica, con il mio asinello, scendere al mercato della città di Lushnje per vendere i prodotti del mio terreno quali olive, fichi, melagrane, meloni, angurie, formaggio, come ai tempi della mia infanzia, quando facevo il pastore di capre. Mentre la sera colloquiare con i miei contadini all’aperto sulle faccende quotidiane del villaggio.



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Postato il Domenica, 25 gennaio 2009 ore 19:08:16 CET di Maria Allo
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